di Tristano Codignola

[Testo integrale del discorso pronunciato in Palazzo Vecchio l’11 agosto 1975 per la ricorrenza della Liberazione di Firenze.]

Amico Sindaco, cittadini, compagni,

noti, eminenti rappresentanti della Liberazione fiorentina ci hanno lasciato da poco: da Carlo Levi, che portò – non fiorentino – alle nostre lotte un contributo originale di umanità e di sensibilità critica (vorrei auspicare per lui la cittadinanza onoraria alla memoria), al ferroviere Carlo Campolmi, che con coraggioso fervore dette tutto se stesso all’organizzazione militare del Partito d’Azione e conobbe le inumane torture dei «quattro santi» della banda Carità, all’operaio Alessandro Pieri, condannato dal Tribunale Speciale e poi nel Comando della Divisione Potente; da Eugenio Artom a Giacomo Devoto ad Ezio Donatini che nel Comitato Toscano di Liberazione e nella prima giunta di Firenze liberata prima e nella vita civile poi furono esempio di rettitudine e di coerenza; a due donne, degne di rappresentare il dolore e la fierezza di tante altre, che simbolicamente hanno chiuso quasi contemporaneamente la loro vicenda terrena, così come era accaduto del loro marito e figlio, Enrico Bocci ed Italo Piccagli. E quanti altri che neppure sappiamo se ne saranno andati in silenzio fra i tanti che – come dice Primo Levi – è difficile rivestire di parole, perché stavano tutti nelle loro azioni.

Ma nel doloroso distacco da ciascuno di loro non vediamo chiusa per sempre una parentesi: al contrario, sentiamo sempre di piú che la Resistenza non è e non deve essere patrimonio d’una gloria passata, geloso retaggio d’una generazione di reduci che si assottiglia nel tempo, ma è il cemento della nostra democrazia, la sostanza delle aspirazioni di una gran parte del nostro popolo, dei nostri giovani. Se vogliamo evitare di cadere nella italica retorica, che ha già largamente appannato lo splendore di quelle aspirazioni, se sentiamo tutti chiaramente che il nostro 11 agosto è e deve essere sempre meno una stanca e rituale commemorazione, ma piuttosto una sfida, dedichiamo anzitutto qualche breve riflessione a ciò che fu la Resistenza italiana nella sua essenza storico-politica, alla rottura che essa rappresentò nei confronti della tradizione aulica e moderata dell’Italia monarchica e giolittiana, alla forza di conservazione che tuttavia questa Italia antagonista ha dimostrato, al momento presente nel quale sintomi non confondibili fanno riaffiorare nel nostro tessuto comunitario tensioni ma anche speranze nuove, che ridanno quasi d’improvviso attualità insospettata al messaggio di allora.

La Resistenza italiana, gli studiosi l’hanno da tempo assodato, presenta alcune caratteristiche peculiari ed originali, che converrà qui ricordare sommariamente.

Non nacque dal nulla, come spontaneo moto di resistenza all’invasore, anche se lo fu per la maggioranza dei giovani, ma questo moto s’innestò sul robusto tronco del pensiero antifascista militante che in vent’anni di lotta (da Amendola a Donati, da Gobetti a Matteotti, da Gramsci a Rosselli) aveva individuato alcune linee di analisi del fascismo e della società che ne era stata matrice. Questo dibattito, spesso anche aspro, attraverso vent’anni di dittatura – nelle galere, negli esili, nella clandestinità delle discussioni giovanili, nei giornaletti alla macchia della Resistenza – si tinse delle diverse ideologie ma fu unanime in alcune conclusioni: essere il fascismo solo il processo degenerativo di un male antico, la struttura autoritaria d’uno Stato di origine militare, profondamente avverso alla democrazia, burocratizzato e verticistico. Sicché tutti si trovarono concordi nel ritenere l’abbattimento del fascismo solo la necessaria premessa di un più profondo processo di rigenerazione democratica delle strutture del potere pubblico.

