Berlusconi e Salvinidi Giancarlo Scarpari

Queste elezioni hanno fornito un chiaro esempio di cosa sia la democrazia procedurale al tempo dei partiti d’opinione, quando cioè il rapporto tra le oligarchie di questi e l’indistinta massa dei cittadini non consiste più nella mediazione tra istanze, programmi e soluzioni date, ma nella richiesta di aderire a un marchio, a una persona o a un gruppo, tramite messaggi in grado di intercettare speranze, paure, rancori diffusi in una società civile “individualizzata”; e questo rapporto, per sua natura incerto e volatile e che quotidianamente viene rilevato attraverso i sondaggi, a scadenze più o meno programmate nel tempo, viene invece rivelato e finalmente reso esplicito dalla chiamata alle urne.

In questo contesto è quantomeno curioso lo stupore di molti per il fatto che nella recente campagna elettorale siano stati trascurati molti problemi reali (come creare posti di lavoro, come affrontare le disuguaglianze crescenti, come rapportarsi coi vincoli europei, ecc.), mentre le chiacchiere si sono concentrate su quelli percepiti, o meglio, su quelli che i media, la rete e i politici interessati hanno voluto che lo fossero. Spesso la distanza tra questa percezione e la realtà è diventata siderale: le televisioni private in Veneto, per esempio, hanno dedicato alle lacrimevoli condizioni degli imprenditori oppressi dalle tasse persino una rubrica fissa («I veneti schiacciati dalla crisi»), proprio mentre l’industria manifatturiera ha registrato un balzo nella produzione pari al 6,7%, a un ritmo, cioè, definito “cinese”. Tuttavia questi dati, risalenti all’ultimo trimestre del 2017, sono stati diffusi dalla Unioncamere solo un paio di giorni dopo le elezioni, quando già i lamenti precedenti avevano “orientato l’opinione pubblica” e prodotto, nel loro piccolo, gli effetti voluti.

Così come sono risuonati inutili i rimproveri rivolti ai partiti per non avere presentato programmi credibili, ma solo bandierine da sventolare. È incongruo, infatti, rivolgere alle odierne formazioni politiche le richieste che un tempo si formulavano, con qualche successo, ai partiti “pensanti”: oggi quelli di opinione, proprio perché tali, non possono dettagliare alcun programma, ma solo proporre un generico messaggio, sottoporlo a sondaggio e veicolarlo poi in rete e nelle televisioni, puntando a intercettare un sentire diffuso, molto spesso indotto.

E così è accaduto.

Berlusconi, reduce da una campagna ventennale contro il fisco, non priva di risvolti personali, ha lanciato, auspice estivo la Confindustria, la flat tax al 23%; Salvini ha subito rilanciato al 15% e insieme hanno inviato il messaggio che «la flat tax si farà»: quale, con che percentuali, con quante coperture non è stato concretamente indicato, non rivestendo la cosa molta importanza, trattandosi appunto di uno spot elettorale.

Ma Salvini aveva una carta ben più importante da giocare, la lotta contro «l’invasione degli extracomunitari»: Berlusconi ha subito cercato di seguirlo, dicendosi pronto a deportare «600.000 migranti che vivono di reati». Naturalmente nessuno dei due ha mai manifestato un’idea concreta in ordine al problema epocale dell’immigrazione e di come farvi fronte («aiutiamoli a casa propria», a parte l’ipocrisia di fondo, è infatti poco più che una battuta), ma in ogni caso l’originale ancora una volta ha prevalso sulla copia: Salvini ha cavalcato i fatti di Macerata, con l’aiuto dei media ha trasformato un proprio militante, stragista mancato, nel vendicatore di una ragazza “bianca” uccisa dagli spacciatori “neri” e così la Lega, accusando la sinistra di avere le mani sporche di sangue, in quella città è passata dai 153 voti ottenuti in precedenza ai 4.808 conseguiti il 4 marzo. E si tratta della formazione attualmente egemone nel Nord produttivo che guarda all’Europa (e che da questa è attentamente osservata); se comunque gli argomenti per rimanere “radicati nel territorio” e per far crescere i voti sono di questo tipo, la competizione coi fascio-leghisti si presenta per tutti molto difficile, per non dire impossibile.

