di Enzo Collotti

Enzo Collotti è stato uno dei grandi intellettuali del Ponte. Egli stesso ricorda nel numero dedicato a Enzo Enriques Agnoletti (1-2/2014) come «per un decennio, dal 1950 all’inizio degli anni sessanta, sono stato collaboratore abbastanza assiduo del Ponte». E proprio Enzo Enriques Agnoletti lo associò alla preparazione del numero speciale sulla Jugoslavia (1955). «Un’iniziativa nella quale era particolarmente evidente la volontà di superare definitivamente ogni residuo nazionalistico, ma anche la ricerca di soluzioni politiche per la costruzione di un socialismo che era e rimane l’utopia incompiuta del Ponte». E anche quando nel 2012 raccogliemmo in volume tutti gli scritti di Gaetano Salvemini sul Ponte (Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte») accettò con piacere di farne la presentazione.

In ricordo di quanto egli abbia dato ai nostri lettori riproponiamo la sua presentazione all’opera Il Ponte di Piero Calamandrei (due volumi, 2005 e 2007) in cui il socialismo quale “utopia incompiuta del Ponte” è il motivo dominante contro «uno Stato disarticolato dai conflitti di interessi, dalla confusione tra pubblico e privato e dall’etica dell’interesse del più forte» di fronte a un’opinione pubblica «addormentata e manipolata dall’erogazione di un insensato consumo mediatico, che all’etica della responsabilità del cittadino ha sostituito quella della irresponsabilità del suddito e della delega populistica».

II primo numero del «Ponte» uscì nell’aprile del 1945, quando la liberazione dell’Italia non era ancora realtà ma era già nell’aria. Calamandrei e «Il Ponte» avevano già alle spalle la liberazione di Firenze e le prime esperienze della ricostruzione in un’area regionale che aveva vissuto con pari intensità l’occupazione tedesca, l’arroganza e la prepotenza della Repubblica sociale e i primi passi di un difficile cammino nella riconquistata libertà, sotto gli occhi anche troppo vigili degli alleati e le aspirazioni di autodeterminazione e di autogoverno in cui si esprimevano le istanze e i frutti della Resistenza. Nel panorama delle riviste di allora, il cui pullulare – «L’Acropoli» (1945) di Adolfo Omodeo; «La Nuova Europa» (1944) di Luigi Salvatorelli; «Il Mondo» (1945) di Alessandro Bonsanti; «Mercurio» (1944) di Alba De Cespedes; «Società» (1945) di Ranuccio Bianchi Bandinelli; «Belfagor» (1946) di Luigi Russo – non rappresentò soltanto un momento liberatorio dopo la ventennale oppressione del fascismo ma anche la ricchezza delle istanze e delle voci che volevano concorrere a rinnovare l’Italia e la società italiana, «Il Ponte» si impose subito con una fisionomia inconfondibile. Rivista schierata ma non di partito, sin dalle prime annate, e soprattutto in esse, recò l’impronta inequivocabile e irripetibile del suo fondatore e direttore Piero Calamandrei. Suo fu il testo di Il nostro programma, con il quale si aprì il primo numero, come suoi furono presumibilmente tutti gli altri corsivi che aprivano le diverse annate o i numeri in qualche misura monografici, almeno fin quando egli non fu affiancato nella redazione da Enzo Enriques Agnoletti.

Con «Il Ponte» nacque anche uno stile, una scrittura essenziale ma colta, raffinata, senza inutili orpelli retorici ma precisa, affilata, argomentata, in cui si sposavano le grandi qualità di Calamandrei giurista e avvocato e quelle del Calamandrei letterato. Chi lo ha inteso nelle sue pubbliche arringhe in aule di tribunali o nei suoi discorsi politici in onore della Resistenza o persino in pubblici comizi anche all’aperto riconosce quell’unità di ispirazione che gli consentì di conferire a «Il Ponte» quel timbro particolare che lo rese inconfondibile e insieme autorevole voce fuori dal coro.