La Resistenza si riconobbe in una esigenza generale di giustizia sociale, teorizzata in forme e gradi diversi, ma presente in tutti; e nel riconoscimento che questa giustizia, per essere vera, non può trovarsi in contrasto con le moderne istituzioni di libertà politica. L’acquisizione dei grandi principi dell’89 al patrimonio ideale, che sta al movimento operaio per primo preservare e difendere, rispetto alla dottrinale interpretazione di quei principi a forme del potere borghese, è un processo ancora in corso: ma sta sotto agli occhi di tutti che puri miti resterebbero egualmente i due grandi principi, se disgiunti l’uno dall’altro. La letteratura della Resistenza ci testimonia della presenza di questo grande problema nella pubblicistica di ogni parte, anche se forse soltanto il gruppo giellista ne fu consapevole antesignano.

L’unità della Resistenza. Si è detto e scritto molto su questo. Certo, nel caldo di una lotta armata per l’abbattimento del nemico comune, l’unità era un imperativo morale, oltreché una esigenza pratica. Ragghianti ha osservato che questa unità fu inoltre conseguenza di un tacito patto democratico: in assenza di istituzioni rappresentative, la pariteticità delle decisioni sembrò essere l’unica garanzia possibile contro ogni sopruso. A mio giudizio, c’è una ragione ancora più di fondo di quella mirabile unità nel dissenso che rappresenta certo un fatto unico nella storia italiana; e questa sta appunto nella esistenza di un consenso che sovrastava i dissensi, per la creazione di una società democratica che rinnovasse dal fondo l’eredità piemontese-umbertina.

La Resistenza, a differenza di qualunque altro movimento politico in Italia (tentativi di riforma religiosa, moti giacobini, Risorgimento, lo stesso movimento operaio di fine secolo) ha mosso grandi masse, ha superato le classi: operai e studenti, in primis, naturalmente i politici; ma anche cattolici e preti, e – fenomeno che trova un precedente solo nella grande delusione dei soldati tornati dal fronte del 15-18 – contadini, tradizionalmente arroccati ai margini della vita politica del paese; e ancora larghi ceti di borghesia, minuta ma anche grassa, moltissimi intellettuali, anche alcuni detentori di potere economico. Un fenomeno dunque nazionale, nel senso gramsciano della parola, non mai nazionalistico o provinciale.

Né l’internazionalismo della Resistenza fu soltanto un effetto del parallelismo dei moti che si attizzarono in Europa contro il tedesco invasore ed il nazismo distruttore; esso è frutto, anche qui, di un giudizio politico, circa la natura tendenzialmente oppressiva dell’onnipotente macchina statale del nostro tempo se non è bilanciata da una democrazia attiva, che faccia della giustizia e della libertà il suo cardine. Certo, è anche assodato dal giudizio storico, capitalismo è matrice d’imperialismo e di tirannia; e tuttavia abbiamo imparato in questi drammatici trenta anni che impe­rialismo e tirannia possono trovare anche diversi strumenti per affermarsi. Le drammatiche testimonianze da Praga del grande studioso marxista Kosić sono un ammonimento. Questo internazionalismo spiega perché il movimento democratico italiano ha sentito come proprie, dall’interno delle diverse formazioni politiche, le più recenti lotte per la libertà di Grecia e di Spagna; perché l’orrore per la dittatura fanatica di Pinochet è stato così generale da consentire all’Italia il grande onore di essere l’unico paese occidentale a non riconoscere quel regime; perché la tragedia del Vietnam, che con così alto eroismo ha subito le terribili conseguenze della logica im­perialista, è diventata anche un dramma del nostro paese, generalizzato, di massa; perché infine l’auspicio generale di tutti è che la sconfitta del salazarismo in Portogallo, dovuta al coraggio di giovani generazioni di militari, non si faccia fuorviare dal suo logico corso, che è quello della democrazia, della giustizia e della libertà, col riconoscimento a tutte le forze politiche presenti del loro posto e del loro ruolo secondo la volontà liberamente espressa dal popolo di quel paese.

Infine, la Resistenza è stata un grande esperimento autonomista, nello spirito intransigente di Emilio Lussu: autogoverno di base, democrazia diretta, orgoglioso sentimento di gestione del proprio destino, si manifestarono nelle forme splendide delle Repubbliche partigiane, da Montefiorino alla Val d’Ossola: e nessuno dimentichi il contributo politico offerto a tutto il paese dall’episodio di autogoverno del Comitato toscano di liberazione nazionale, l’esempio piú avanzato della capacità e maturità di governo civile realizzate dal movimento partigiano.

