neorealismodi Mario Pezzella

L’ultimo libro di Gaspare De Caro, Rifondare gli italiani? (Jaca Book, Milano, 2014), è una storia non convenzionale del cinema neorealista e dei suoi effetti sulla cultura e sull’immaginario collettivo del nostro secondo dopoguerra. In quel contesto storico, una naturalis oboedientia, una servitù volontaria, permette – secondo de Caro – la rimozione dei traumi storici del fascismo e della guerra perduta: la cultura italiana viene ricodificata in termini di riconciliazione e unità nazionale.

La storia del cinema neorealista si divide tra una breve e intensa attività testimoniale e critica e una produzione media diffusa, in cui gli epigoni divengono interpreti della buona coscienza nazionale e creano un “cinema della rimozione, una scuola di oboedientia”. “Di fatto – scrive De Caro – ciò che dà senso omogeneo e unificante al cinema del neorealismo, debilitando le testimonianze trasgressive, è l’impegno collettivo a esorcizzare […] gli ingrati fantasmi della guerra e del dopoguerra”. La volontà di trasgressione radicale culmina nelle due grandi trilogie di Rossellini e De Sica. In esse diviene visibile, contro ogni retorica populista e nazionale, lo stato di umiliazione e desolazione, che segue l’8 settembre e segna l’immediato dopoguerra. Si può leggere Ladri di biciclette come la storia di una generazione precipitata dalle altezze pseudo-imperiali e dalle sue aquile di cartapesta in una derelizione e in una vergogna senza fine di fronte ai propri figli; o si può riconoscere, per fare un altro esempio, la caduta di ogni ordine simbolico e morale, nella durissima sequenza di Paisà (episodio di Napoli), quando lo scugnizzo porta il soldato americano nella grotta infera dove si nascondono i sopravvissuti dei bombardamenti, senza casa e ridotti a una vita elementare.

A questo valore di memoria e di testimonianza il cinema neorealista progressivamente rinuncia. Placata l’intensità della trasgressione, esso si adatta a costruire l’immagine mitica di un popolo povero e sconfitto, ma non disgregato e non umiliato, sostanzialmente immune dall’aliena perversione del fascismo e della guerra civile e inoltre naturaliter pio e religioso. Nasce allora, secondo De Caro, il molto italiano ateismo cattolico, in cui si riconoscono molti esponenti della cultura italiana e infine lo stesso Rossellini. Con poche eccezioni, il cinema italiano obbediente al nuovo regime assume il “ruolo privilegiato di ordinatore del Sentire Comune”, per essere poi sostituito dalla televisione. A rigore, perfino nella trilogia della guerra di Rossellini ci sono alcune omissioni che – se non ne compromettono il significato dirompente – sono però significative: come il silenzio sui bombardamenti alleati su Roma o sulla persecuzione degli ebrei (di cui si tace perfino in Germania anno zero). Primi sintomi di un generale ripiegamento della cinematografia neorealista sul mito di un esultante amore per gli Alleati invasori e sulla estraneità degli italiani alle efferatezze del periodo nazista.

“Un bisogno di rimozione spinto fino all’allucinazione collettiva” trasforma la Resistenza da lotta reale in un mito: con questa lettura retrospettiva e deformante del passato, a partire dal regime dominante nel presente, il fascismo diviene un episodio “subìto e non partecipato dalla maggioranza della popolazione”, la persecuzione razziale qualcosa che non ha coinvolto gli italiani, mentre le stragi delle guerre coloniali sono cancellate dalla memoria. Si costruisce così un immaginario collettivo irresponsabile, inconsapevole dei traumi subiti e inferti, larvatamente disponibile a una loro ripetizione più o meno edulcorata. La Resistenza viene risolta “in una versione nobilitante della tradizione nazionale, dissolvendone differenze e antagonismi secondo un rassicurante paradigma di unità politica e armonia sociale”. Si crea così, come atto fondativo della nuova Repubblica, una falsa memoria, che deve servire ad “avallare come discontinuità e rinnovamento la continuità e la conservazione”. La Resistenza non è più percepita come guerra civile contro i fascisti, tanto meno come lotta di classe, ma viene ri-narrata come secondo Risorgimento, contro l’iniquo invasore tedesco. Diviene in questo modo il mito fondativo di una storia progressiva e democratica, in linea con il comunismo togliattiano. Il fascismo diviene un fenomeno aberrante e circoscritto, estraneo alla “vera” natura, sana e generosa, di un popolo fatto di “brava gente” democratica.

Umberto D. di De Sica è l’ultimo grande film “testimoniale” del neorealismo italiano: l’umiliazione e il trauma sono visti qui nel contesto della quotidianità postbellica, prima che la stagione consumistica ne rimuova quasi per intero le tracce visibili. Per una volta ancora De Sica testimonia come la “dimensione sovrana, ultimativa, della Norma” porti alla disgregazione della protesta collettiva, ridotta ormai a un rituale, deprivata della sua forza conflittuale. Mentre innumerevoli sono gli esempi di conformismo ricordati da De Caro, sconfinanti nel grottesco, inconsapevole preludio al fiorire della commedia all’italiana. In effetti ogni evento traumatico e tragico viene derubricato in un generico umanesimo, condito di battute e sorrisi ammiccanti; come quelli di un riciclato Camerini in Molti sogni per le strade (1948), dove un disoccupato tenta di rubare un’automobile, e alla fine trova un bel posto di lavoro (grottesca revisione di Ladri di biciclette), mentre in Come persi la guerra il comico Macario risale la penisola sulla falsariga di Paisà. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, si proclama all’inizio di La vita ricomincia (1945) di Mario Mattoli.

In alcuni momenti il libro di De Caro fa venire in mente quanto dice Sebald nel suo Storia naturale della distruzione: il desiderio di oblio e di trasfigurazione mitica dell’accaduto è particolarmente profondo in quei popoli che devono sopportare allo stesso tempo il trauma della violenza esercitata sugli altri e quello della distruzione subita, in un complesso di colpa e di umiliazione. La memoria preferisce abolirsi in una più tollerabile immagine di sogno, che lascia però impregiudicate le cause profonde del male avvenuto. È vero per la Germania, è vero per la Francia di Vichy, ed è vero anche per l’Italia del dopoguerra, benché sia pochissimo riconosciuto.