Durante la campagna elettorale la Meloni aveva annunciato tra gli obiettivi del suo futuro governo l’istituzione del premierato o del presidenzialismo, rimanendo nel vago su quale prediligere, essendo solo importante che il candidato fosse comunque eletto dal popolo.
Dopo qualche mese, a Sabino Cassese viene chiesto un parere in proposito e l’illustre giurista indica le sue preferenze per un premier che non sia un «primus inter pares, ma sia invece in grado di dismettere i ministri», mentre il presidente della Repubblica potrebbe «mantenere un potere di orchestrazione»; il problema principale è però quello di «assicurare più durata e più coesione» al governo e poiché «l’obiettivo primario del presidente del Consiglio è rendere più stabile l’esecutivo, bisogna lavorare per questo» («la Repubblica», 08.05.2023).
Il discorso è in parte ambiguo ( quali «poteri di orchestrazione» il capo dello Stato manterrebbe una volta consentito al presidente del Consiglio di rimuovere i ministri a suo piacimento?); ma il messaggio politico è invece assai chiaro: bisogna sostenere il governo Meloni, perché animato dalla volontà di perseguire quel meritevole e condiviso obiettivo; la natura di questo esecutivo, lo spessore politico dei suoi componenti, il contesto cioè in cui la riforma si inserisce non sembrano avere per il giurista alcuna rilevanza. Cassese, del resto, ha già dimostrato di condividere in pieno l’ansia riformatrice di questo governo, avendo accettato, a marzo, di presiedere il Comitato dei 61, incaricato di “accompagnare” il varo dell’altro caposaldo in agenda, il progetto di autonomia differenziata delle Regioni.
Senonché in agosto, quando ai media viene consegnata la bozza di riforma del premierato elaborato negli uffici della ministra delle Riforme Elisabetta Casellati, ogni ambiguità si dissolve e il progetto rivela il suo fine ultimo, l’ attacco diretto ai poteri del presidente della Repubblica: lo schema prevede, infatti, che il premier sia eletto direttamente dai cittadini se votato al primo turno dal 40% degli elettori, altrimenti dopo il ballottaggio; si suggerisce il varo di una legge elettorale che favorisca «la formazione di una maggioranza in entrambe le Camere, collegata al presidente del Consiglio»; a quest’ultimo viene attribuito il potere di nomina e di revoca dei singoli ministri e a lui spetta, di fatto, la decisione di sciogliere il Parlamento, a seguito della votazione di sfiducia anche a opera di una sola Camera: del potere di orchestrazione del presidente della Repubblica, ovviamente, non c’è più traccia.
Il progetto, fatto circolare in bozze per testare i sondaggi, indica, senza più remora alcuna, la via per stravolgere il dettato costituzionale e trasformare il governo parlamentare in una sorta di dittatura della maggioranza. A questo punto Cassese, sul «Corriere» del 27.08, manifesta tutto il suo stupore, perché «nessuno pensava che un governo stabile, da comitato direttivo della maggioranza parlamentare potesse assumere esso stesso la funzione di adottare le leggi», in un contesto in cui alle «forze di opposizione viene sottratta l’arena del dibattito, la possibilità di esercitare un’influenza, in ultima istanza la dialettica democratica».
Bene, questa è dunque l’attuale linea di tendenza: ma perché tanto, tardivo, stupore?
Non era forse questo l’esito da molti auspicato sin da quando, alla metà degli anni settanta, è cominciata a crescere ed è poi diventata egemone l’ideologia della governabilità, intesa come reazione necessitata dall’eccesso di domande provenienti dal basso, che ponevano in difficoltà il funzionamento dei governi e che perciò dall’alto dovevano essere regolate?; analisi sociologiche, riflessioni politiche, scelte istituzionali si sono così intrecciate nel tempo, supportandosi a vicenda, essendo funzionali alle esigenze e alle aspettative di uno sviluppo economico che si voleva liberare da tutta una serie di lacci e lacciuoli (e non a caso, i vari Hayek e Friedman, alfieri di questo nuovo corso, erano stati immediatamente premiati col Nobel).