È a questo insieme di caratteristiche che sono ormai, ripeto, storicamente accertate che fa d’uopo riflettere allorché si afferma che «la Resistenza continua», che la Resistenza si affida ormai piú alle giovani generazioni che a quelle che la fecero. C’è sempre il pericolo d’un tanto di retorica gratuita in queste affermazioni; e tuttavia va confrontato il patrimonio ideale insito nelle caratteristiche che ho sopra rapidamente delineato, e lo stato della nostra società attuale. Uno iato profondo si è venuto a creare in questi trenta anni, nonostante l’operare vivace e spesso produttivo della generazione antifascista, fra le istituzioni, la costituzione stessa, e i giovani. L’opportunismo del sistema, reso inevitabile da un modo di governare attento piú a detenere il potere in strutture arcaiche o cadenti che a risolvere gli enormi problemi della società nazionale, ha offuscato ciò che c’è di piú permanente e sincero nei giovani, il disinteresse, divaricandolo fra l’ambizione smodata e la ricerca astratta di palingenesi totali; li ha distratti dalla concretezza della battaglia politica, li ha visti perfino contestare Resistenza e costituzione come portati della borghesia, con la medesima unilateralità con la quale forze consistenti del movimento operaio ridussero ad analoga qualificazione la concezione stessa delle libertà politiche. Il Sessantotto è stato frutto di questa crisi morale; ma ha lasciato un’eredità importante, quella della lotta contro la democrazia solo formale, mentre democrazia è anzitutto partecipazione reale di popolo alle scelte di ogni ora e di ogni giorno, attraverso strumenti partecipativi che non hanno da sostituire quelli sui quali si asside la democrazia istituzionale del mondo moderno, ma da integrarli, inverarli, proporli alla portata di ogni cittadino. Ha da dire qualcosa, al di là della suggestione di un’epopea, la Resistenza a tutti coloro appunto che, per usare ancora un’espressione gramsciana, aspirano in questa situazione a un ordine nuovo?

La Resistenza, si è detto, si trovò unita intorno a due nodi d’azione: la distruzione radicale del fascismo – se non distrutto, distrugge tutto il resto di vita sociale –; una grande opera di rifondazione democratica delle strutture del paese, strutture tramandate da una tradizione monarchico-autoritaria, che fu la matrice del fascismo. Questa era la sostanza del patto che ci unì.

La monarchia è stata travolta; con essa, sembrava lo fosse anche il fascismo. Ma (c’è chi lo disse fin dal 1946-1947, ed è oggi principio di riconoscimento comune) il fascismo non ha una sua vita autonoma, si annida nelle connivenze, nelle compiacenze, nelle debolezze di un sistema clientelare che media fra democrazia puramente parlamentare e incontrollati poteri reali (quello economico prima di tutto, quello dei corpi separati dello Stato, quello della burocrazia). La svolta del ’46, con la fine del governo di liberazione nazionale, fece prevalere il principio della continuità dello Stato, di quello Stato, non di un altro. Via i prefetti, si invocava sulle strade nel ’45, con un profondo anelito di autonomia di base che stava al fondo della Resistenza: ma l’opera politica intrapresa nel ’46 (mentre tutta Italia era protesa in uno sforzo gigantesco per la ricostruzione materiale) favorita dalla grande crisi internazionale andava in senso opposto, non modificare la sostanza, anche se si modificano gli attributi, i nomina rerum. La lunga stagione di discriminazione antipartigiana, la spaccatura del paese, la tentazione di valersi di ogni istituzione (Chiesa compresa) a fini di conservazione se non di reazione, la lunga dolorosa attesa che si attuassero finalmente i precetti costituzionali (la costituzione tradita di Calamandrei), tutto questo ha determinato progressivamente una discrasia, una contraddizione insuperabile fra la costituzione, il cui spirito integralmente antifascista è anche uno spirito d’innovazione democratica avanzata, e la realtà sempre piú chiusa in se stessa, spesso meschinamente detentrice di puro potere, che si andò progressivamente realizzando nel paese. In questa struttura del nostro Stato il fascismo sarebbe rinato anche senza bisogno del Msi perché le era congeniale; ma divenne anche un immediato pericolo perché, anziché essere messo da tutte le forze politiche al bando della nazione, come costituzione impone, si giocò con esso a rimpiattino, giungendo perfino a richiederne il sostegno parlamentare.