A rileggere oggi «Il Ponte» di Calamandrei colpisce in primo luogo l’alto livello di moralità politica che vi si respira. Uscendo dal tunnel del fascismo torna intatta l’aspirazione a fare politica senza infingimenti, senza mascheramenti o compromessi, senza camuffamenti o sotterfugi. Nel faticoso traghettamento dal buio del fascismo alla speranza del rinnovamento, plasticamente simboleggiato dall’omino che valica il ponte e che si lascia alle spalle le rovine della dittatura e della guerra, è sintetizzato il fardello che accompagna i primi passi della nuova democrazia.

Già nella prolusione alla riapertura dell’Università di Firenze, nel settembre del 1944, Calamandrei aveva sottolineato il «fermento di energie nuove» con le quali ci si accingeva alla ricostruzione. E di energie ne occorrevano molte, tante, alla luce di quello che piú tardi definirà «l’immensità del nostro disastro politico». Basterebbe avere presenti le pagine del suo Diario, la registrazione dell’incalzare della crisi del paese tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943 alla luce dei bombardamenti aerei delle città e dell’incapacità e dell’insipienza del regime ad affrontare la situazione, scardinando viceversa ogni residua forza morale e dando al vertice esempi di vigliaccheria, di corruzione, di latrocinio, per comprendere come, al di là degli infausti esiti politici, Calamandrei avvertisse la crescente disgregazione morale e civile del paese. Ed era appunto da lí che bisognava ripartire per dare un avvio veramente nuovo. L’esaltazione che egli farà del sacrificio con il quale il popolo italiano affrontò la Resistenza racchiude una serie profonda di significati tutti riconducibili al motivo del risveglio della coscienza civile, dell’assunzione di responsabilità, del senso di autodeterminazione e di autogoverno, del senso di solidarietà sociale e di partecipazione alla vita collettiva. Quel complesso di valori destinati a costituire il fondamento morale della democrazia.

Quel ponte ideale tra passato e avvenire disegnato sul frontespizio della rivista assumeva un significato programmatico: additava il cammino da percorrere per risalire dalla «disgregazione delle coscienze» all’«unità morale» della nostra società, fondata sulla fiducia nell’uomo, sul rispetto del lavoro, sui valori della solidarietà umana. Al di là della ricostruzione materiale, ciò di cui aveva bisogno l’Italia era ricostituire le premesse morali della convivenza civile, presupposto indispensabile di quella «ricostruzione morale» che avrebbe dovuto coronare la definitiva liberazione dal fascismo e il pieno dispiegamento della democrazia, come trionfo dell’antifascismo.

Nel giugno del 1945 la formazione del governo Parri sembrò incoraggiare le aspettative di un profondo rinnovamento della società italiana, che con spirito profetico Calamandrei e i suoi collaboratori avvertivano dovesse prendere le mosse dall’intimo delle coscienze prima ancora che dalla trasformazione delle istituzioni, cui pure la sensibilità di Calamandrei era così attenta. A rileggere oggi gli scritti che Calamandrei dedicò al momento fondativo costituente e al significato della Costituzione in fieri, in cui la finezza del giurista e la ricchezza non formalistica della dottrina si sposavano con una acutissima sensibilità politica, viene da riflettere su quali riserve di energie che il fascismo non era riuscito a distruggere poteva contare l’Italia alla liberazione: una generazione straordinaria di “anziani” (con i vecchi maestri come Salvemini bisogna ricordare la generazione di mezzo: Calamandrei appunto, ma anche Ernesto Rossi, Jemolo, i Galante Garrone, Rossi Doria) ma anche una pattuglia di piú giovani, da L. Valiani a T. Codignola, a Enriques Agnoletti, a Bobbio, a Barile e Predieri, che si ritroveranno tutti tra i “pontieri”. A sessant’anni da quell’avventura intellettuale prima ancora che politica lo sfascio della Costituzione cui assistiamo oggi e la levatura modesta e mediocre della classe dirigente che governa attualmente questo paese inducono a riflettere sul patrimonio politico e culturale che è stato dilapidato nel sessantennio repubblicano e l’opera di sfiancamento politico e morale che il monopolio centrista del potere aveva realizzato ai danni delle energie vive della società italiana.

