di Antonio Tricomi
Zhang Yimou, The Great Wall (4 marzo 2017)
Ma quando comincia il film? Sono quasi due ore che qui si va avanti con il promo del nuovo giochino per la PlayStation. Pensavo d’essere venuto al cinema, non in un punto vendita della Sony.
Paul Verhoeven, Elle (3 aprile 2017)
Questo dunque sarebbe il film capace (nell’ordine) di: rifondare lo sfinito cinema d’autore; regalarci un ritratto della cinica borghesia contemporanea che sa riattualizzare o mettere a frutto la lezione tanto di Jean Renoir quanto di Claude Chabrol; rivitalizzare l’ormai solo ripetitiva commedia nera; risollevare il moribondo thriller all’europea. Certo, come no. E magari anche in grado (già che c’è) di: preparare l’insalata russa o la crème brûlée; rendere socialmente presentabili i capelli di Donald Trump o i film di Walter Veltroni.
Ma per favore! La profondità di pensiero, la visione del mondo e – in particolare – della donna, dei rapporti umani, del sesso, la complessità psicologica dei personaggi e la loro tenuta drammaturgica sono le medesime che si potevano riscontrare in Basic Instinct. Il quale, in confronto, si rivela un film ben più riuscito, perché esibisce, invece di mistificare, la consueta ispirazione del suo autore: un adolescenziale gusto, solo morboso, per una trasgressione banalmente intesa quale sadomasochistica sottomissione del desiderio maschile alla supposta carica irrefrenabilmente omoerotica di un godimento femminile intriso di smanie distruttive e autodistruttive, fantasie di stupro ed incesto, ciniche o intellettualmente raffinate impudicizie varie. Insomma, un distillato di puro maschilismo coi brufoli.
Gianni Amelio, La tenerezza (1° maggio 2017)
Non brutto: semplicemente piatto. Senza troppo evidenti cadute, senza indubitabili guizzi particolari. Come spesso si rivela, d’altro canto, il cinema intero di Gianni Amelio: poco o nulla gli puoi realmente rimproverare; ricoprirlo di elogi, tuttavia, non ti riesce. Giusto qualche goffaggine nel tentativo, fallito, di reperire, girando un tantino a vuoto, un convincente finale. Giusto l’ormai prevedibile tributo – forse incoraggiato dalla presenza, nel cast, di Elio Germano, interprete senza riserve magnifico di quel però insopportabilmente banalizzante esercizio di calligrafia, Il giovane favoloso, nel quale Martone ci mostrava la Napoli di un Leopardi la cui figura sembrava dover in ultimo anticipare, per più di un verso, quella di Pasolini – a una moda culturale divenuta pressoché ineludibile: all’idea, cioè, che, se si vuole ragionare della città di De Filippo o di La Capria, occorre oggi necessariamente citare il poeta di Recanati e/o alludere all’autore delle Ceneri di Gramsci.
Encomiabile, comunque, la coerenza del film (mantenuta – nonostante le apparenze – sino all’ultimo fotogramma) nello svelarci il fondamento, il più delle volte autentico, dei vari legami famigliari o tra generazioni: la crudeltà. O, se si preferisce: l’aridità. Padri per i quali – non riuscendo a desiderarne le madri o essendo stati essi stessi eredi affettivamente misconosciuti – i figli sono soltanto senso di colpa, vergogna, impedimenti: creature cui si è in grado di accostarsi quando è ormai troppo tardi, o che si riesce ad amare esclusivamente per interposta persona, o che restano, fino all’ultimo, vincoli rinnegati, se non addirittura ostacoli da eliminare. Madri distrutte, ciascuna, dall’indifferenza o dall’inadeguatezza del consorte, dalla sua impudica assenza o dall’ipocrisia sociale, e allora eclissatesi con i figli o solamente capaci, per sadica fragilità o masochistica ansia di corriva rivalsa, di ignorarli, o trascurarli, o ripudiarli. Figli, nipoti per i quali i padri, le madri, i nonni sono dolore, già dal principio, poi rancore, finché ci si pensa privati di qualcosa a cui si crede di avere diritto, infine vuoto, quando va bene e quasi ci si scorda di essere figli. I padri, le madri, i nonni si tenta tutt’al più di amarli riscoprendoli in questa o in quella figura vicaria, a propria volta detestabile agli occhi di qualche ignoto suo congiunto.