Su queste premesse si è poi sviluppata, in Italia, quella lunga rivoluzione passiva che ha determinato il progressivo svuotamento delle istanze e delle rivendicazioni che alcuni partiti, sindacati e movimenti avevano posto, proprio negli anni settanta, all’ordine del giorno.
Il primo segno della avviata mutazione è stato il prevalere dei decreti legge sulla legislazione ordinaria, fenomeno già risalente ai tempi di Andreotti e Craxi, ma che nell’età di Berlusconi è diventato prassi abituale; un processo che si è sviluppato poi, in negativo, con la sistematica applicazione del voto di fiducia (per sopprimere eventuali dissensi tra gli alleati di governo), con i maxi-emendamenti (per vanificare ogni discussione con l’opposizione), tanto che il Parlamento alla fine si è ridotto a un monocameralismo di fatto (la legge votata faticosamente da una delle due Camere, viene poi approvata dall’altra in poche ore, senza possibilità di modifiche).
Il Parlamento ha avallato tutto senza reagire, prima di precipitare, nell’età di Berlusconi, in subordinazioni avvilenti (il voto delle leggi ad personam, il sit-in dei deputati davanti al Tribunale di Milano, ecc.); l’oligarchia nei partiti è stata favorita dal principio maggioritario, che, restringendo l’offerta politica, ha volutamente prodotto l’assenteismo di milioni di elettori via via non più rappresentati; ed è stata poi esaltata dalla legge di Calderoli che ha trasformato i candidati dei partiti alle elezioni in nominati dai segretari, legge che nessuno ha poi inteso modificare.
Dopo la crisi economica del 2008, la caduta del governo Berlusconi e l’austerità introdotta dal governo tecnico di Monti, la democrazia procedurale ha registrato l’oscillazione di un elettorato impaurito, che si è rivolto dapprima al Pd di Renzi (quando ancora vi era memoria dei disastri compiuti dal governo di destra), poi, col passare del tempo, ai grillini di Conte e alla Lega di Salvini; infine, vi è stata la “stabilizzazione” operata dall’esecutivo di Draghi, che ha messo al sicuro, cioè lontano da ogni tentazione redistributiva, il “tesoro” elargito dall’Europa a seguito della pandemia e ha offerto, al tempo stesso, il redditizio monopolio dell’opposizione al partito della Meloni: il vento di destra è così tornato a soffiare e, attorno alla tradizionale compagine di ex/post-fascisti sopravvissuti al Msi, ha fatto confluire gli elettori in libera uscita da Lega e Forza Italia, relegando il Pd e il Movimento 5 Stelle a una sterile opposizione.
È dunque nel contesto politico e istituzionale consolidatosi al termine di questo lungo processo che vanno valutate le proposte di riforma che la destra di governo pone oggi in agenda. Ma, se vogliamo coglierne il disegno complessivo, non possiamo fermarci a considerare l’attacco alle funzioni del capo dello Stato previsto nella bozza Casellati sul premierato e la disgregazione dell’unità nazionale perseguita da quella di Calderoli sull’autonomia differenziata; dobbiamo procedere oltre e considerare la sorte che si vuole riservare agli altri “contrappesi” che la Carta del ’48 ha previsto per equilibrare i vari poteri dello Stato e per impedire a un qualsiasi governo di fuoriuscire dalla legalità: e uno di questi, il più diffuso nel territorio, è costituito dalla Magistratura.
Contro di essa, come si sa, l’ imprenditore che, divenuto presidente del Consiglio, ha governato in primo luogo in difesa dei propri interessi, ha ingaggiato una ventennale lotta, delegittimandola di continuo grazie ai media posseduti e a quelli postisi al suo servizio: protetto da questo potere mediatico, il presidente imputato ha potuto così vestire i panni della vittima delle “toghe rosse” (Di Pietro?, Davigo?), consolidando i consensi e ricompattando gli alleati a difesa di un leader «ingiustamente perseguitato».