Gli entusiasmi e le aspettative del 1945 si raffreddarono rapidamente: le insidie che «Il Ponte» aveva intravisto sin dal suo esordio (come leggere oggi, alla luce delle pulsioni disgregatrici di stampo localistico-populistico, l’auspicio che l’Assemblea costituente non si riunisse a Roma per non subire le ipoteche del «Regno del sud» e degli ambienti favorevoli alla monarchia?) finirono per diventare realtà. Ostacoli e rapporti di forze all’interno e sul piano internazionale frenarono ogni slancio al rinnovamento. Alle grandi conquiste che rimasero a sancire l’eredità della Resistenza – la Repubblica e la Costituzione – mancò il corrispettivo di quel profondo rinnovamento dall’interno che solo avrebbe potuto assicurare la rottura del cordone ombelicale con le sopravvivenze della vecchia Italia. Nessuno tra i “pontieri” avrebbe auspicato rotture rivoluzionarie che potessero mettere in discussione una piattaforma unitaria come quella che era stata collaudata nei Comitati di liberazione; il «compromesso costituzionale», come lo definí lo stesso Calamandrei, che sarebbe scaturito dall’Assemblea costituente, fu esso stesso bloccato nelle sue potenzialità politiche e programmatiche dal gioco di equilibrio tra i partiti, da rapporti di forza che si esaurirono nel piccolo cabotaggio del do ut des e sterilizzarono di fatto la possibilità che da una vera dialettica tra le forze politiche si producessero anche equilibri politici piú avanzati. Le grandi conquiste istituzionali e costituzionali rimasero perciò come la grande cornice esterna, le mura maestre di un edificio dai contenuti non adeguati e non coerenti con quelle esteriori parvenze. La restaurazione non è solo un fatto strisciante.

Nel 1947 Tristano Codignola parla apertamente di spostamento a destra della politica italiana: le sue componenti sono tante. Non era stato soltanto il fallimento dell’epurazione come pure era già stato, e tra i primi sintomi dell’involuzione, ripetutamente denunciato; non era soltanto genericamente la sopravvivenza delle leggi fasciste; né l’invadenza clericale nella scuola, che pure denunciava una rivista come «Il Ponte» cosí decisamente impegnato a sostenere con il rinnovamento della politica anche quello della cultura; né l’uso delle forze di polizia nei conflitti di lavoro e nello scontro sociale come all’epoca delle uccisioni di Modena cui «Il Ponte» dedicò nel febbraio del 1950 uno di quei fulminanti editoriali generalmente dovuti alla penna di Calamandrei (Pena di morte preventiva).

Nella cronaca già dei primi anni dopo la liberazione i sintomi del rinnovamento mancato si cumulavano senza sosta, la Resistenza che aveva restituito l’Italia alla libertà dopo la breve parentesi del governo Parri fu cacciata dal potere e stritolata nelle operazioni di equilibrio e di compromessi di un gioco politico che al di là dei conflitti che ormai disegnavano lo scenario internazionale ricordava molto lo spirito di consorteria dell’Italia prefascista. La classe politica continuava a rimanere sorda all’esigenza di allargamento della partecipazione politica e di dare risposta al sacrosanto dovere di riconoscere i diritti sociali dei ceti popolari. Uno dei fattori in cui la divaricazione tra popolo e Stato ereditata dal passato che avrebbe dovuto essere colmata dalla politica rischiava viceversa di approfondirsi e anche uno dei terreni in cui il dettato costituzionale si rivelava molto piú avanzato rispetto al terreno della politica e su cui si sarebbe misurato il tema cosí caro a Calamandrei della mancata attuazione, per un decennio buono, della Costituzione. Il discorso sulla «democrazia economica» portato avanti da Alberto Bertolino a complemento, integrazione e inveramento della democrazia tout court, che aveva alle spalle Keynes ma anche il liberalismo di Lord Beveridge che aveva alimentato i progetti di Welfare tra gli obiettivi di guerra delle Nazioni Unite, faceva parte a buon diritto di quell’appello ad associare all’affermazione della democrazia la lotta per i diritti sociali che percorre tutte le annate del «Ponte».