Se la prevalente responsabilità politica di questa situazione è ben nota, mi sia permesso di affermare che responsabilità non mancano neppure nel comportamento delle sinistre italiane, troppo spesso indotte da astuti calcoli pseudopolitici a sopportare l’esistenza di questo mostro che va finalmente messo fuori legge (il compagno Terracini ha ragione), a sopportare l’obbrobrio che il libero parlamento italiano lo finanzi al pari degli altri partiti politici democratici, travolgendo in una bassa operazione di regime un provvedimento che avrebbe dovuto essere di alto contenuto democratico.

La rinascita del fascismo (con i suoi consueti e ben noti corteggi di distruzioni, violenze, stragi) non poteva che essere la conseguenza della continuità dello Stato. Se lo Stato che si perpetua è strutturalmente capace di generare il fascismo, il fascismo risorge. Dobbiamo combatterlo dunque sul suo terreno: quello della repressione certo, ma anche quello della trasformazione dello Stato. La storia delle riforme mancate in questi trent’anni è l’allucinante storia di una classe dirigente che tutto sommato riteneva che non ci fosse granché da riformare, e la cui forza si è spesa nell’ostacolare, fer­mare, ridurre ogni sforzo che si potesse o volesse compiere per avviare il processo di rifondazione dello Stato.

Dopo trenta anni siamo a questo punto: distrutta la monarchia, creata la costituzione e finalmente completata nei suoi istituti fondamentali con la nascita della Regione; nulla di fatto, se non marginalmente, nella riforma degli istituti, e quindi rinascita del fascismo; un costume pubblico profondamente corrotto.

C’è posto, oggi, per la Resistenza? siamo qui a celebrare un rito o a riprendere un processo ostacolato e interrotto?

Non mancano i segni d’un cambiamento di rotta, d’un giro di boa. Ne citerò due, che mi sembrano significativi.

Nuovi fermenti emergono nella Giustizia, il corpo separato che finora ha maggiormente simbolizzato quel principio della continuità del vecchio Stato, che di fatto ha interrotto il moto resistenziale. All’opera di pochi coraggiosi magistrati giovani, gli Stiz, i D’Ambrosio, i Tamburino, i Violante, che per primi hanno compreso di che cosa fossero fatte le trame nere, quali pericoli rappresentassero per la comunità nazionale, segue ora la richiesta della Procura generale di Roma di autorizzazione a procedere contro tutti i maggiori esponenti parlamentari del Msi: un fatto che, comunque lo si giudichi per i suoi aspetti politici, è una svolta di grande significato; un fatto preparato dalla generosa iniziativa di un magistrato che appartenne anch’egli alla Resistenza fiorentina, Bianchi d’Espinosa.

D’altronde, un altro corpo separato, la scuola, viene attraversata per la prima volta in senso positivo dal vento impetuoso di un rinnovamento democratico, che apre grandi spazi di cogestione. L’impegno col quale il paese, a cominciare dalla gente più umile, ha realizzato la legge che istituisce organi di governo democratico è l’indice di un bisogno che si è andato maturando, di una pressione partecipativa alla quale occorre dare gli strumenti di sbocco.

