Veneziadi Massimo Jasonni

L’acqua alta dello scorso aprile a Venezia non ha rappresentato mera ripetizione di un evento ricorrente, in fin dei conti tipico e turisticamente attrattivo del capoluogo veneto, ma fonte di severa preoccupazione: perché quei livelli di allagamento del 50% della città hanno gettato ombre sul futuro della sopravvivenza stessa della nostra dea lagunare. L’attenzione, quindi, si sarebbe dovuta prestare ai fenomeni del surriscaldamento terrestre e dello scioglimento dei ghiacciai, ma pochi hanno allargato lo spettro delle indagini critiche, qui da noi, alle cause economiche reali del degrado planetario.

Una rilettura complessiva delle problematiche ambientalistiche – climatiche e di inquinamento – avrebbe imposto di guardare anche oltre al Mose, al di là dei confini nazionali. Cosa che non si è fatta, e che si è ben guardata dal fare una comunità europea tanto sensibile alle oscillazioni dello spread, quanto assente in tema di sviluppo sostenibile e di tutela degli effettivi interessi della gente.

Quanto al Mose è forse presto per concludere, ma è certo già tardi per ribadire alcuni dati: l’opera rischia cedimenti strutturali a causa della corrosione elettrochimica delle cerniere e dell’impiego di acciaio non idoneo; i cassoni, alla faccia delle vernici speciali asseritamente utilizzate, giacciono arrugginiti tra salsedine, muffe e mitili; molte paratoie sono paralizzate nel movimento da incagli tecnici; la gestione è affidata anche a faccendieri o, comunque, a figure che già in passato non avevano dato buona prova di sé nella gestione della cosa pubblica.

Ma il problema delle acque alte non è un problema solo veneziano, né solo italiano: è questione che investe in maniera emergenziale anche altri paesi d’Europa e altri continenti. Sono noti i casi di Città del Messico, che sta letteralmente sprofondando nel mare, e di Bangkok o di Jakarta, che per l’aumento del livello delle acque rischiano di soccombere alle invasioni fluviali e costiere. Vi è ormai, in materia, una ricca letteratura sui cui qui non insistiamo, ponendo invece lo sguardo alla volta di un caso europeo altrettanto rischioso per l’habitat di milioni di persone. Parliamo non di una terra desertica e abbandonata, irriconoscibile, come tale, nella storia dello sviluppo della civiltà occidentale, ma di un faro della sapienza europea, quale ha saputo essere agli albori della modernità l’Olanda. Tutti i Paesi Bassi, per eccellenza la città di Rotterdam, ovvero un centro urbano di molte centinaia di migliaia di abitanti, sono in pericolo: pericolo così pressante e attuale, da avere indotto il governo a predisporre un’educazione specifica, nelle scuole, al nuoto e alla sopravvivenza in condizioni estreme che non consentano ai bambini il tempo per spogliarsi degli indumenti. A fronte di un allarme di questo tipo un silenzio… assordante. Oh, sì!: il telegiornale ne fa un accenno, con tanto di simulato rincrescimento nel volto del mezzobusto presentatore; ma non di più, perché ogni richiamo subito sfuma, travolto dalla miriade di informazioni che incombono (l’immancabile incidente stradale sulla Salerno-Reggio Calabria, un scippo una morte bianca un agguato di camorra) e da inserti pubblicitari fastidiosamente enfatizzanti miracolosi prodigi dell’industria farmaceutica. Poi, manco a dirlo: nefandezze come quelle del Grande fratello, di Beautiful o similari, vere e proprie vergogne per ogni trasmissione volta, non foss’altro perché invasiva delle abitazioni in orario di massima audience, alla serena informazione e all’equilibrata formazione delle coscienze dei minori.

Silenzio sulla ricerca scientifica e sui rimedi politici e tecnici che nei Paesi scandinavi, o adiacenti, si sono adottati per evitare di costringere inutilmente la tumultuosità delle acque e per aprire i flussi idrici ad aree golenali di enormi proporzioni. Il silenzio non è solo ingegneristico, ma più in genere culturale: perché la nostra scuola pubblica non si occupa di insegnare cosa abbia rappresentato l’Olanda nel Cinquecento e nel Seicento.

Se i ragazzi sentono evocare il nome di Erasmo da Rotterdam, tutto può passare nella loro mente, fuorché il trattarsi del genio che enucleò il principio di tolleranza e lottò per la stabilità di una pace europea, finalmente libera da ogni forma di dogmatismo religioso. Idem per Spinoza: Spinoza ha rappresentato un’eccellenza filosofica, al buio della quale non sono comprensibili i processi di laicizzazione della società e gli assetti costituzionali che anticipano e seguono, in Europa, le rivoluzioni “industriali”. Anche la nostra Costituzione repubblicana, pur tardiva rispetto ad altre, diventa difficilmente leggibile se i grandi pensatori del Seicento ci sono estranei. Per non dire, poi, delle arti figurative fiamminghe, che vediamo non di rado reclamizzate per compiacere a quotazioni stellari di mercato, non già per illustrare quello che esse hanno realmente significato nell’affermazione piena dell’umanesimo rinascimentale.

Lo sguardo cade allora su Greta: l’immagine della bambina ha sofferto la strumentalità di una comunicazione di massa, di per sé alienante e inaffidabile. Ma se si va a cogliere, in lei, i lineamenti (e magari quel tanto di talco rosato alle gote) propri delle fanciulle di Rubens, forse essa può diventare per davvero un simbolo. Il simbolo della fratellanza erasmiana tra i popoli.