Alla fine del 1947 con il fascicolo monografico sulla Crisi della Resistenza «Il Ponte» fissava uno spartiacque nella vita della repubblica ma anche una tappa di una periodizzazione per la sua storia interna. Certificava in un certo senso la conclusione di una fase, che avrebbe trovato tra non molto consacrazione anche letteraria nella fantasia e nella prosa un po’ barocca di L’orologio di Carlo Levi, un altro autore che non a caso illustrò le pagine culturali della rivista. Di fronte agli sviluppi della politica italiana e soprattutto a una pacificazione non piú strisciante ma si direbbe trionfante (come risultava amaramente dalle parole di quell’insigne magistrato che fu Peretti Griva: «Triste bilancio, quindi, quello dell’epurazione. Non formuliamo accuse contro nessuno. Forse è la fatalità umana, tanto piú intensa presso gli italiani, usi, per particolare bontà, ma spesso anche per debolezza d’anirno, a dimenticare ed a perdonare»), che costringeva a tornare a interrogarsi sul senso della Resistenza e a riproporsi, almeno nei meno ottimisti (allora forse tra questi anche Vittorio Foa) il quesito se ne era valsa la pena. Certo, nessuno dei “pontieri” poteva rinnegare i sacrifici fatti e l’investimento di entusiasmo e di impegno che era stato profuso nel periodo breve ma cosí intenso della lotta. Ma dopo la partecipazione con la quale erano state seguite le tappe della prima edificazione repubblicana sino al congedo della Carta costituzionale, la fine del governo Parri e dei governi di unità antifascista, il riemergere dopo l’amnistia con piena evidenza di corposi resti del vecchio regime, di una burocrazia, di una magistratura e di esponenti di una classe politica che si era sperato fossero stati posti in minoranza ed emarginati dal sopravanzare di forze ed energie maturate nel ben diverso clima della Resistenza, imposero come un cambio di marcia.

Oggi sappiamo che l’allarme allora lanciato dal «Ponte» non era frutto precipitoso di una realtà in rapido cambiamento che offuscava la limpidezza e l’onestà dei propositi e soprattutto i confini tra il vecchio e il nuovo; né può essere interpretato – se non altro per la breve distanza di tempo interco­sa tra la liberazione e la fine del 1947 – come semplice nostalgia di un interregno nel quale era sembrato possibile costruire un’Italia su misura dell’antifascismo che con il tempo avrebbe assunto sempre piú i contorni di un’Italia immaginaria. La battaglia per il rinnovamento che era sembrata potesse conoscere anche realizzazioni immediate si spostava in realtà sui tempi lunghi. La funzione di critica politica e di pungolo per l’azione si proiettò verso la costruzione di una cultura politica per il futuro, sull’immediatezza del risultato prevaleva la prospettiva di una pedagogia politica da valere per le generazioni piú giovani.

La fisionomia del «Ponte» trasse un profilo sempre piú pronunciato dalla sensazione che percorse la politica italiana dopo l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione grazie all’incontro tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che spiazzò i laici del cui fronte faceva parte lo stesso partito socialista, di essere schiacciata dal prepotere clericale. Il dramma dei laici che intendevano sottrarsi alla pressione clericale, ché tale si manifestava il predominio della Democrazia cristiana nell’Italia del 18 aprile 1948 e del pontificato di Pio XII, era che per resistere a questa pressione non potevano fare a meno dell’appoggio dei comunisti, sulla cui affidabilità laica pesavano d’altronde le ambiguità provocate dalla convergenza con i cattolici sull’art. 7 e i sospetti di un eccesso di tatticismo in questioni che per il pensiero laico erano questioni di principio non negoziabili. La funzione di ergersi a rappresentante di una ideale “terza forza” che «Il Ponte» si sarebbe assunto soprattutto per iniziativa di Enriques Agnoletti muoveva certamente anche dal problema del laicismo e incontrava un suo limite proprio nell’impossibilità di fare a meno sotto questo punto di vista dell’apporto dei comunisti. Tra le caratteristiche del «Ponte» vi fu infatti quella di non sbandare mai in alcuna forma di anticomunismo, per forti che potessero essere le critiche al Partito comunista, all’Unione Sovietica e alla concezione stessa del comunismo. Anche in questo atteggiamento i “pontieri” rivelarono pur nel loro afflato idealistico la loro profonda aderenza alla realtà della politica italiana, riconoscendo gli interlocutori per quello che erano, lungi da ogni demonizzazione da “guerra fredda”.