Così, ogni ingenua, scombiccherata cura – poniamo – materna, ogni arrendevole, non ricambiato affetto – per esempio – di nonno, ogni conclusiva riconciliazione tra un padre e una figlia, più che col vivido desiderio presente dell’altro o dell’altra, hanno a che fare con la necessità disarmata di congedare il passato, o con la senescente speranza d’espiare le proprie colpe, o con un’ansia crescente di nostalgica autocommiserazione. Non con reciproci slanci vitali, insomma, né con sinceri progetti spendibili di appassionata, spontanea intimità, ma con una tenerezza, per l’appunto, intesa come vicendevole offerta e richiesta di non belligeranza, di amnistia per le ferite già provocate o subite come per quelle che ancora, inevitabilmente, si finirà con l’infliggere o col patire. Non con l’amore: con la consolazione.
Terrence Malick, Song to Song (16 maggio 2017)
Vediamo se ho capito bene.
Si prende una discreta quantità di Jules e Jim, ossia di una storia che racconti un convenzionalmente anticonvenzionale amore borghese. La si depone in un tegame largo (molto largo) e la si cuoce a fuoco lento (molto lento), annegandola in una brodaglia Nouvelle Vague precedentemente (cioè artatamente) ricavata dalla rabdomantica (vale a dire estetizzante) spremitura di un solo marcescente godardismo di maniera, gratuitamente reso insapore, e dell’appena vaga memoria, giocoforza insipida, dell’Anno scorso a Marienbad.
Quando l’intruglio comincia a ritirarsi – e mentre dunque si assiste alla riconversione di un’originaria “politica degli autori” materialisticamente sciamanica in una postmoderna “mistica(nza) dell’autore” capricciosamente ieratica –, si annaffia più volte il tutto con posticci (o, in altri termini, con irrelati) bicchierini di Nashville. Occorre infatti sforzarsi di trasformare una monotona narrazione di canoniche peripezie erotiche – o meglio, un ordinario romanzo di talora fallite e, in alcune circostanze, compiutesi educazioni sentimentali – in una esoterica riflessione pseudo-teologica sulla nostra debordiana “società dello spettacolo” e sul modo in cui essa si rivela capace di fabbricare l’umano fin nelle sue viscere.
Si lascia ancora andare, con demiurgica sapienza, la fiamma dello Spirito fin quando la sbobba non si è completamente asciugata. A quel punto, si spegne stregonescamente il fuoco, si attende giusto un attimo, poi si grattugia a pioggia – per minuti, e minuti, e minuti – tutta quanta l’immaginifica scorza di uno Zabriskie Point in precedenza essiccato al riverbero incandescente della platonica Anima Mundi e, in tal guisa, indebitamente ridotto a credibile archetipo figurativo per chi voglia arrischiare la traduzione in fotogrammi della “radura dell’essere” di heideggeriana memoria.