Ma più in generale, il paese, nonostante la gravità della crisi economica, è uscito dal letargo, capisce che bisogna intervenire, capisce che senza modificare le strutture si ricade nel baratro antico: si pronuncia, col deciso apporto delle donne e di forze cattoliche, per il divorzio; chiede diverse condizioni di vita nelle caserme e nelle carceri; pone all’ordine del giorno il problema dell’aborto, un problema fatto d’infinite ed oscure pene, che colpiscono soprattutto le classi popolari; sbocca nel 15 giugno che non è una sconfitta dei cattolici per quello che essi hanno fatto di autonomo e di valido nella Resistenza e dopo la Resistenza, ma il principio della liberazione di questi cattolici dal pesante soprappotere del conformismo e del clientelismo. Non è un caso che alla raccolta dei relitti del naufragio di un modo non piú sopportabile di gestire il paese sia chiamato ora (quasi per un segno provvidenziale, amico La Pira?) un uomo come Benigno Zaccagnini: un valoroso combattente della Resistenza, che avrà un compito difficile ma al quale auguriamo di saper sconfiggere i grandi e i piccoli profittatori.

È in questa temperie che autorizza speranze ma invoca un impegno da troppi anni sconosciuto, che si pone il problema primario delle autonomie locali. La Resistenza fu soprattutto un movimento autonomista, la formazione di una costituzione di autonomie democratiche. Il mostruoso potere dello Stato moderno trova il contropotere necessario in istituzioni locali che non dipendono da lui, ma traggono dal popolo la propria legittimazione. La storia della democrazia inglese ci ricorda che la democrazia è nata come lotta contro il potere regio, contro i baroni, contro i vassalli dei baroni; è nata come organizzazione autonomistica dei poteri. L’Italia non è l’antica Atene, dove nell’areopago si decideva con voto diretto; il sistema della rappresentanza politica, che la democrazia francese portò a perfezione, non sembra sostituibile in una società davvero pluralista, e va difeso senza equivoci e debolezze; ma esiste anche un livello di problemi, che investono la vita di ogni giorno di ogni uomo, che devono essere risolti nelle loro sedi, con tutte le mediazioni opportune, ma a contatto diretto del popolo. Vi è una differenza sostanziale di qualità, anche se il tema non è stato sufficientemente saggiato in sede teorica, fra potere politico generale, e potere di amministrazione locale.

Il 15 giugno deve segnare una ripresa di volontà autonomistica, come il prossimo appuntamento elettorale dev’essere una ripresa di volontà riformatrice. Lo Stato repubblicano si rifonda in due modi diversi, attraverso un nuovo tipo di gestione amministrativa locale che si attui con la piú larga partecipazione dei cittadini (attraverso forme nuove di democrazia diretta) e degli eletti (attraverso una gestione quanto piú possibile collegiale), mediante un nuovo modo di fare politica al centro, in altre parole mediante un grande impegno riformatore, che cominci a fare ora quello che non si fece nel trentennio che sta alle nostre spalle, e che determini linee di dialettica politica diverse da quelle che conosciamo. Chi vuole riformare, rendere democratico nelle cose questo Stato che lo è soltanto negli istituti, sta su una sponda; chi resiste a questo moto ineluttabile della storia, dall’altra. Democrazia esige che le forze si misurino apertamente; da parte nostra, sappiamo che l’altra sponda può essere matrice di fascismo, e che perciò nella nuova Resistenza (un’espressione che evoca il ricordo di un giovane fiorentino troppo presto scomparso, generoso antesignano di questa visione di conti­nuità nella Resistenza, Alberto Scandone) questi due momenti, gestione collegiale e partecipata dell’amministrazione locale, politica coerente di riforma al vertice, sono paralleli, egualmente importanti per una compiuta democrazia.

La Regione, che inizia ora il suo cammino con pienezza di poteri, tanto a lungo contestati, può diventare il primo momento di confronto tra vecchio e nuovo: guai se essa dovesse ridursi ad un microcosmo rispetto al macrocosmo rappresentato dall’attuale nostro Stato. È dalla Regione, dal nuovo costume che essa saprà (se saprà) determinare, dal nuovo tipo di connessione con le altre istituzioni locali della sovranità popolare, dalla capacità di cogliere quel misterioso movimento della storia che passa attraverso il popolo e che è appunto compito della democrazia di svelare ed accompagnare, che potranno crescere nel paese nuove classi politiche, nuove mentalità, nuove condizioni d’incontro e di unità. Non siamo convinti che finora in ogni caso e in ogni occasione le neonate Regioni abbiano compreso questo loro compito storico: e tuttavia non è una occasione da perdere. Come non potranno perderla i partiti, che troppo si sono adeguati nel loro costume interno e nelle loro strutture al costume ed alle strutture di uno Stato in crisi; né lo potranno i sindacati, cui spetta debellare ogni degenerazione corporativa ed ogni tentazione giustizialista. Il cammino della Resistenza può riprendere per raggiungere i suoi obiettivi solo in presenza di tali nuove realtà.