Sicuramente fece parte della relativa presa di distanza dall’attualità immediata per dedicarsi a spazi di approfondimento che consentissero una piú distaccata riflessione il frequente ricorso a numeri monografici o comunque a fascicoli che contenessero un nucleo tematico principale. Essi riflessero la predilezione dei collaboratori del «Ponte» per determinate tematiche e contribuirono anche a meglio focalizzare aree di interessi della rivista. Una ricognizione anche rapida su quei fascicoli monografici ci porta a individuare tra le linee maestre del percorso di «Il Ponte» in primo luogo un viaggio alla scoperta dell’Italia (tra l’altro con i fascicoli su ll Piemonte, agosto-settembre 1949; su La Calabria, settembre-ottobre 1950; su La Sardegna, settembre-ottobre 1951), passando attraverso realtà dure come le istituzioni penitenziarie (nel fascicolo Carceri: esperienze e documenti, marzo 1949) in cui il confronto tra l’esperienza del fascismo e quella della neonata repubblica non poteva che mettere a nudo quanto cammino restava ancora da fare per realizzare quel rinnovamento di istituti e di mentalità senza il quale non si poteva dire che il fascismo fosse stato veramente spazzato via.

In effetti, il problema della resa dei conti con l’eredità del fascismo rimaneva nella diagnosi di «Il Ponte» uno dei nodi centrali non della storia ma della politica italiana. Non a caso a questa problematica fu dedicato un intero fascicolo, Trent’anni dopo, nell’ottobre del 1952, nel trentennale della marcia su Roma, nel cui editoriale (intitolato Per la storia del costume fascista) Calamandrei indicava con minuzia analitica le manifestazioni e i materiali a documentazione delle fonti che sarebbe stato necessario censire e conservare per realizzare una ideale storia del costume fascista. L’urgenza di un simile compito non nasceva soltanto da una preoccupazione di carattere storico, ossia dalla possibilità e probabilità che potessero andare dispersi prima ancora che la memoria li cancellasse anche i reperti materiali, archivi e documenti, su cui quella storia si doveva costruire, ma anche da constatazioni e preoccupazioni di carattere politico. Il richiamo di Calamandrei era rivolto all’attualità del problema che egli poneva. Era il problema della sopravvivenza del vecchio nel nuovo, qualcosa che sembrava connaturato al carattere degli italiani: «Lo sappiamo: – scriveva nell’editoriale – il fascismo, come ordinamento politico, è finito: le sue strutture esterne, le colonne di cartapesta e gli archi di falso antico, lo sappiamo, non torneranno mai piú. La storia – ci ammonisce Benedetto Croce – non fa in modo efficace la caricatura di sé medesima. Ma il costume sotterraneo resta: circola, serpeggia, fermenta: alimenta altre ruberie, incoraggia altre tracotanze, suscita altre oppressioni. E i dominatori, anche se sotto divise meno marziali (e magari, oggi, sotto vesti pie; e domani chissà sotto quali altri travestimenti) sono sempre loro; e le vittime sono sempre le stesse». Anche questo un discorso che ancora una volta stava ad attestare come era mutato il clima a cosí pochi anni dalla liberazione.

L’altro grande filone di interesse che i fascicoli monografici misero in evidenza era l’apertura sul mondo esterno, lo sguardo prevalentemente all’Europa (piú tardi «Il Ponte» avrebbe guardato anche ad altre realtà: a Israele, alla Cina, il fascicolo dedicato alla Cina era nato dal viaggio in Cina alla fine del 1955 dello stesso Calamandrei). In questo sguardo verso l’esterno si incrociavano due diverse istanze, non necessariamente convergenti. Da una parte, il discorso sull’europeisrno,che prese particolare vigore con la partecipazione di Enriques Agnoletti, che ebbe una valenza particolarmente drammatica all’atto dell’adesione al Patto atlantico, in quanto pose il problema della compatibilità tra la costruzione dell’Europa federata e l’alleanza militare con gli Stati Uniti. Dall’altra, la costruzione della democrazia in Italia e la ricerca non di modelli ma di soluzioni al problema del rapporto tra democrazia politica e politiche di Welfare nell’esperienza soprattutto dei paesi nordici, che negli anni quaranta e cinquanta rappresentavano le punte piú avanzate nell’ambito delle democrazie occidentali di realizzazioni di forme di democrazia sociale, secondo quella che era stata e fu sempre una delle aspirazioni fondamentali del «Ponte» e di Calamandrei in particolare.

