di Stefano Tani

la grande bellezzaNon mi meraviglia per niente, anzi l’ho predetto a cena da amici, o chiacchierando fuori orario nei corridoi del posto di lavoro o financo al bar che “La grande bellezza” avrebbe vinto l’Oscar a mani basse. E come non poteva?

E’ un film che presenta e corrobora la peggiore immagine possibile dell’Italia – peggiore e “giusta”, in particolar modo per gli americani, che sono quelli che danno l’Oscar e che fino dai tempi di Mussolini ci considerano esattamente come il film di Sorrentino, mutatis mutandis, con gli aggiustamenti epocali necessari, ci presenta: un popoli di cialtroni, superficiali, corrotti e festaioli, che danzano sulle rovine della loro civiltà, di cui sono cinicamente carnefici o stolidamente immemori.

Del resto, da un regista come Sorrentino, che non si vergogna di considerare un personaggio come Maradona uno dei suoi idoli, cosa c’era da sperare se non una celebrazione dell’Italia peggiore? Che, intendiamoci, è quella da esportazione: va benissimo agli americani, ma anche agli altri – così ci vedono altrove, dato che dopo Mussolini e una serie di servili governi democristiani abbiamo avuto per vent’anni come nostro esportatore di immagine Silvio Berlusconi. Il gagà Gambardella è un Silvio appena appena ripulito – non fa il bunga bunga, ma guarda divertito il bunga bunga degli altri, ballando, sospirando per i suoi sessant’anni (che stia diventando davvero adulto?), girovagando svagato da una festa all’altra e non facendo l’unica cosa che gli altri dicono sappia fare (scrivere?).

In fondo “La grande bellezza” è l’ultimo anello della catena. L’Oscar per il miglior film straniero è un po’ come il Nobel – tocca a tutti, ma a rotazione, e noi eravamo rimasti senza per un quindicennio: lo guadagnò ”Mediterraneo” di Salvatores nel 1992, e in fondo era un film di cui non vergognarsi — un plotone di soldati italiani sperduti durante la Seconda Guerra in un’isola greca di inaudita bellezza e con la bellezza (quella vera, quella della natura), si sa, viene la civiltà, la capacità armonica di capire, perdonare, vivere e convivere serenamente. Poi, nel 1999, è stata la volta di “La vita è bella“ dell’astuto Benigni che ha percorso gli States in lungo e in largo per convincere la ritrosa, conservatrice, arcigna e potentissima lobby ebraico-americana ad adottare quel gran brutto film, e così è stato. Senza scomodare olocausti e lager di maniera, ora abbiamo davvero il peggio perché convinti in America sono stati davvero tutti e senza sforzo – noi siamo così, percepiti così, non occorre nessun battage pubblicitario. Se poi nel titolo dell’italico film c’è l’aggettivo bello o il relativo sostantivo, a ricordare che di questo straordinario e sempre più smandrappato patrimonio mondiale noi siamo gli immeritevoli detentori da circa duemila anni, il gioco è ancor più fatto.

E, come se non bastasse, a quello che pensano Sorrentino (che tanto ama Maradona) e gli americani, ha dato la sua approvazione anche Giorgio Napolitano: il 17 marzo Sorrentino e Servillo sono stati insigniti dal presidente della repubblica italiana dell’onorificenza dell’ordine al merito della repubblica italiano – il merito di avere definitivamente sputtanato il paese anche in campo cinematografico.

Il gagà Gambardella alias Servillo si rivolge alla sua colf chiamandola scherzosamente “farabutta”, e questo già ci suona grato: abbiamo un’alternativa metafilmica – dato per scontato che colf comunque siamo, siamo farabutti o cialtroni? Chiediamo a re Giorgio, magari ci conferisce un’altra onorificenza per avergli posto pertinentemente il dotto quesito.