di Stefano Lanza

Nel 2005 un inventivo speechwriter suggerisce all’allora segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, l’espressione outposts of tyranny («avamposti della tirannide») per indicare sei paesi del globo caratterizzati da regimi totalitari. Nel frattempo ci sono state fluttuazioni, riavvicinamenti (per esempio la distensione tra Stati Uniti e Cuba o il breve disgelo con l’Iran nella presidenza Obama) e riallontanamenti, cosicché forse il numero delle «società della paura», le fear societies contrapposte con fine assonanza alle free societies, le «società libere», si può considerare a oggi invariato. Nel gruppo di irriducibili sarebbero dunque da confermare – salvo cambiamenti intercorsi a decorrere dalla stesura del presente contributo – tre Stati asiatici (l’immancabile Corea del Nord, l’Iran, la geopoliticamente più defilata Birmania), uno africano (lo Zimbabwe), Cuba e la Repubblica di Bielorussia. Da considerarsi probabilmente implicita aggravante è che quest’ultima è una nazione europea, il continente cioè dove ha avuto i natali la democrazia e dove sono stati posti i principi del libero pensiero e dei diritti della persona, uomo e cittadino.

Presidente della Bielorussia è Aliaksandr Lukashenka (o anche Lukashenko, Lukašenko, a seconda della traslitterazione dal cirillico1), politico sessantenne cui bisogna riconoscere, se non la coerenza, almeno una certa resilienza. Parlamentare nel 1990, l’unico oppostosi all’Accordo di Belavezha per la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ebbe buon gioco quale presidente della commissione anti-corruzione nel denunciare una settantina tra politici e funzionari suscitando uno scandalo nazionale che portò all’indizione delle presidenziali nel 1994. Già vincitore in pectore al primo turno con il 44,8% dei voti, superò al ballottaggio il suo avversario, allora premier e in un primo tempo dato per favorito, con uno schiacciante 80,1%. Va detto che in questa occasione gli osservatori internazionali non avanzarono critiche su un possibile carattere antidemocratico delle elezioni e anche l’equilibrata rivista online di cose bielorusse, il «BelarusDigest», le ha definite come «prime e uniche relativamente democratiche».

Forte dunque di un reale consenso popolare, Lukashenka rimodellò nel biennio successivo l’intera macchina dello Stato. E lo fece andando in senso contrario all’orientamento mondiale, bloccando cioè i processi di privatizzazione selvaggia posti in essere nelle economie del gruppo ex sovietico. L’effetto fu di evitare un periodo di caos e di conservare posti di lavoro. Il controllo centralizzato dell’economia e l’enorme impianto di previdenza sociale rendeva di fatto la Bielorussia l’unico paese dove il modello comunista anche dopo il disgregamento dell’Urss era rimasto pressoché immutato. La libera impresa costituiva attività consentita, ma marginale a causa del carico fiscale e del quadro legislativo complessivamente sfavorevole. Il prezzo di questa continuità e stabilità politica fu l’isolamento. I prodotti delle industrie bielorusse continuarono a soddisfare il mercato interno e quello dei paesi ex sovietici, in particolare il più grande, quello della Federazione Russa. La componente principale dell’economia bielorussa rimane comunque ancora non la produzione industriale, ma l’importazione, la lavorazione e la riesportazione di materie prime. Negoziando condizioni favorevoli con il potente vicino, la Bielorussia ha potuto godere negli ultimi 25 anni di un’economia abbastanza salda, ma quasi interamente dipendente dalla Russia.

Per assicurare al paese stabilità politica – secondo il suo concetto di “stabilità” – Lukashenka già dopo il primo anno di mandato si pone il problema del mantenimento della posizione conseguita, facendo leva sul plebiscito popolare che gli aveva consegnato il potere. La strada scelta è grosso modo quella che ben descrive Franco Venturini come ricetta per una dittatura di successo, vale a dire «il partito unico, l’informazione gestita, le elezioni fatte in casa, il controllo poliziesco». Così nel 1996 chiamò al referendum i bielorussi per decidere, tra le altre cose, sul prolungamento della durata del mandato presidenziale, il conferimento del potere legislativo al presidente e su questioni “minori” quali l’abolizione della pena di morte. La vittoria del ai primi due quesiti e del no al terzo, inquadrabili rispettivamente come violazione del principio della separazione dei poteri e violazione dei diritti umani, garantirono alla Bielorussia il bando dal Consiglio d’Europa. Da questo referendum in poi nessuna consultazione elettorale in Bielorussia è stata riconosciuta dall’Osce come fondata sugli standard democratici.