La pubblicazione alla morte di Klaus Mann del suo saggio su La tragedia spirituale dell’Europa, nell’autunno del 1949, oltre a essere la forma dell’omaggio del «Ponte» al gesto con il quale lo scrittore tedesco denunciava il terrorismo ideologico e la pressione che lo scontro delle potenze nella guerra fredda esercitavano sulla libertà della cultura, esprimeva anche il disagio di quella parte della cultura italiana che aveva rifiutato di schierarsi a favore dell’una o dell’altra superpotenza. Con ciò peraltro non si deve pensare che cosí agendo Calamandrei ed Enriques Agnoletti rappresentassero in tutto e per tutto la posizione dei collaboratori del «Ponte»; essi infatti si assumevano una responsabilità politica che anche autorevoli interlocutori e collaboratori come Salvemini non avrebbero condiviso e del resto non fu certo questa la prima e ultima volta che accadde. Spesso si è attribuito il rifiuto di optare per l’uno o per l’altro dei due imperialismi in lotta, quello americano e quello sovietico, alla ricerca di una astratta formula di terza forza, forzando forse anche il pendant con un possibile schieramento di terza forza anche all’interno della politica italiana.

In realtà il filo rosso che attraversa le pagine del «Ponte» dal suo primo numero è la costruzione di un orizzonte di pace, proprio perché la rivista era nata uscendo dalle rovine della guerra. Il tema delle conseguenze della guerra e delle prospettive di un futuro senza armi di distruzione di massa sotto la risonanza vicina dell’impiego della bomba atomica da una parte e del processo di Norimberga dall’altra, che aveva fatto intravedere la possibilità che con l’avvio di una nuova giustizia internazionale si andasse incontro anche a un nuovo ordinamento giuridico internazionale, come «Il Ponte» aveva auspicato (fra l’altro con l’editoriale su Le leggi di Antigone che Calamandrei scrisse nel 1946 dopo la conclusione del processo di Norimberga), fu oggetto di costante riflessione non in omaggio a un pacifismo di maniera ma nel quadro della priorità da assegnare alle prospettive dell’unità europea. Il no al Patto atlantico che Calamandrei pronunciò in parlamento non derivava soltanto dal timore che una nuova corsa agli armamenti avrebbe schiacciato l’Italia e l’Europa nello scontro frontale tra due schieramenti contrapposti, ma soprattutto dal fatto che anteporre la necessità di aderire al patto significava allontanare il cammino dell’unità europea e impedire quindi che l’Europa potesse assolvere una sua autonoma funzione nella gestione della politica internazionale.

Fu questo sicuramente un tornante importante per la politica italiana e per una politica per l’Europa, poiché una politica europea ancora non esisteva e del resto è dubbio che esista tuttora. Inutile dire con quanta tempestività lo intuisse l‘équipe del «Ponte», sulle cui pagine soprattutto Enriques Agnoletti tornò ripetutamente a spiegare le ragioni del rifiuto del Patto atlantico (e si potrebbe dire dell’atlantismo tout court) anche per il nesso tra politica interna e politica estera che veniva a essere ribadito. Sovrapponendosi al successo elettorale della Democrazia cristiana alle elezioni del 18 aprile 1948 la cristallizzazione dei blocchi che discendeva inevitabilmente dal Patto atlantico avrebbe comportato anche l’ulteriore irrigidimento della politica muro contro muro che si profilava ormai anche sull’orizzonte politico italiano. Indipendentemente dalla sua funzione nella politica militare e internazionale il Patto atlantico si presentava come una sorta di argine e di paravento destinato a bloccare anche ogni tentativo dell’opposizione di modificare gli equilibri politici interni. Erano vivi già allora i sintomi e le preoccupazioni di una paralisi della dialettica e dei meccanismi della democrazia che sarebbero stati messi in evidenza negli anni immediatamente successivi per sfociare nelle elezioni del giugno 1953 e nel tentativo di bloccare la maggioranza nelle posizioni di potere acquisite con la legge-truffa del 1953, che vide praticamente tutto il gruppo del «Ponte» impegnato a partecipare, con le liste di «Unità popolare», alla campagna per impedire che scattasse il premio di maggioranza destinato a creare uno scudo quasi insuperabile intorno alla coalizione centrista guidata dalla Democrazia cristiana. I protagonisti della campagna del 1953 furono buoni profeti, anche se la previsione di spostare l’opinione pubblica italiana e quella parte dell’opinione europea che avrebbe dovuto dare corpo alla «terza forza internazionale europeista» (secondo la definizione di Enriques Agnoletti) non si sarebbe avverata. In questo senso le aspettative che una parte degli scrittori di «Il Ponte» riposero in una svolta decisiva del Partito socialista andarono deluse.