Rivalutando la profonda forza innovativa della tradizione di Cattaneo, di Pisacane, di Ferrari in una storia nazionale dominata dal conformismo ferreo e dai privilegi di casta e di censo, che fu battistrada al fascismo, offriremo anche ai giovani l’occasione di impegnarsi con una realtà vera, di farsi protagonisti della loro storia, che è tutt’una con quella della comunità nazionale. Dietro l’imma­gine squallida della gioventù senza fede di Pasolini sta l’enorme potenzialità democratica che vi è custodita: questi giovani li conquisteremo, se li faremo combattere con noi per uno Stato delle democrazie, dunque per lo Stato della Resistenza.

Anche nella nostra Firenze, le forze del progresso hanno ripreso il sopravvento. A te, compagno Gabbuggiani, nuovo sindaco del 15 giugno, va l’augurio delle forze toscane della Resistenza di ridonare a Firenze il prestigio democratico che le compete, nella tradizione popolare di Gaetano Pieraccini e di Mario Fabiani, nella dimensione internazionalistica che caratterizzò la Giunta di Giorgio La Pira e di Enzo Enriques Agnoletti.

Nel passaggio simbolico del vittorioso Pegaso toscano – lo stemma del Comitato toscano di liberazione nazionale – nelle mani della neonata Regione sta il segno di una ripresa di coscienza dei compiti nuovi ed inediti che a ciascuno di noi cittadini, vecchi e giovani, stanno di fronte; di una comune responsabilità da assolvere perché la democrazia italiana, sul solido sostegno del consenso popolare, sia capace di diventare impegno di ognuno, esempio di civiltà e di progresso.

TRISTANO CODIGNOLA

Non avrei passato al «Ponte» il testo del mio intervento in occasione della annuale celebrazione della Liberazione di Firenze se non ne fossi stato indotto dalla polemica che certi ambienti della Dc hanno scatenato intorno ad esso, dopo che la stolida burbanza di alcuni neoeletti consiglieri dc li aveva indotti a un gesto plateale, l’uscita per protesta dalla Sala dei Cinquecento (forse per rinverdire l’altrettanto stolida iniziativa fanfaniana al Congresso del Pci, che trasse pretesto dalle vicende portoghesi).

Chiunque legga il testo del discorso con un minimo di obiettività dovrà riconoscere che non solo esso reca omaggio a quella minoranza di cattolici antifascisti che operarono prima e durante la Resistenza, ma dà un riconoscimento a quanto la stessa Dc ha successivamente fatto di valido nel trentennio che ci sta alle spalle, ed esprime fiducia al “nuovo corso” che auspichiamo possa trarre origine dalla segreteria Zaccagnini. Ma in un sintetico quadro della vita pubblica italiana dal ’45 ad oggi non poteva certo mancare un esplicito accenno alle particolari responsabilità della Dc nella gestione di un potere quasi senza confini di cui ha potuto disporre, alla involuzione clientelare e mafiosa di gran parte della sua dirigenza centrale e periferica, alla insensibilità nei confronti dell’antifascismo dimostrata in occasione dell’alleanza parlamentare del governo Zoli e di Tambroni col Msi (con le conseguenze politiche che sono a tutti note). La Dc si è limitata a rispondere con manifestazioni di sdegno che non convincono nessuno.