Le elezioni del 2001 per il secondo mandato portarono a risultati che solo la Russia e gli Stati della Csi ritennero democratiche. Lo stesso era avvenuto nelle politiche dell’anno precedente, dove non bastò l’elezione di alcuni esponenti dell’opposizione a convincere gli osservatori occidentali, e lo stesso sarebbe avvenuto in quelle a seguire, partendo dal simbolico 2004, l’anno dell’allargamento a Est dell’Unione europea. Il Parlamento bielorusso, che si articola in Camera dei rappresentanti (camera bassa) e Consiglio della repubblica (camera alta), ha sempre avuto, a partire dalla sua fondazione nel 1996, un assetto particolare che non è quello del partito unico, anzi, la stragrande maggioranza è composta da deputati apartitici. Nel Parlamento attuale sono 94 su un totale di 110 alla Camera bassa e 46 su 64 alla Camera alta. Il partito principale, il Partito comunista bielorusso, che appoggia il governo del presidente, vi aggiunge rispettivamente 8 e 17 seggi. Il totale dei seggi conquistati da candidati dell’opposizione è due.

Nel 2004, non prevedendo la Costituzione la possibilità di un terzo mandato, Lukashenka, usando della prerogativa del presidente di indire referendum a suo piacimento, formulò quello “definitivo”. Il quesito referendario era: «Consentite al primo presidente della Repubblica di Bielorussia, A.G. Lukashenka, di partecipare come candidato alle elezioni presidenziali […]?». Il 90% dei votanti si espresse per il . Le elezioni per il terzo mandato, ora possibile e legale per un solo cittadino, porta­rono a un risultato scontato (83% a favore), ma con una coda sorprendente. Il neoeletto presidente, in seguito a proteste di massa, il 23 novembre 2006 ammise pubblicamente in conferenza stampa che i risultati del voto erano deliberatamente stati truccati. Spiegò ai giornalisti che in realtà i voti a favore erano stati il 93,5%, ma che il governo desiderava rendere il risultato delle elezioni «più europeo», perché alcuni Stati membri dell’Ue si erano detti favorevoli a riconoscere un risultato credibile2.

I sospetti, tanto interni quanto esterni, sulle elezioni politiche in Bielorussia non solo non hanno portato a nulla di concreto (Lukashenka è al quinto mandato), ma sono passati di fatto in secondo piano per via degli stravolgimenti della situazione economica globale e geopolitica dell’Est Europa, che hanno finito per rafforzare la figura del presidente, e questo non senza suoi meriti personali. Il primo dei quali è stato comprendere che la Bielorussia, grande oltre due terzi dell’Italia e confinante con l’Ue (Polonia, Lituania e Lettonia) con la Russia e con l’Ucraina, è «la nazione giusta nel posto giusto» per sollevare l’interesse di tutti i protagonisti dell’arena europea. La politica di Lukashenka è finalizzata a essere indispensabile per l’Occidente come interlocutore nei rapporti con la Russia e indispensabile per la Russia, come ultimo alleato nei rapporti con l’Occidente. Ogni sua oscillazione – geograficamente a destra o a sinistra – solleva preoccupazione dalla parte opposta e rafforza la sua posizione sulla scena internazionale agli occhi dei bielorussi. Prova del suo acume politico è il vantaggio tratto dalla crisi ucraina.

Sul fronte interno ha rafforzato il suo ruolo di batska (padre della nazione), che ha fatto di lui il garante della stabilità politica, dell’unità sociale e della sovranità del paese. Sul fronte estero ha saputo cogliere l’occasione di mostrarsi quale l’intermediario slavo tra due popoli slavi, imponendo di fatto anche all’Europa il suo ruolo di mediatore nei due vertici di Minsk. E questo, indipenden­temente dall’esito delle trattative. Contemporaneamente, acquistato inaspettato credito a Occidente, ha potuto sottolineare l’identità e l’indipendenza di una Bielorussia nella veste di paese neutrale e pacifico. La politica in stile «un colpo al cerchio e uno alla botte», cioè di migliorare i rapporti con l’Occidente e al contempo di rassicurare il Cremlino con politiche di fatto non ostili, sembra portare i suoi frutti. Così per esempio la Bielorussia si oppone filosoficamente tanto al dislocamento dei battaglioni Nato in Polonia e nei Baltici (perché fonte di inutili tensioni nella regione) quanto all’insediamento di basi russe sul proprio territorio (perché la Russia, se aggredita, è già in grado di colpire a distanza il nemico). Il leader bielorusso può permettersi questo atteggiamento, perché sa che per Putin un qualunque altro presidente diverso da lui significherebbe una dichiarata apertura verso l’Occidente e perciò gli è necessario garantirsene la lealtà e continuare a tenere sotto controllo il transito delle risorse energetiche e le raffinerie di petrolio. La prospettiva di perdere la Bielorussia, così come ha perso l’Ucraina, è per Putin inaccettabile. Per questo Mosca non ha al momento alcuna intenzione di indebolire il leader bielorusso, tanto più che la sola sua esistenza fa apparire la Russia un paese più democratico.