Poteva sembrare un caso irripetibile, ma lo è stato solo per alcuni risvolti particolarmente indecorosi (la votazione sulla nipote di Mubarak, le “cene eleganti”, ecc.); in realtà la strategia adottata da Berlusconi ha fatto scuola, è divenuta un autentico laboratorio, cui hanno attinto i presidenti di altre celebrate democrazie; sia Trump, processato per sovversione, frode e altro, che Netanyahu, imputato da anni per corruzione, si sono infatti dichiarati «vittime» di attacchi da parte della magistratura e sono sostenuti per questo da elettori sempre più fidelizzati.
Il fatto è che, al di là delle specificità del caso Berlusconi, le lotte ingaggiate da questi leader contro la magistratura hanno posto in evidenza un dato strutturale delle odierne democrazie: una volta che regole e principi vengano a collidere con le esigenze di chi è deciso a governare senza mediazioni di sorta, tutto il sistema di pesi e contrappesi entra in fibrillazione e tra questi il primo a entrare in sofferenza è proprio il controllo della giurisdizione sull’Esecutivo.
La governabilità, dunque: nata, come visto, per arginare e reprimere le istanze provenienti dall’esterno e dal basso, è diventata ora intollerante anche nei confronti dei controlli provenienti dall’interno stesso delle istituzioni; la trasformazione della democrazia procedurale in democrazia decidente prende così corpo attraverso la progressiva erosione delle articolazioni dello Stato di diritto; e questa linea di tendenza trova conferma nei mutamenti in corso anche in altri paesi europei, quali l’Ungheria e la Polonia, dove, indipendentemente dall’esistenza di accuse penali mosse ai singoli leader, i governi hanno preventivamente messo in cantiere riforme che vincolano, in vari modi, la magistratura all’Esecutivo.
In Ungheria, la riforma già attuata del sistema giudiziario ha avuto come «effetto principale, se non obiettivo primario, quello di pregiudicare l’indipendenza della magistratura e di consentire ai rami legislativi ed esecutivi di interferire nell’amministrazione della giustizia» (così la Risoluzione del Parlamento europeo del 15.05.2022); in Polonia, la legge 28.01.2016 ha incorporato la Procura generale nel ministero della Giustizia, ha stabilito che il Procuratore sia nominato dal leader del partito vincitore delle elezioni e gli ha conferito il potere di emettere linee guida per determinati casi, modificare o revocare i provvedimenti presi dai procuratori in sottordine, riducendo così in radice i possibili controlli sull’operato del governo.
Anche la Meloni, proiettata a suo tempo da Trump a livello internazionale e da anni ormai alleata in Europa con i “conservatori” di Polonia e Ungheria, giunta al governo alla guida di una coalizione di destra, si è trovata di fronte a questo problema e ha subito cercato di venirne a capo.
Innanzitutto con la scelta mirata del ministro della Giustizia: per tale carica la presidente del Consiglio ha nominato Carlo Nordio, un ex Pubblico Ministero di Venezia che, quando indossava la toga, non aveva mai fatto mistero delle sue convinzioni ideologiche (ma, non essendo queste di sinistra, nessuno lo aveva mai inserito tra i magistrati politicizzati) e che per anni aveva fustigato la corporazione di appartenenza per le asserite deviazioni, con libri e articoli apparsi su vari quotidiani.
In aprile era avvenuto il primo scontro: il dipartimento di Stato americano si era lamentato perché un cittadino russo, in attesa di estradizione in quel paese e ristretto in Italia agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, era evaso rendendosi irreperibile (come altre volte era accaduto in passato, con altri cittadini stranieri, senza che vi fossero state reazioni di sorta). La reprimenda dell’Alleato aveva, invece, questa volta, creato un grande imbarazzo nel governo e Nordio, alla ricerca di un capro espiatorio, aveva promosso un’azione disciplinare contro i giudici che, anziché incarcerare l’estradando, gli avevano applicato la detenzione domiciliare; e li aveva incolpati «di non aver valutato» elementi che «se opportunamente ponderati, avrebbero potuto portare a una diversa decisione» («Corriere della sera», 20.04.2023).