Uno sguardo ai fascicoli monografici dedicati a realtà altre da quella italiana consente di completare il discorso sull’orizzonte internazionale al quale era rivolta l’attenzione della rivista nel quadro già considerato della costruzione dell’Europa. Il primo di questi fascicoli fu quello dedicato a L’esperienza socialista in Inghilterra (maggio-giugno 1952); seguirono Democrazia e Socialismo in Scandinavia, (novembre 1953) e Democrazia olandese (luglio-agosto 1954). Ultimo, nell’estate del 1955, il fascicolo sulla Jugoslavia (alla cui redazione fui ,impegnato lavorando con Leo Valiani che richiede due parole a parte. L’esplorazione che i “pontieri” avviarono su esperienze che coniugavano sistema parlamentare e riforme di tipo socialista, democrazia e socialismo, non aveva una astratta funzione conoscitiva, faceva parte della battaglia politica per l’attuazione della democrazia in Italia e per dare all’Europa un modello politico che andasse ben oltre la semplice messa in comune di energie e risorse. La democrazia italiana in formazione doveva guardare alle soluzioni più mature che si stavano realizzando sul nostro continente per superare l’antitesi democrazia-socialismo, come se la democrazia si dovesse identificare unicamente con un sistema parlamentare in un quadro politico che non intaccasse il capitalismo e quindi sostanzialmente conservatore e il socialismo dovesse identificarsi con trasformazioni sociali che negassero il metodo democratico e il sistema parlamentare. L’esempio dell’Inghilterra laburista con le sue estese riforme, il Welfare ma anche le nazionalizzazioni delle industrie di base, stava a dimostrare che superare quell’antitesi era possibile, tanto piú se la democrazia inglese si fosse decisa ad abbandonare “certi egoismi” e a fare partecipi delle sue esperienze anche i popoli europei del continente. Il progetto politico cui pensava «Il Ponte» si trova espresso in questo commento di Calamandrei all’esperienza laburista: «Può darsi che ci illudiamo; ma quando noi pensiamo agli Stati Uniti d’Europa, ci sembra che essi non potranno farsi senza il laburismo inglese: che dovranno farsi col laburismo inglese. Non possiamo pensare a un’Europa unita che non sia anche un’Europa socialista: e ci sembra che la prima isola già emersa dalle acque di questo socialismo europeo ancora tempestoso sia il laburismo inglese, intorno al quale dovrà a poco a poco consolidarsi per aggregazione una comunità europea capace di dare al socialismo una soluzione originale, che salvi e rinnovi i valori della libertà, e della civiltà nata in questo Continente».

Il problema della democrazia si identificava pertanto con la sua capacità di realizzare profonde trasformazioni sociali: «Solo dove la democrazia ha saputo vincere la miseria, – scriverà ancora Calamandrei nel fascicolo sui paesi scandinavi – il popolo ha fiducia nelle istituzioni democratiche ed è pronto a difenderle a prezzo della vita». Calamandrei riecheggiava cosí uno dei messaggi piú forti dell’antifascismo – in particolare, per fare un nome singolarmente congeniale ai collaboratori del «Ponte», la lezione di Silvio Trentin – ma cercava anche la via per uscire dall’immobilismo centrista che minacciava di svilire la riconquistata libertà in Italia.