È il 2015 l’anno della vera apertura all’Occidente. La trasformazione delle elezioni presidenziali in uno strumento di politica estera è stato un capolavoro di Lukashenka. Il rilascio di prigionieri politici, l’avere tollerato manifestazioni popolari, l’invito rivolto all’Ue a mandare osservatori in occasione delle elezioni, cercando di creare l’immagine di una “dittatura illuminata”, sono stati determinanti nella sospensione delle sanzioni internazionali contro la Bielorussia. Da allora Lukashenka sta dando grande impulso alla politica estera. Con un’intensa attività diplomatica tra partecipazione a forum internazionali, contatti con Cina e Brasile, incentivi a investimenti stranieri, l’adesione al Processo di Bologna, incontri a livello di ministri e sottosegretari con mezza Ue la narrativa proposta è la celebrazione della Bielorussia come polo di stabilità nell’Europa dell’Est. Nel luglio scorso Minsk ha addirittura ospitato la sessione annuale dell’Osce, il che prima di tutto significa un riconoscimento internazionale dopo decenni di critiche. Quanto Lukashenka possa essere non più autocrate inusuale e isolato, ma giocatore responsabile nella partita del fronte orientale, è da tempo oggetto di speculazioni tanto a Est quanto a Ovest.

Nel suo Reassessing Lukashenka: Belarus in Cultural and Geopolitical context G. Ioffe paragona apertamente il leader bielorusso a Luigi XIV, sottolineando in un moderno «l’état, c’est moi» la ragion d’essere della Bielorussia stessa. Almeno dal 2011 politologi e osservatori internazionali hanno a più riprese cominciato a intonare il De profundis per Lukashenka, prima adducendo la recessione globale, poi la crisi ucraina, più recentemente scorgendo nelle contestazioni trasversali accese dal decreto «di prevenzione della dipendenza sociale»3 il germe di un possibile rivolgimento politico. Il fallimento di tutte queste previsioni comprova che il leader bielorusso non è per caso al potere dal 1994 senza soluzione di continuità. Tuttavia perfino i dittatori di professione sono destinati a confrontarsi con i limiti naturali del loro “mandato”, perciò a conclusione di questa panoramica sulla nazione più anomala dell’Europa geografica è lecito avanzare qualche ipotesi su possibili scenari futuri, quali che siano le circostanze in cui Lukashenka lascerà (o perderà?) il potere.

Scenario n. 1: il modello «Pyongyang». Lukashenka pubblicamente, tra il serio e il faceto, con riferi­mento al suo ultimo figlio, il tredicenne Mikalai, ha menzionato il concetto di «successione dinastica». Da questa sembrano esclusi i due figli adulti, che non hanno mai ricevuto alcun tipo di endorsement, nonostante il primogenito Viktar abbia almeno un curriculum nella vita politica bielorussa. Gli opinionisti lo vedono debole, privo di carisma e citano come suo unico conseguimento internazionale l’essere stato incluso nelle liste Ue di divieto di viaggio. Viktar potrebbe tornare utile in caso di un’improvvisa uscita di scena del padre ed essere appoggiato da Russia o Ue per realizzare uno tra gli scenari di cui qui sotto. Se invece Lukashenka riuscisse a rimanere in carica per altri quindici-venti anni (in fin dei conti ora ha solo 63 anni) e nel contempo Mikalai si costruisse (o venisse costruito) come personalità forte, benvoluta dai bielorussi, e quindi degno erede, lo scenario n. 1 potrebbe diventare realtà.

Gli scenari n. 2 e n. 3 sono di fatto scenari di intervento esterno, dove una Bielorussia priva (privata) di Lukashenka finisce per scegliere l’Ovest o l’Est.