«Faziosa e assurda interpretazione» («Popolo» del 14 agosto); «ingiustificato attacco alla Dc e alle forze politiche che hanno guidato la rinascita del paese nella libertà» (dichiarazione del gruppo consiliare del 12 agosto); «illogico e provocatorio intervento» («Popolo» del 15 agosto); «assurde ed ingiuriose le dichiarazioni, dirette fra l’altro a dividere i cattolici che parteciparono alla guerra di liberazione» (consigliere ex partigiano Gino Batisti); «i democristiani fiorentini non accettano lezioni di antifascismo e di democrazia da altri» («Popolo» del 14 agosto); «tra le righe dell’orazione di Codignola si trova l’affermazione che il partito democratico-cristiano sia un equivoco ideologico e storico» («L’Osservatore Toscano» del 24 agosto); «T. C. non ha insultato solo la D.C. ma ha insultato anche le altre forze politiche democratiche e tutto il popolo italiano. […] Nel prospettare le sue tesi aberranti, s’è fatto guidare da quella viscerale faziosità che ha rapidamente seppellito il Partito d’Azione e che ha seminato scorie corrosive negli schieramenti politici in cui si è dispersa la diaspora azionista» («Popolo» del 12 agosto). «Una falsificazione storica non solo grottesca ma aberrante» («Avvenire» del 13 agosto).

Questa breve crestomazia dei commenti della stampa democristiana costituisce lo specchio del profondo disorientamento, politico e culturale, in cui la risposta dell’elettorato del 15 giugno ha gettato il potere per trent’anni egemone nel nostro paese. Quos vult perdere, Deus amentat: è un antico adagio, che potrebbe applicarsi al caso in questione: guai a chi non sa perdere!

L’episodio potrà servire comunque a disincagliare dalla morta gora del mito celebrativo le “commemorazioni” resistenziali. Non penso che la fittizia unità di queste celebrazioni avvantaggi lo sviluppo della democrazia italiana; qualunque possa essere la politica contingente del Pci, non credo che la grande forza di questo partito possa trarre utilità dai compiacenti silenzi coi quali si cerca di smorzare episodi del genere, considerati “scomodi”. Sono persuaso che la trasformazione democratica del paese debba necessariamente coinvolgere anche larghe forze cattoliche: ma su una piattaforma politica di leale chiarezza, capace di dividere senza equivoci posizioni storicamente e culturalmente avverse e sostanzialmente inconciliabili. C’è altrimenti il rischio di un generale naufragio nel grande mare del trasformismo. (T. C.)

UN COMMENTO

Nel giugno 1977 – due anni dopo questa commemorazione – Codignola scriveva: «la Resistenza italiana – si sa – non fu soltanto patriottica, ma anche rivoluzionaria. Questo fu lo spirito dei Cln nella lotta: ci si illuse che lo fosse anche nella vittoria, nella ricostruzione. Il Cln aveva segnato la convergenza di tutte le istanze democratiche contro il fascismo: il fascismo era vinto. Come ricostruire? È ben noto in quali termini si giocò la partita fra il ’45 e il ’47. Sul tema della ricostruzione dello Stato, l’unità antifascista si spaccò, perché divisa nell’interpretazione della natura storica del fascismo: si ripeté in certo senso l’incomunicabile frattura fra aventinismo prefascista (che giudicava transeunte perché irrazionale il fascismo) e giovane generazione (da Gramsci a Gobetti, da Rosselli a Matteotti) che diagnosticava il fascismo come acuta espressione morbosa di un corpo già costituzionalmente malato. La continuità dello Stato di De Gasperi, cioè la persuasione che occorresse ricongiungersi alle strutture risorgimentali di tipo piemontese della nuova società nazionale, e non alle ipotesi democratiche rimaste soccombenti dei Pisacane e dei Cattaneo, riuscì a prevalere sulla strategia opposta, della cesura con quello Stato, che portava nel suo grembo il fascismo […], per la fondazione di una repubblica delle autonomie, dell’autogoverno, del decentramento del potere economico e politico»1.

E molti anni prima, in un articolo apparso sul periodico clandestino «La Libertà», significativamente intitolato Introduzione allo Stato autonomistico, sosteneva che l’autonomia è «una delle condizioni indispensabili, forse la più necessaria, della ricostruzione dello Stato italiano. […] Agilmente articolato sul solido telaio delle autonomie locali, lo Stato sarà davvero per la prima volta una sintesi e una guida, troverà finalmente un’atmosfera più lucida e più tersa in cui porsi e realizzarsi come democrazia integrale, instauratrice ad un tempo, indissolubilmente, di libertà politica e di giustizia sociale»2.