Una simile iniziativa – l’indicazione ministeriale di come avrebbero dovuto decidere i giudici e l’annunciata azione disciplinare – è parsa un’autentica invasione di campo; a giudizio delle Camere Penali, tradizionali alleate di Nordio in tante battaglie, un atto contenente «un forte elemento di intimidazione» nei confronti dei magistrati; per altri, con maggior enfasi, «un attacco mai visto alla libera magistratura» («La Stampa», 21.04.2023).
Ma non è stato che l’inizio.
La Meloni, infatti, dopo aver alimentato i consensi promettendo fantomatici blocchi navali in grado di arrestare l’immigrazione e aver constatato poi che le persone attraversavano il deserto e salivano sui barconi non a causa del “buonismo” dei precedenti governi, ma perché spinti dalla necessità di sfuggire alla fame e alle guerre, dopo la tragedia di Cutro (76 persone lasciate affogare in mare senza aiuti), aveva emanato una serie di norme volte a perseguire gli scafisti «in tutto il globo terracqueo», aggiungendo così nuova propaganda a quella precedente rivelatasi fallimentare.
Quando, però, una giudice di Catania, Iolanda Apostolico, non ha convalidato l’arresto di alcuni migranti, spiegando che i provvedimenti varati dal governo non erano in linea con la normativa europea, subito è partito un attacco concentrico nei confronti della magistrata, guidato, questa volta, dall’esperto in materia, Matteo Salvini.
Questi – come ha ricordato agli smemorati Domenico Gallo – quando era ministro dell’Interno, aveva chiesto ai suoi uffici di «tracciare» le uscite pubbliche di tre magistrate, Matilde Betti, Luciana Breggia e Rosaria Trizzino (che avevano preso dei provvedimenti corretti, ma sgraditi al governo, sempre in materia di immigrazione), al fine di individuare possibili elementi negativi (non rinvenuti) per delegittimare le loro decisioni. Ora, da ministro dei Trasporti, ha ottenuto da un carabiniere (?) la registrazione (fatta a scopo amatoriale?) di una pubblica riunione indetta cinque anni fa, sulla banchina del porto di Catania, da alcune associazioni per protestare contro il sequestro dei migranti sulla nave Diciotti disposto allora dallo stesso Salvini (prosciolto poi, da tale reato, per mancanza dell’autorizzazione a procedere, negata ai giudici dal Senato). In tale filmato, tra il pubblico, si scorgeva l’Apostolico presente tra i manifestanti e tanto è bastato per suscitare la gazzarra tra le file della destra.
Nessuno tra gli improvvisati e spesso esagitati censori ha spiegato perché il provvedimento, motivato con ricchezza di argomenti dall’Apostolico, fosse errato e perciò censurabile; secondo loro, evidentemente, i giudici non debbono interpretare la legge, ma applicarla secondo i desiderata del governo; di conseguenza ritengono superfluo valutare la motivazione del provvedimento, considerano invece decisivi i “precedenti pubblici” del magistrato e, se critici nei confronti delle politiche dell’Esecutivo, deducono automaticamente l’erroneità di quella decisione.
Dopo il “consiglio” su come scrivere le sentenze, ora è seguito quello su come comportarsi in pubblico, pena la gogna sui media, accompagnata, in questo caso, dalla richiesta di dimissioni. Sono ormai lontani i tempi in cui un ministro della Giustizia, il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, il 06.06.1944, rimuoveva per i magistrati il divieto di fare politica perché «dentro o fuori i partiti, il giudice non potrebbe non avere le sue opinioni e relazioni, tanto più efficaci queste, quanto più nascoste». Oggi, non sono più le opinioni occulte, ma quelle liberamente manifestate dal magistrato che sembrano costituire un problema, ma solo s’intende, se dissonanti dall’ideologia al momento prevalente.
Ma è il terzo passaggio di questo processo che merita la maggiore attenzione.