Anche il Movimento 5 Stelle aveva le sue carte da giocare: in genere non particolarmente nuove («vaffa» al Pd, lotta alla Casta, «onestà, onestà»), ma tra di esse una è risultata particolarmente spendibile nell’epoca della disoccupazione soprattutto giovanile e della precarietà del lavoro salariato, il reddito di cittadinanza. Ebbene, sia che sia stato percepito come misura assistenziale, sia che sia stato inteso, più correttamente, come sostegno per l’inserimento nel circuito del lavoro, questo strumento di contrasto alla povertà è stato venduto e vissuto come un’alternativa all’abbandono o alle clientele tradizionalmente egemoni soprattutto nelle realtà centro-meridionali.

E i risultati non sono mancati se è vero che, in Sicilia, per esempio, tutti i 28 collegi uninominali sono stati appannaggio dei 5 Stelle: il movimento ha superato il 48%, ha più che raddoppiato i voti ottenuti nelle elezioni di novembre (passando da 513.000 a 1.181.000 preferenze) e ha sconfitto la coalizione di destra allora riuscita vittoriosa.

Da questa, e da altre vicende analoghe avvenute non solo nel Centro-Sud, è emerso uno dei dati più caratteristici di queste elezioni: la volatilità del voto, tipica di una società liquida ove gli individui ondeggiano attratti dall’offerta più conveniente, ha qui superato ogni precedente livello. È vero che il tipo di elezione, amministrativa o politica, incide variamente sulla partecipazione e spesso anche sull’esito del voto, ma in Sicilia, in quattro mesi il passaggio dal vecchio al nuovo, dalla vittoria della coalizione di destra guidata da un vecchio militante del Msi al trionfo decretato ai giovani esponenti pentastellati – un passaggio politico di assoluto rilievo – è stato scandito da un incremento di adesioni al Movimento 5 Stelle pari a oltre 100.000 elettori al mese.

E un altro dato è emerso con forza da questa tornata elettorale. L’aspetto virtuoso assegnato alla sfida dell’uninominale – che si vorrebbe basata sul rapporto diretto stabilito nel territorio tra candidati ed elettori e la conseguente valorizzazione delle qualità dei primi – è stato seccamente smentito dall’esito delle singole competizioni, ove, quasi sempre, illustri sconosciuti hanno prevalso nei confronti di politici più o meno discutibili, ma comunque di gran lunga più esperti degli sfidanti nella gestione della cosa pubblica.

Con alcuni paradossi. Il ministro Franceschini, nella “sua” Ferrara, è arrivato solo terzo, sopravanzato non solo dalla candidata leghista, che alle amministrative di Comacchio non era arrivata neppure al ballottaggio, ma persino da Marco Falciano, iscrittosi al blog del Movimento 5 Stelle solo alla fine di gennaio. Il ministro Minniti, noto e criticato autore della drastica riduzione del flusso degli immigrati negli ultimi mesi, è stato battuto a Pesaro da Andrea Cecconi, un pentastellato venuto alla ribalta solo per essere stato espulso dal movimento nel corso della campagna elettorale per la questione “dei rimborsi” pubblicizzata da una trasmissione televisiva (ma gli elettori, sorvolando nell’occasione su etica e regole, l’hanno premiato egualmente).

Dunque, dopo tante chiacchiere propinateci dai tempi del maggioritario, quello che conta in realtà non è neppure la persona del candidato, quanto la sigla sotto la quale, bene o male, si presenta: il processo della rappresentanza si prosciuga ulteriormente, il voto di opinione prescinde anche da questa e si risolve più semplicemente nella mera scelta del marchio.

Ma tant’è: le elezioni registrano questi ondeggiamenti politici, ne fissano una fase, non sono in grado di fornire un quadro stabile delle forze in campo, ma, se rapportate alle consultazioni precedenti, indicano almeno l’attuale linea di tendenza.

E il 4 marzo hanno fotografato una situazione sufficientemente delineata: dalla competizione sono usciti vincitori il Movimento 5 Stelle, la coalizione di destra e, all’interno di questa, la Lega di Salvini; hanno perso il Pd e i suoi “cespugli”, le sigle sorte alla sua sinistra, nonché, sull’opposto versante, Forza Italia.

Orbene, mentre i successi dei primi, pur numericamente significativi, soprattutto quello dei pentastellati che hanno corso da soli, non garantiscono che si giunga in tempi brevi alla formazione di un governo, suscitando per ognuno di essi la possibile ombra della “non vittoria”, le sconfitte riportate dai secondi sono nette, indiscutibili e sin da oggi valutabili.

