di Antonio Tricomi
Dopo aver letto il romanzo nella traduzione italiana apparsa di recente, mi sembra di poter definire sorprendenti e, al contempo, criticamente illuminanti le pur relative traversie editoriali patite da La zona d’interesse (Torino, Einaudi, 2015, pp. 303), il nuovo lavoro di Martin Amis. Come alcuni di certo sapranno, in Francia e in Germania il libro è stato respinto dalle case editrici che avevano sino a quel momento pubblicato le principali opere dell’autore inglese. Ebbene, se tali dinieghi sono scaturiti dalla sensazione di avere a che fare con un testo fin troppo politicamente scorretto – e che dunque avrebbe potuto attirare numerose critiche anche su chi avesse deciso di stamparlo – giacché concepito come una grottesca, sarcastica riflessione sulle comuni dinamiche e persino sulle frivolezze del desiderio amoroso all’interno di un campo di concentramento, allora si tratta di rifiuti davvero incomprensibili.
Senza voler scomodare la troppo spesso fraintesa nozione di «banalità del male» proposta a suo tempo da Hannah Arendt, un romanzo che sapesse effettivamente restituirci, con piglio satirico o in altro modo, l’orrore nell’orrore, ossia la capacità , verosimilmente attribuibile a molti carnefici nazisti, di vivere in maniera del tutto normale e addirittura routinaria la propria quotidianità o di nutrire eccezionali passioni romantiche e assecondare irresistibili slanci idealistici mentre pianificavano ed eseguivano lo sterminio sistematico di uomini, donne e bambini non solo ebrei, sarebbe infatti un ottimo libro, benché forse emotivamente insostenibile per la nostra falsa coscienza. Invece, se gli editori che hanno scelto di non accettare il testo di Amis si sono regolati così magari anche per evitarsi rogne, ma soprattutto in conseguenza di precise valutazioni sui limiti del romanzo, allora urge dire che, a prescindere dalle loro decisioni (ogni impresa commerciale fa quel che vuole), essi si sono dimostrati credibili critici letterari. Difatti – ecco il punto – La zona d’interesse appare un libro in sé mediocre e per di più fallimentare, cioè sostanzialmente incapace di raggiungere il suo obiettivo originario: affidare a una sorta di perenne tensione, sia lirica sia narrativa, tra registro comico e tradizionali moduli da tragedia quasi classica il proprio desiderio di offrirci una lucida ricognizione del ridicolo etico comunque sia connaturato al male assoluto.
Si dovrà forse alla conseguente, e tuttavia troppo schematica e per certi versi puramente didascalica, alternanza fra timbri espressivi confliggenti, sicché il romanzo oscilla tra opera buffa, apologo tragico e melodramma farsesco senza riuscire compiutamente a essere, se non in qualche suo lacerto più risolto, almeno una di queste cose, né – a maggior ragione – un coerente e organico ibrido tra di esse. O invece dipenderà dall’intrinseca difficoltà del progetto elaborato da Amis, che, dopo aver ricordato diversi testi «classici» sull’olocausto per attribuire a essi il merito di aver «definito il macrocosmo», afferma, nella postfazione al volume, di aver inteso esclusivamente «saldare alcuni debiti sul piano del meso e del micro». Saranno questi o saranno magari altri i motivi. Fatto sta che La zona d’interesse sembra non trovare un proprio tono specifico nell’affrontare il tema che, da un autore il quale non abbia personalmente patito l’abominio di cui vuol tentare una qualche rivisitazione letteraria, più pretende la capacità di tradurre un preesistente e rigoroso pensiero critico-teorico in altrettanto concettualmente rifinito e intrinsecamente motivato dispositivo formale. Quel che ha insomma saputo fare Jonathan Littell con Le Benevole.
Allora, non potendo vantare il merito che sarebbe lecito chiedergli di esibire, La zona d’interesse rischia di ridursi a un pur intellettualmente onesto, e in ogni caso generoso, esercizio di stile che nell’insieme, invece di renderli i passaggi apicali di un implicito e però intransigente discorso metastorico, mortifica quelli che, dal punto di vista sia letterario sia speculativo, risultano i suoi momenti senz’altro più ispirati. Costretto, per apprezzarlo almeno in parte, a fruire il testo come se si trattasse di un ordinato cumulo di autonomi frammenti, così da poter riconoscere in alcuni di essi un’indubbia qualità di ragionamento e di scrittura, il lettore finisce tuttavia col non riuscire ad attribuire neppure a quelle singole pagine, in un primo tempo magari giudicate positivamente, un sicuro valore assoluto, di colpo percependole, appunto perché rapide epifanie di senso e singoli pezzi di bravura inseriti in una cornice troppo filosoficamente sfilacciata e incerta, alla stregua di fastidiose e virtuosistiche semplificazioni, quando non addirittura al pari di manieristiche e irricevibili banalizzazioni, di questioni oltre ogni dire complesse. Limitarsi anche solo a illustrare le quali pur senza pretendere di volerle risolvere – atteggiamento in sé perfettamente legittimo, e anzi in chicchessia auspicabile – non può a ogni modo significare accontentarsi di sostenere che Auschwitz, per un verso, ha mostrato, a quanti vi sono finiti nelle vesti di carnefici o di vittime, «chi ciascuno era realmente» e, per un altro verso, ancora rivela non poco dell’odierna civiltà occidentale. Se la si vuol fare propria, una simile verità , appunto perché innegabile e però mostruosa, non la si può dare semplicemente per acquisita o non ci si può accontentare di enunciarla: occorre comunque dimostrarla.