Avendo il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro consegnato al collega di partito Giovanni Donzelli la registrazione delle conversazioni intercettate, in carcere, tra Cospito e alcuni detenuti mafiosi – documentazione usata dal predetto alla Camera per un attacco un po’ smodato contro il Pd («Siete con lo Stato o con i terroristi?») – il solo Delmastro era finito indagato per rivelazione del segreto d’ufficio.
Malgrado Nordio si fosse affrettato a dire che le notizie divulgate non erano segrete, il P.M. romano, titolare del fascicolo, era andato di diverso avviso; tuttavia aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ma solo perché l’indagato aveva equivocato sulla natura di quei documenti; ma il Gip, ritenendo poco credibile che un avvocato penalista, responsabile della giustizia del partito della presidente del Consiglio e sottosegretario alla Giustizia potesse essere caduto in un simile errore, aveva ordinato di conseguenza al P.M. di disporne «l’imputazione coatta», come previsto dalla legge in simili casi.
Questa volta era la Meloni che, già irritata per le accuse mosse da altri magistrati alla Santanchè per possibili reati societari, ma qui preoccupata perché l’indagato era uno dei fedelissimi, autorizzava «fonti di Palazzo Chigi» (!) ad accusare «una fascia della magistratura di svolgere un ruolo attivo di opposizione e di avere deciso così di inaugurare anzitempo la campagna per le elezioni europee»: l’intervento, riprendendo alla lettera il vecchio frasario usato da Berlusconi a proposito delle «toghe rosse» (tali erano, automaticamente, tutti i magistrati titolari di inchieste che lo riguardavano), trasformava quell’interlocutorio provvedimento giudiziario in un atto politico, accusava una «fascia» indeterminata di giudici di essere oppositori del governo e, con un ulteriore salto logico, li vedeva già impegnati in vista delle elezioni del prossimo anno: il conflitto magistratura-politica, secondo la narrazione corrente, entrava così nel vivo.
Per riportare il discorso sul piano “tecnico” e riferendosi alle divergenti valutazioni di giudice e P.M. nel caso Delmastro, intervenivano allora «fonti del ministero della Giustizia» (!) che criticavano l’«imputazione coatta» disposta dal Gip, poiché essendo «il P.M. il monopolista dell’azione penale, razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusa non crede». Nordio, cultore del diritto anglosassone, aveva sempre sostenuto l’incongruità di tale procedura, perché, a suo dire, pur introdotta dal codice Vassalli, era in contrasto col sistema accusatorio. Ma la norma esisteva e l’intervento “tecnico” ministeriale aveva solo evidenziato come le «fonti di Palazzo Chigi» avessero addebitato strumentalmente intenzioni politiche a un giudice che si era limitato, semplicemente, ad applicare la legge vigente.
Ma questo intervento aveva rivelato qualcos’altro: il riferimento al P.M. monopolista dell’azione penale ad alcuni non aveva rammentato il diritto anglosassone, bensì la “novità” introdotta nel Codice fascista dal ministro Rocco, che, avendo alle sue dipendenze un P.M. «funzionario dell’Esecutivo», aveva abolito ogni controllo del giudice sul suo operato. E agli smemorati qualcun altro aveva ricordato che era stato il governo Bonomi, con la guerra ancora in corso, che si era affrettato a cancellare, col D. Lgs Lgt 14.09.1944, n. 288, quel «marchio del Regime» e a ripristinare la procedura garantista del codice del 2013.
Ebbene, la riproposizione di questo «potere di cestinazione» dell’azione penale da parte del P.M. è diventata oggi un significativo tassello della riforma della giustizia che Nordio ha illustrato nell’estate del 2023; e va letta in stretta relazione con la richiesta della separazione della carriera del P.M. da quella del giudice, separazione che, a suo dire, «significa discrezionalità dell’azione penale e la facoltà del P.M. di ritrattarla» («Corriere della sera», 14.07.2023).
Un tassello dietro l’altro, il quadro d’insieme comincia così a delinearsi.
