In un’intervista all’indomani delle elezioni europee, l’ineffabile Veltroni ha dichiarato che è proprio quello di Renzi il Pd che avrebbe voluto, anche se purtroppo lui non è mai riuscito ad avere la determinazione e la “cattiveria” necessarie, di cui si è invece dimostrato capace l’ex sindaco di Firenze. E pour cause, verrebbe da dire: Veltroni non è infatti il buonista per eccellenza? Ma il punto non è qui. Sta piuttosto in un insieme di elementi – per nulla caratteriali ma politici – che ora cercherò di mettere in luce.
Cominciamo col dire che il Pd veltroniano aveva preso circa un milione di voti in più (stiamo parlando del 2008) di quello renziano. Cos’è accaduto, in effetti? Di mezzo c’è stato l’aumento dell’astensione – e questo spiega perché, con un numero minore di voti, Renzi abbia avuto sette o otto punti in percentuale in più rispetto a Veltroni. Ancora: c’è da considerare che Veltroni si trovò a competere, dopo il governo dell’Unione di Prodi, con un berlusconismo molto pimpante che lo distanziò, nel risultato delle rispettive coalizioni, di una decina di punti. Veltroni, inoltre, disse di volere “andare da solo” alle elezioni, ma poi non ci andò sottoscrivendo un accordo con il Di Pietro dell’epoca (che drenava una parte di quel qualunquismo in seguito espresso meglio, e in proporzioni ben maggiori, da Grillo).
Che cosa voglio dire con questo? Molto semplicemente che il veltronismo rappresenta tutt’al più la preistoria del Pd a vocazione maggioritaria. A quei tempi, che politicamente appaiono molto lontani, si trattava di rompere a sinistra (con una sinistra – bisogna dirlo – veramente riottosa e inconcludente), di superare lo schema del centrosinistra antiberlusconiano (si ricordi che Veltroni preferiva non nominare neppure il suo antagonista, indicandolo con una perifrasi) e di presentarsi all’elettorato con un volto “centrista” grazie a un maquillage che facesse dimenticare qualsiasi origine comunista (Veltroni è uno specialista in questo…). L’ipotesi fu battuta e di lì a poco il segretario dovette dimettersi, quasi si ritirò dalla politica mettendosi a scrivere romanzi. Anche se è significativo che proprio il rottamatore Renzi lo abbia richiamato in servizio, e che oggi si parli di Veltroni perfino come di un candidato alla presidenza della Repubblica.
L’idea di fondo della cosiddetta vocazione maggioritaria del Pd era quella di rivolgersi a un elettorato anche moderato (per non dire francamente conservatore) e farne confluire i voti sul partito in una logica dell’alternanza. Poco importava che dall’altro lato ci fosse il berlusconismo (che oggi, certo, è ridimensionato ma nient’affatto morto se si pensa che le fatidiche riforme costituzionali devono passare per il suo accordo). Si prende quel che c’è – questo era il ragionamento implicito di Veltroni – e si compete all’interno di una dinamica costituita da un partito di centrosinistra pressoché unico e uno di centrodestra (denominato d’ufficio tale nonostante la sua natura “padronale” e certe sue caratteristiche di estrema destra). Il gioco innescato da Veltroni ebbe l’effetto – che un politico attento avrebbe dovuto prevedere – di spingere anche l’altra parte verso un partito unico, il Pdl, mettendo in difficoltà il centro di matrice democristiana, e facendo sì che questo si staccasse presentandosi alle elezioni da solo (mi riferisco all’Udc di Casini nel 2008). Per una strana controfinalità , non rara in politica, il partito di centrosinistra con volto “centrista” si ritrovò ad avere un altro centro appena un po’ più a destra…
Si potrebbe continuare con la descrizione del pasticcio che ne venne fuori – involontariamente, senza dubbio, o per semplice buonismo. Ma vengo al dunque. Che è questo: Renzi, in una situazione mutata, si trova ad avere oggi come alleati – a questo punto stretti – quei centristi “in più” che il grande stratega Veltroni aveva invece inopinatamente creato. Dove vanno oggi i Casini e gli Alfano se non a braccetto con Renzi? Inoltre Renzi, facendo sostanzialmente la loro stessa politica (soprattutto in tema di mercato del lavoro), ha prosciugato i voti montiani – altra formazione di centro, sia pure effimera (prodotta, sempre involontariamente, da Napolitano e dall’eccesso di prudenza di Bersani a suo tempo – ma questa è un’altra storia). A sinistra ci aveva già pensato Bertinotti, con il leaderismo e le giravolte, a liberare la piazza da un partito che era arrivato all’8%: e infatti c’è poca roba, oggi, alla sinistra del Pd. Per giunta il nemico, nominato a gran voce, Renzi ce l’ha e si chiama Grillo… In questo Pd tutto diverso dai primi vagiti veltroniani, basato sul meccanismo plebiscitario delle primarie che permette la scalata a qualsiasi “cattivo” voglia saltare di carica in carica, ovvio che Renzi possa portare a termine l’opera intrapresa da Veltroni.