Per quanto i media abbiano trattato sotto tono la caduta di Berlusconi, questa è stata invece imprevista e clamorosa: imprevista, perché a gennaio Pagnoncelli attribuiva a FI il 16,5% dei consensi e alla Lega, nettamente distaccata, solo il 13,8%, mentre l’esito elettorale ha descritto una situazione più che rovesciata; clamorosa poiché, per la prima volta dopo un quarto di secolo, Berlusconi, malgrado i sostegni venuti dall’Europa, ha perso la guida della destra e questo evento, nella piccola provincia italiana, può ben dirsi epocale. Rimane poi il fatto più inquietante e cioè che il sorpasso è avvenuto a opera di una formazione ormai dai più indicata come fascio-leghista e nell’ambito di una coalizione in cui l’altro partito in crescita è quello ormai affine della Meloni, corsa in campagna elettorale da Orban per marcare, con un selfie, la propria identità. Ma su questo si dovrà tornare.

Prevista invece, anche se non nella misura poi registrata, la sconfitta del Pd di Renzi, abituato ormai a inanellare un insuccesso dopo l’altro. All’inizio aveva evocato il 40% dei consensi, attribuendosi tutti i voti raccolti dal al tempo del rovinoso referendum; aveva poi “rivelato” in campagna elettorale che il Pd già era maggioranza al Senato; poi si era posizionato su di un altrettanto improbabile testa a testa generale coi 5 Stelle; infine aveva manifestato il suo vero pensiero, avvertendo che non se ne sarebbe andato se anche avesse perso le elezioni.

Fatto precipitare il partito al 19%, il giorno dopo ne dettava la linea nel momento stesso in cui presentava le sue dimissioni da segretario. Cominciavano quindi le manovre interne, iniziava la conta delle diverse fedeltà, crescevano le reciproche diffidenze, le carte cominciavano a rimescolarsi; sostituendo il “noi” all’“io”, le varie cordate cercavano in fretta di organizzarsi, alcune sensibili alle sirene provenienti dai 5 Stelle, altre pronte a manifestare la propria responsabilità al presidente della Repubblica.

Ridotta ai minimi termini – LeU appena sopra il 3%, Pap di poco oltre l’1% – la sinistra con le sue sigle ha dovuto guardarsi allo specchio; e ha visto che dietro a sé non vi erano le masse di cittadini di sinistra che, ritiratesi da tempo nell’astensione, attendevano solo che qualcuno impugnasse le vecchie bandiere per tornare numerose e combattive sulla scena.

No, anche questa illusione, alimentata a ogni tornata elettorale da sondaggi farlocchi che parlano sempre di «potenziali praterie a sinistra», si è rivelata ancora una volta fallace: non sappiamo se queste praterie siano veramente popolate o se i loro abitanti, silenziosamente, siano invece, almeno in parte, emigrati altrove: sta di fatto che le proposte offerte sul mercato elettorale hanno avuto una ben scarsa forza attrattiva.

E non poteva essere altrimenti: formazioni costituitesi in vista e per le elezioni, si sono presentate col volto istituzionale (LeU, aggregazione di microformazioni precedenti – Mdp, SI, Possibile – ma caratterizzata dalla presenza di parlamentari fuoriusciti dal Pd, integrati dagli ex presidenti di Camera e Senato) e movimentista (il centro sociale «je so’ pazzo», sindacalisti, Cobas, animatori di un centinaio di assemblee, Rifondazione comunista), ma i primi sono stati percepiti come i corresponsabili delle politiche di Renzi, non contrastato efficacemente all’inizio e abbandonato in fretta, alla fine, quando il peggio si era già consumato, i secondi come gli alfieri di programmi alternativi e altisonanti, ma autoreferenziali e privi di gambe su cui camminare.

Queste narrazioni non hanno aperto nuovi orizzonti; e comunque i narratori non sono parsi credibili.

Vincitori e vinti, dunque.

La campagna elettorale continuerà ancora sino al 23 marzo, quando si comincerà a votare per i presidenti delle Camere. A partire da quel giorno i primi nodi dovranno sciogliersi; e si vedrà allora chi sarà in grado di prendere il bandolo della matassa, chi avrà filo da tessere e soprattutto quale tela ne uscirà.