Un P.M. monopolista assoluto dell’azione penale, collegato alla polizia giudiziaria, ma separato, per formazione e carriera, dagli organi giudicanti, non potrebbe operare in modo indipendente e cioè senza controllo, in una sorta di limbo: sono proprio le tanto invocate esigenze della governabilità che non lo possono consentire, dato che non tutte le azioni penali sono a essa funzionali (in particolare non lo sono quelle che possono incidere sull’economia e sulle pratiche di governo); per questo va introdotta una nuova figura di funzionario, necessariamente risucchiata nella sfera dell’Esecutivo; e a questo punto si coglie anche l’importanza della prevista discrezionalità dell’azione penale, posto che anche questa deve essere governata.
Si comprende così l’ossessione con cui da più parti si vuole formalizzare la separazione delle carriere, una riforma nei fatti già realizzata, grazie ai molteplici paletti via via introdotti (da ultimo anche dalla riforma Cartabia) che hanno reso praticamente irrisorio il numero di passaggi di singoli magistrati da una funzione all’altra: si tratta infatti di uno strumento che i nuovi riformatori intendono utilizzare per scardinare la Costituzione anche sotto un diverso profilo.
Calderone per FI, Stefani per la Lega, Costa per Azione, Giachetti per Italia Viva sono infatti firmatari di altrettante proposte di legge di revisione costituzionale, formalmente indirizzate a realizzare definitivamente la separazione delle carriere (con percorsi professionali diversi, due Consigli Superiori, ecc.), ma sostanzialmente dirette a mutare la composizione stessa del Csm, stabilendo per ciascuno dei due Consigli l’equiparazione numerica tra componenti laici, cioè di nomina politica, e quelli togati, eletti dai magistrati.
In altri termini: per debellare la deprecata politicizzazione delle correnti, la soluzione concordemente adottata è quella di aumentare nel Csm il peso dei partiti e il numero dei loro rappresentanti, al fine di meglio garantire l’indipendenza della magistratura. Ogni commento appare superfluo.
E la Corte costituzionale?
Marta Cartabia, che la Corte ha di recente presieduto, ha segnalato con preoccupazione il pericolo costituito dal fatto «che il malessere endogeno delle democrazie in molti casi si esprime o si accompagna anche con aggressioni alle Corti supreme o costituzionali, che vengono private dei loro poteri e della loro indipendenza» («La Stampa», 22.08.2023).
La preoccupazione è ben fondata e infatti riforme in questo senso in Ungheria e in Israele non sono mancate; ma queste richiedono tempi lunghi e gli esiti sono spesso incerti; Trump, però, ha indicato una via più breve e sicura per ottenere una diversa Corte Suprema, avendone mutato la composizione con nomine mirate e inciso di conseguenza sui suoi equilibri interni. E i risultati si sono subito visti, avendo la nuova Corte abolito le protezioni federali sul diritto ad abortire, le agevolazioni per le minoranze nelle iscrizioni universitarie e affermato il primato della fede religiosa sui diritti Lgbtq.
In Italia le procedure sono diverse, in quanto 5 giudici sono di nomina presidenziale, 5 sono eletti da tutte le magistrature e 5 dal Parlamento, ma di questi ultimi ben 4 verranno a scadere nei prossimi mesi: ciò costituirà, dunque, un ulteriore banco di prova per saggiare la volontà politica di questa maggioranza, che finora ha dimostrato di non darsi limiti nell’occupazione del potere (dai commissariamenti dell’Inail e dell’Inps, all’insediamento in Rai e negli enti culturali, alla sostituzione nei ministeri non dei soli dirigenti apicali, ma di tutti quelli di prima e di seconda fascia, rimpiazzati con personale fidato, ecc.).
Certo, l’occasione è propizia per la trumpiana di casa nostra; ma le incognite sono molte e tra queste vanno annoverati gli esiti incerti delle elezioni in Europa e in America che si terranno l’anno prossimo: saranno questi risultati elettorali, infatti, per le conseguenti ricadute che avranno sulla politica italiana, che ci diranno se la resistibile marcia della destra di Meloni nelle istituzioni potrà continuare ancora indisturbata o registrerà, invece, una battuta d’arresto.