Al termine di questa alchemica preparazione, quale iniziatica pietanza si andrà di riflesso a servire, curandosi di guarnire il piatto con listarelle di wittgensteiniane meditazioni (necessariamente inclini a un kitsch involontario) tagliate – un po’ alla Wim Wenders – sottili sottili, tanto sottili da non permettere, quasi, che, di ciascuna, si possa davvero cogliere l’intrinseca consistenza? Un cinefilo pastone new age, paradossalmente intriso di nobilitati scrupoli mainstream e sfruttatissimi accenti midcult perché troppo rudemente semplicistico, troppo oleograficamente texano (leggi: statunitense), per aderire fino in fondo credibilmente al modello del tradizionale cinema d’autore all’europea e, magari, riformularlo (o persino superarlo, dopo averlo – comunque sia – attraversato). La dottrina (un poco zen, un poco junghiana) di un maestro che ci invita a concepire l’eros non quale irresistibile passione individualizzante o fisiologica ricerca del godimento o vincolo affettivo e, al tempo stesso, sociale, ma come opportunità di purificarsi dalle contingenze e trascendere addirittura se stessi ottenendo, mercé la saldatura col corpo ed il respiro dell’altro, la fusione panica – anzi pagana – con tutte le varie creature del pari generate da quell’unico organismo vivente, da quell’originario principio unificante, che è la Natura.
Certo che, per digerire una prelibatezza così, un poveruomo, anche solo moderatamente illuminista, poi si deve scolare – minimo minimo – quattro flaconi di Maalox…
Ridley Scott, Alien: Covenant (23 maggio 2017)
Purtroppo ho già preso impegni giornalieri da qui a vent’anni e non potrò dunque vedere i prossimi episodi della saga. Peccato. Ci tenevo moltissimo.
Jordan Peele, Scappa – Get Out (28 maggio 2017)
Siamo seri, dai! Il parodistico ribaltamento prospettico e la sarcastica riconversione in film horror di Indovina chi viene a cena? – l’uno e l’altra guidati da una rivisitazione a tratti corrosiva, ma più di frequente autoironica della Notte dei morti viventi di Romero – si offrono troppo come gioco in primo luogo cinefilo e, almeno agli occhi dello spettatore più attento, lasciano troppo presto intendere dove condurranno il plot per risultare sinceramente preoccupati di produrre anzitutto un esempio di graffiante critica sociale (ossia un’opera – benché d’intrattenimento – dalla comunque sia sorgiva, invece che indotta, ispirazione civile) o per generare autentica suspense in chi guarda (e quindi un solido thriller – magari alla Carpenter – pienamente godibile in sé, vale a dire in quanto dispositivo capace, in maniera persino elementare, di farci, però, realmente trattenere il fiato).
Dopodiché è vero: Get Out, con indubbia intelligenza, vuol suggerirci che le presidenze di Obama non solo non hanno implicato l’eclissi dei pregiudizi razziali negli Stati Uniti, ma li hanno, per estremo paradosso, addirittura rafforzati, quasi che l’aver visto un uomo di colore in una tale posizione di potere abbia significato, per i wasp, la materializzazione del loro incubo peggiore e, ancor più, la prova che la loro egemonia è in effetti a rischio, così spingendoli assurdamente a ribadire – per esempio, scegliendo Trump come nuovo capo di Stato – il proprio diritto genetico al comando. Né Peele (che potrebbe aver anche tratto lontanamente ispirazione da un altro vecchio film, I ragazzi venuti dal Brasile di Schaffner) manca di alludere al perverso tragitto compiuto, magari non soltanto in America, dal razzismo contro i neri. Esso sembra cioè aver voluto persino oltrepassare ogni assunto politically correct – del tipo: “tutti gli uomini hanno pari dignità” – sì da giungere a una conclusione politicamente scorretta – “i neri sono superiori agli altri” – da cui derivasse – per quei bianchi giustappunto persuasi di essere ancora legittimati alla propria esclusiva salvaguardia e anzi al comando – la facoltà di privare gli individui di colore dei loro corpi e delle loro menti per impossessarsene, per trovare nuovo alloggio negli uni come nelle altre e, in tal modo, rendersi, se non immortali, però meno lontani di qualche passo dalla perfezione.
Con ogni probabilità, ci troviamo oggi al cospetto di una forma assai efficace, giacché particolarmente subdola, di neoschiavismo. Questo, fuor di metafora, Get Out ambisce insomma a dirci.