Soltanto con notevoli forzature sarebbe possibile inserire l’interesse per la Jugoslavia d’oggi (come suonava il titolo del relativo fascicolo monografico) nel contesto cui ho appena accennato. Nei confronti della realtà jugoslava l’esigenza conoscitiva era nettamente prevalente rispetto alla possibilità di usarne il percorso per la costruzione della democrazia in Italia. Certo, anche da essa si poteva trarre la conclusione che, sono parole di Calamandrei dal fascicolo dell’agosto-settembre del 1955, «per ogni sincero democratico questo socialismo jugoslavo che cerca di sfuggire al totalitarismo centralizzato con un sistema originale di autonomie comunitarie decentrate, è un’esperienza degna di studio e di rispetto». Un’esperienza comunque distante dalle premesse teoriche e politiche che avevano guidato l’interesse e l’osservazione di quanto si era mosso e si stava muovendo nelle altre aree europee prese a esempio.

L’esperimento dell’autogestione in Jugoslavia, di cui era allora in corso l’avvio, interessava piú per la novità e per il cuneo che apriva nella sfera dell’influenza sovietica, dalla quale la Jugoslavia si era andata progressivamente distinguendo sul piano internazionale come su quello interno dopo la condanna cominformista del 1948, che per la sua riproducibilità nei sistemi di democrazia occidentale. Alle spalle di capire dove stesse andando la Jugoslavia non vi era soltanto l’ammirazione per ciò che la Resistenza jugoslava aveva fatto di cui dava atto Ferruccio Parri nelle parole di apertura, vi era piuttosto la spinta a voltare pagina nei rapporti tra i due popoli; nella questione di Trieste e della Venezia Giulia «Il Ponte» non aveva mai fatto mistero da quale parte stava, condannando senza riserve i guasti provocati dal fascismo. Ma ora, a quasi un anno dal riavvicinamento alla Jugoslavia che aveva fatto seguito al ritorno all’Italia del cosiddetto “territorio libero” i tempi erano maturi per tornare a proporre il dialogo che le vicende seguite al secondo conflitto mondiale avevano impedito. Come non pensare che in questi propositi riviveva lo spirito dell’antifascismo, ma anche l’eredità che era stata nella battaglia contro l’imperialismo nazionalista che aveva avversato l’affermazione sull’altra sponda dell’Adriatico dell’unione degli slavi del sud di quell’irredentismo democratico ispirato da Salvemini nel quale si era ritrovata la generazione dei Calamandrei?

«Il Ponte» di Calamandrei ha rappresentato una delle voci piú originali e più vigorose dell’Italia del dopoguerra e della ricostruzione, certamente quella che meglio ha operato la trasmissione del messaggio della Resistenza a piú giovani generazioni intellettuali. Indissolubilmente legato alla personalità del suo fondatore, «Il Ponte» è stato anche una fucina di elaborazione culturale, ospitando in un attento equilibrio alcuni tra gli ultimi saggi storici di un maestro come Salvemini, contributi critici all’autoriflessione sulla storia d’Italia da servire alle battaglie del presente e interventi di più giovani collaboratori, alcuni dei quali si affacciarono al pubblicismo politico attraverso le sue pagine. Per questa sua capacità di fondere competenze e generazioni diverse ebbe una sua indiscutibile forza di aggregazione intorno a un nucleo problematico che con una certa semplificazione sintetizzeremmo nella triade: Costituzione, laicismo, europeismo. Le pagine del «Ponte» non sono soltanto lo specchio di una Italia civile che non esiste più., esse racchiudono un patrimonio di idealità, di idee e di valori che, come soleva dire Calamandrei di un dettato costituzionale, dovevano guardare lontano, non fermarsi all’orizzonte dell’immediato. In questo senso il loro messaggio è piú che mai attuale, non perché possano essere oggi riproponibili proposte che erano nate da contingenti occasioni ma perché attuali sono lo spirito e l’ansia di rinnovamento che le ispirarono in un momento in cui in questa sua lunga transizione la società italiana si trova ancora una volta a un bivio tra l’azzeramento dell’esperienza storica e civile scaturita dalla Resistenza e la sua piena riappropriazione per ridare dignità e slancio a una popolo fiaccato da una politica avventurista, a uno Stato disarticolato dai conflitti di interessi, dalla confusione tra pubblico e privato e dall’etica dell’interesse del piú forte, a un’opinione pubblica addormentata e manipolata dall’erogazione di un insensato consumo mediatico, che all’etica della responsabilità del cittadino ha sostituito quella della irresponsabilità del suddito e della delega populistica.