di Mario Pezzella

La terza serie di Gomorra è ben fatta, un buon prodotto di genere, che non ha nulla da invidiare a quelli americani. Stupisce però che Saviano, i registi, gli attori rispondano con profonda irritazione quando gli si pone il problema di una eventuale identificazione dello spettatore con i personaggi criminali. Eppure che una possibilità del genere esista lo aveva notato lo stesso Saviano in Gomorra libro, descrivendo l’oscura fascinazione che attrae i seguaci del capo camorrista e non si lascia ridurre a motivazioni unicamente economiche e utilitarie: “Avere potere per dieci anni, per un anno, per un’ora. Non importa la durata: vivere, comandare per davvero, questo conta. Vincere nell’arena del mercato e arrivare a fissare il sole con gli occhi come faceva in carcere Raffaele Giuliano, boss di Forcella, sfidandolo, mostrando che il suo sguardo non si accecava neanche dinanzi alla luce prima”. Questo godimento osceno del potere, spinto fino alla distruzione e all’autodistruzione, fa parte del lato oscuro dell’economia del capitale, che nel parossismo criminale si esprime senza riserve, si espone nella sua radicalità.

Il rischio è di prendere alla lettera questa ideologia da “samurai liberisti”, che conferisce ai personaggi una tonalità eroica, come accade in effetti in tanta cinematografia sull’argomento, da Scarface al Padrino. Fino a giungere al paradossale scambio, per cui il criminale vero modella il suo comportamento secondo l’affascinante icona del male che la società dello spettacolo ha costruito o sta costruendo per lui: “I camorristi debbono formarsi un’immagine criminale che spesso non hanno e che trovano nel cinema…; si racconta a Casal di Principe che il boss aveva chiesto al suo architetto di costruirgli una villa identica a quella del gangster cubano di Miami, Tony Montana, in Scarface. Il film l’aveva visto e rivisto. L’aveva colpito fin nel profondo, al punto tale da identificarsi nel personaggio interpretato da Al Pacino” (Saviano, Gomorra). Nel romanzo Saviano riesce a rompere il meccanismo identificatorio del lettore introducendo una drastica cesura, che capovolge il corso dell’intenzione, e introduce un’alterità radicale rispetto alla guerra di camorra: il capitolo sul terribile omicidio di don Peppino Diana. In altri modi, anche il bel film di Garrone tratto dal libro riusciva allo stesso esito.

Non mi pare, almeno finora, che ciò accada nella serie in corso: nelle quattro puntate che ho visto, il mondo criminale appare ermeticamente chiuso in se stesso, in un dramma totalmente autoreferenziale, in cui non compaiono elementi esterni, né qualcuno che sia estraneo al “sistema” in quanto tale: modello già seguito dal Padrino, che a sua volta riproduceva la cupa chiusura delle corti nei primi drammi storici di Shakespeare. Saviano stesso è stato costretto a riconoscere che i personaggi della serie un qualche effetto emulativo lo suscitano: nel romanzo La paranza dei bambini, tre degli appartenenti alla paranza sono “pettinati alla Jerry Savastano”.

Perché non ammettere che il problema esiste? In una moralità scissa come quella del capitalismo attuale, che comanda allo stesso tempo il rispetto della legge e la sua necessaria violazione nell’affermazione illimitata del godimento e della potenza, come stupirsi se lo spettatore si identifica con coloro che incarnano questo lato oscuro dell’ordine sociale, col loro cupo, cinico e in certo senso ascetico eroismo? I grandi registi del genere noir, come Hitchcock, innescavano il meccanismo di identificazione col male per poi incrinarlo e distruggerlo, con un colpo di scena che modificava il punto di vista dello spettatore. L’eroe del male, il superuomo negativo, esercita la sua fascinazione ma rivela poi anche l’aspetto grottesco e buffonesco della sua sovranità (ciò accade anche nei film di Orson Welles, per esempio nello Straniero). Anche qui c’è dietro un modello shakespeariano: chi non si identifica sotterraneamente con Riccardo III (soprattutto se è interpretato da Al Pacino, che gli ha dedicato un suo film)? Però poi Shakespeare lo mostra anche nella sua scoperta imbecillità, quando è ridotto a dar via il suo regno per un cavallo.

Gli autori della serie affermano che in essa si mostrano anche gli atti efferati e crudeli compiuti dai protagonisti: chi mai potrebbe identificarsi con loro? Ma purtroppo viviamo in una condizione sociale in cui perfino un boia come Mladic, responsabile della strage di Sarajevo, è stato considerato un eroe dal suo popolo, proprio perché aveva saputo sorpassare ogni limite (come uomini più comuni magari desiderano, ma non hanno il coraggio di fare). Non è l’orrore per l’atto crudele che distoglie lo spettatore dall’identificazione, se tale atto richiede comunque un coraggio disumano (rappresentato come più che umano): è un’altra verità, più profonda, e cioè che proprio l’atteggiamento eroico stesso è posticcio e grottesco, è una rappresentazione ideologica e non una realtà. Uccidere nel modo più spietato il proprio concorrente e rivale che vorrebbe fare lo stesso con te non incrina ma anzi rafforza l’aura eroica del personaggio: uccidere un innocente rivela invece – più ancora che la sua crudeltà – la sua misera stupidità. E in effetti i capi di camorra, oltre un certo limite di tensione, rivelano un’improvvisa e patologica idiozia (Cutolo insegna).

Riuscirà la serie in corso a proporre un simile rovesciamento del punto di vista? Perché è questo a trasformare un buon prodotto di genere in cinema critico-espressivo.