Scenario n. 2: il modello «Rivoluzione colorata». Nel marzo scorso Lukashenka ha pubblicamente affermato che, con lui presidente, non si realizzerà mai lo scenario ucraino e che i servizi di intelligence bielorussa hanno le prove di preparativi per la destabilizzazione del paese da parte di paesi occidentali. Come già scritto da L. Binni, lo schema dell’intervento occidentale è collaudato: finanziamento dell’opposizione “democratica” a provocare una reazione del governo, lavoro sul campo di agenti infiltrati, propaganda mediatica su ogni canale disponibile. Qui non si vuole entrare nel merito dell’aderenza al vero delle parole di Lukashenka4, ma sottolineare che Bielorussia e Ucraina sono due nazioni molto diverse. La Bielorussia è più piccola, geograficamente ed etnicamente più compatta, meno popolata. E il popolo bielorusso si è dimostrato più spaventato che esaltato dall’Euromaidan. Gli eventi in Ucraina, come detto, hanno rafforzato e non al contrario indebolito la posizione di Lukashenka, anche se con tutta probabilità il favore popolare è inferiore alle percentuali che regolarmente risultano dalle urne. Alle presidenziali del 2015 non sono seguite le contestazioni sulla correttezza del voto, quelle che di regola innescano le “rivoluzioni colorate” (si pensi non solo a quanto avvenuto in Ucraina, ma anche in Georgia e Kirghizistan), e l’Omon bielorussa ha già dato prova di assoluta lealtà al governo, dimostrando di essere nelle sue azioni poco interessata ad approfondire i concetti di “diritti civili” e “diritti umani”. Infine, come dimostra la composizione del parlamento bielorusso, Lukashenka ha un controllo del territorio molto efficace, costruito su rapporti personali, perciò lo scenario n. 2 potrebbe diventare realtà solo nel caso che il popolo bielorusso fosse ridotto alla disperazione da una situazione socio-economica insostenibile. Se la “rivoluzione colorata” avesse successo, il passo successivo sarebbe la domanda di adesione all’Unione europea.

Scenario n. 3: il modello Anschluss. Già dal 1996 esiste sulla carta un’entità sovranazionale cono­sciuta come Unione di Russia e Bielorussia, rinominata nel 1999 Stato Unito di Russia e Bielorussia5. Gli ultimi anni però hanno dimostrato che Lukashenka non è interessato affatto, neanche a parole, a un’unione politica con l’alleato di sempre. Per attuare l’annessione il Cremlino in linea di principio ha due opzioni. La prima è l’intervento armato sul modello applicato in Ucraina. Ma, se si ricordano le ragioni allora addotte, si capisce che in questo caso Putin avrebbe bisogno di un casus belli estremo, perché non vi sono circostanze storico-politiche o etniche (la popolazione di etnia russa in Bielorussia è inferiore al 10%) per “motivare” l’invasione. Portare truppe in uno Stato sovrano ai margini della zona controllata dalla Nato richiederebbe un quadro geopolitico compromesso, quale potrebbe darsi in caso di caduta di Lukashenka e grave instabilità politica nel paese. La Russia si proclamerebbe minacciata dai disordini e chiamata anche “moralmente” a riportare la pace in Bielorussia. Si tratta evidentemente di una linea di azione pericolosa, perché difficile credere che in questo caso Ue e Usa si limiterebbero a far valere nuove sanzioni. Se invece la Russia trovasse il modo di rimuovere Lukashenka senza scandali internazionali (oppure decidesse di aspettarne la fine senza fretta), diventerebbe praticabile la seconda opzione, quella “pacifica”. Nell’uno e nell’altro caso, imponendo un presidente filorusso, il Cremlino potrebbe controllare de facto una Bielorussia formalmente indipendente, oppure favorire un referendum di autodeterminazione (come in Crimea nel 2014) per la realizzazione, anche politica, dello Stato unito.

In conclusione, lo stesso A. Lukashenka descrive il suo stile di governo come “autoritario” e da oltre vent’anni amministra a totale sua discrezione la Bielorussia, dimostrandosi del tutto refrattario a ogni interferenza esterna o interna. La storia recente ci ha consegnato atroci fini di personaggi assolutistici (Saddam Hussein, Gheddafi) desiderate – e concretizzate – da potenze occidentali. L’augurio è che i bielorussi, popolo di radici e tradizioni europee, trovi la forza di esprimere la sua coscienza per decidere da sé del suo futuro.

1 Qui si preferirà, tra le possibili, la traslitterazione dal bielorusso (Lukashenka) e non dal russo (Lukashenko).

2 Il cablogramma contenente tutte queste informazioni, classificate come confidential, è disponibile su wikileaks.

3 Nota anche come «decreto sui fannulloni», l’imposta intendeva contrastare il lavoro nero, colpendo i cittadini che per più di mezzo anno (183 giorni) si trovavano ufficialmente senza lavoro. In seguito alle proteste (politicamente trasversali) il decreto è stato prima emendato e poi sospeso con l’effetto collaterale (quanto programmato?) di far apparire il governo disponibile al dialogo e il presidente vicino alle esigenze della popolazione.

4 Certo è difficile vedere una semplice coincidenza nell’annuncio dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura alla giornalista dissidente bielorussa (e di origine ucraina) Svjatlana Aleksievič a due giorni dalle presidenziali del 2015.

5 Con il passare del tempo il progetto di un’unione politica di due Stati è passato in secondo piano, lasciando posto all’idea di Nursultan Nazarbayev, anche lui longevo presidente (del Kazakistan dal 1991), per lo sviluppo dell’Unione economica eurasiatica.