di Mario Pezzella

Il potere, nella società dello spettacolo, esercita una sovranità scissa e divisa tra una superficie pubblica legalitaria e morale e un risvolto osceno e oscuro. Ci sono regole dell’ombra che occorre conoscere anche meglio di quelle dello Stato, molto più inflessibili, benché non scritte.

Il lato osceno del potere, come lo chiama Žižek, è governato da una pulsione di morte e di godimento, in contrasto con la morale accettata alla luce del giorno e tanto più inesorabile nei suoi imperativi, quanto più questi sono inscritti nella prassi reale e non nei codici giuridici. Un caso semplice e comune: nei corpi militari e nei colleges americani è proibita ufficialmente ogni forma di abuso contro le reclute e le matricole; ma in realtà occorre obbedire all’imperativo di trasgredire questa legge e praticare la violenza “iniziatica” indispensabile a fissare la gerarchia e le relazioni libidiche tra i membri del gruppo; senza questo non ci sarebbe nemmeno l’ordine di superficie. Qualcosa deve essere fatto, che non può essere detto, e l’imperativo dell’ombra deve raddoppiare quello della luce, eliminando gli ingenui che non lo comprendono. I diritti del cittadino suppongono l’esistenza della gerarchia oscena del sottosuolo, e questa inversione continua dell’alto e del basso, dell’etico e dell’osceno è una piega che attraversa ormai ogni relazione sociale del capitalismo, a cominciare ovviamente da quelle sessuali. Il capitale instaura un ordine simbolico contraddittorio e inconscio.

Questa correlazione tra oscenità e sovranità sembra emergere clamorosamente negli attuali scandali sessuali di Hollywood (il caso Weinstein): per fare l’attore e l’attrice devi offrire l’immagine ideale richiesta dall’America puritana e insieme accettare la gerarchia di potere dell’osceno che impone quanto meno di “lavare i piedi” ai poco evangelici profeti di turno del potere mediatico. Le due cose sono contraddittorie? Certo, ma non c’è nulla di casuale in questa contraddizione. È il risvolto psichico e morale del doppio comando del capitale, sospeso tra un incremento illimitato e sfrenato del consumo, del godimento e della potenza, e la necessità di porre limiti e dighe a questo stesso sfrenamento, ricodificarlo per non renderlo generale e incontenibile.

Il caso Weinstein potrebbe avere inferto un colpo mortale all’antica arte della seduzione: da sempre sospetta, del resto, perché il suo regno è sempre stato quello dell’immaginario, della simulazione e dell’illusione, poco amato dai filosofi e dai moralisti: ma d’altra parte necessaria – sembra – a quel primo passo dell’amore che nasce dalla “cristallizzazione” (così la chiamava Stendhal) e cioè dalla seduzione irragionevole esercitata dalla persona amata. È sempre stato molto difficile fissare codici di comportamento precisi alla seduzione, determinare il limite preciso del lecito e dell’illecito: perché la seduzione era affidata alla presenza di spirito che coglieva il possibile nel contingente, il gesto opportuno nell’attimo stesso in cui era concesso, la misura istintiva e consapevole di ciò che l’altro ammette in quell’attimo. Quest’arte della precisione nell’indefinito è destinata a scomparire, tra uomini che sanno solo smanacciare rozzamente e donne che si contraggono terrorizzate da una possibile aggressione. Del resto, la scomparsa della seduzione è solo un capitolo in margine a quella più generale del tatto, già notata da Adorno alla fine degli anni trenta, sia nella grossolanità del comportamento totalitario che in quella dei poteri nuovi dell’industria culturale: “Dietro la demolizione pseudodemocratica delle formalità… dietro l’apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura brutalità”.

È lecito tuttavia nutrire qualche dubbio sui processi mediatici dei casi di abuso, fatti in rete senza contraddittorio, senz’analisi dei fatti specifici, senza distinzione di contesto e di gravità. Come pure mi sembra preoccupante il tentativo di impedire a Polanski la presentazione dei suoi film alla Cinémathèque di Parigi: come se ogni colpevole fosse irredimibile e segnato dal male in ogni piega della sua vita. Se così fosse bisognerebbe anche oscurare i film di Pasolini e di Fassbinder, i libri di Genet, e forse anche i quadri di Caravaggio (tutti tipi che si sono comportati non granché bene almeno quanto Polanski). Si trascura il fatto che l’opera trascende spesso l’autore, perché in essa egli cerca di dare immagine oggettiva al male che è in lui ed è sparso nella vita quotidiana di un’epoca. I reati di un regista o di uno scrittore, se accertati, vanno perseguiti, anche se esistono casi discutibili (e molto sono stati discussi), come quelli di Oscar Wilde o di Verlaine; ma che la condanna si estenda alla censura sulle opere, in cui cercano di riflettere, di comprendere e di esporre il male che hanno scoperto in se stessi, costituisce una lesione culturale, di cui i puritani-osceni signori dello spettacolo non potrebbero che essere felici.