La constatazione che il “come ricostruire” sia stato tradito attraversa tutta quanta questa commemorazione e il “tradimento” è fondamentalmente dovuto alla riaffermazione delle strutture risorgimentali di tipo piemontese. C’è qui una polemica neppure troppo velata con tutti coloro che hanno voluto raccordare la Resistenza con il Risorgimento e l’hanno addirittura chiamata «quarta guerra d’indipendenza» dimentichi che a differenza del Risorgimento la Resistenza «ha mosso grandi masse, ha superato le classi», coinvolgendo il mondo contadino tradizionalmente arroccato ai margini della vita politica del paese.

Dunque, con la Resistenza si apriva una grande possibilità, sconosciuta a tutta quanta la precedente storia politica italiana: la creazione di uno Stato organizzato sulle autonomie locali, sull’autogoverno di base, sulla democrazia diretta, prendendo a esempio le «forme splendide delle Repubbliche partigiane, da Montefiorino alla Val d’Ossola e all’autogoverno del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, l’esempio più avanzato della capacità e maturità di governo civile realizzato dal movimento partigiano».

Come e qualmente questa possibilità cada nel nulla lo si deve, secondo Codignola, alla politica di Togliatti unita a quella di De Gasperi, una politica che propone soluzioni impreviste, o per lo meno imprevedibili, alle giovani generazioni resistenziali.

Togliatti, che già con la Svolta di Salerno aveva proposto e imposto ai militanti del Pci una politica antitetica a quella del Cln, consapevole dei limiti di Yalta, ritenne fondamentale il mantenimento del rapporto con il mondo cattolico, per quanto il cattolicesimo fosse elemento potente di stabilizzazione, al fine di non perdere una futura potenzialità di governo. Da parte sua De Gasperi era cosciente che occorresse evitare sia che la “rottura” resistenziale comportasse la fine della “continuità dello Stato”, sia che la fine dell’istituzione monarchica trascinasse con sé la fine dello Stato burocratico dei prefetti. Per un risultato del genere, niente di meglio del Concordato, non tanto in quanto incontro tra Vaticano e Repubblica italiana, quanto invece reciproco sostegno delle aspettative del “partito nuovo” di Togliatti e della Democrazia cristiana di De Gasperi.

«Non è a caso – commenta Codignola – che la rottura politica del ’47 […] abbia luogo solo dopo che De Gasperi si sia garantito il risultato fondamentale, quello appunto di assicurare il necessario appoggio comunista ad una Costituzione che istituzionalizzi il compromesso concordatario. Il carattere appunto di compromesso che la Costituzione assume spegne l’impeto rinnovatore della Resistenza, e fa della Costituzione un testo significativo, le cui “promesse” sono molto più vaste e potenziali delle sue “attuazioni” immediate. Questa divaricazione fra promesse costituzionali e realtà politico-legislativa degli anni ’50 è il leit-motiv della accanita battaglia di Calamandrei nei confronti della Costituzione inattuata o tradita»3.

A me sembra di grande interesse questa interpretazione del Concordato, tutto quanto giocato sulla politica interna e che ridimensiona anche la componente, se non “rivoluzionaria”, almeno “innovatrice” della Costituzione in quanto il «compromesso concordatario» riporta l’Italia a quella continuità dello Stato di tipo piemontese che la Resistenza aveva proposto di distruggere.

E tuttavia, a chiusura di questa commemorazione, Codignola si lascia andare a una fievole speranza: la Regione, che non è «una occasione da perdere». Ma sarà un’occasione se saprà riproporre e reinterpretare l’esperimento autonomista che la Resistenza presupponeva. «Non siamo convinti – concludeva Codignola – che […] le neonate Regioni abbiano compreso questo loro compito storico». E purtroppo aveva colto nel segno.

MARCELLO ROSSI

1 T. Codignola, Svolta nella nebbia, «Il Ponte», n. 6, giugno 1977.

2 «La Libertà», n. 13, 10 settembre 1944.

3 T. Codignola, Scuola pubblica e scuola privata, «Ulisse», novembre 1977.