Salman Rushdiedi Antonio Tricomi

Per quel che vale ammetterlo, non sono mai stato un lettore molto paziente con Salman Rushdie. Il suo ventriloquo virtuosismo affabulatorio, risultandomi il più delle volte oltranzistico e per certi aspetti anche troppo facile, ha spesso finito con lo stancarmi presto. I suoi espliciti intarsi citazionistici, ricavati da un’ibridazione talora eccessivamente meccanica di cultura alta e cultura pop, hanno in genere sortito su di me l’identico effetto. Con ogni probabilità sono io a sbagliarmi: capita, del resto, di fraintendere, più di altri, anzitutto gli autori con cui non si riesce a entrare in piena sintonia. Ciononostante, Rushdie continua a sembrarmi in primo luogo questo: uno smaliziato mitografo postmoderno le cui narrazioni, palesemente manieristiche, non sarebbe forse un azzardo ritenere compiuti esempi di midcult, in alcuni casi persino seducenti. Essi appaiono infatti inclini a svolgere un quasi mai implicito discorso critico e, di riflesso, a dichiarare obiettivi conoscitivi largamente condivisibili per un lettore, almeno occidentale, che voglia mantenersi ancora fedele alla laica utopia civile in principio elaborata da una peculiare anima dei Lumi: quella realmente persuasa dell’ineludibilità di valori quali la tolleranza e il relativismo culturale.

Col che ho l’impressione di aver già detto quel che penso dell’ultimo romanzo dello scrittore indiano naturalizzato britannico: Due anni, otto mesi e ventotto notti (Milano, Mondadori, 2015, pp. 292). Lo si può facilmente evincere fin dal titolo del libro: stavolta, il capolavoro della tradizione letteraria alla cui libera (o epidermica?) rivisitazione Rushdie affida il compito di fare da collante e, non meno, da cornice al proprio militante sforzo enciclopedico – cioè al desiderio di costruire una sorta di onnicomprensivo centone delle paure e delle retoriche socioculturali oggi dominanti che anzitutto però si configuri come un’erudita ricognizione archeologica di esse – è Le mille e una notte. Attualizzare e riscrivere le quali per lui significa poter dar forma a una lieve e sarcastica fiaba nera che, se non smentisce un convincimento di George Szirtes riportato in esergo – «Nelle favole non c’è teologia, non ci sono dogmi, né liturgie, né istituzioni, né prescrizioni comportamentali» –, si allinea però a un’altra intuizione del poeta ungherese, anch’essa ricordata in via preliminare ai lettori – «Le favole hanno a che fare con l’imprevedibilità e la mutevolezza del mondo» –, per condurla, verrebbe quasi da dire, a conseguenze estreme. Per affermare, in sostanza, che l’unico freno alla «Guerra dei mondi» in atto sarebbe la riscoperta dell’intrinseco sprone alla creatività, all’armonia e alla civilizzazione rintracciabile in quei grandi miti premoderni che appaiono oggi abiurati da entrambi i contendenti. Da un Islam propenso a degradarli strumentalmente a discorsi di appena presunta verità che favoriscano l’instaurazione di «un regno del terrore» supposto legittimato dall’unico verbo che ne giustifichi la necessità: «la parola di un dio, non importa quale». Da un perlopiù secolarizzato Occidente consegnatosi in maniera tanto fideistica quanto aggressiva, e «nonostante tutte le carenze del pensiero razionale», alla sovranità di un peraltro ideologico, dunque fasullo, materialismo a vocazione sia edonistica sia imperialistica. Invece – ci ricorda l’ennesima citazione posta da Rushdie in esergo al proprio romanzo, cioè quella non soltanto del suo lacerto più noto, Il sonno della ragione genera mostri, ma anche delle altre frasi che compongono la didascalia della celeberrima acquaforte di Francisco Goya, Capriccio 43, conservata al museo del Prado – «La fantasia abbandonata dalla ragione produce impossibili mostri: a lei unita è madre delle arti e origine di meraviglie».

Così, fedele all’idea che «riportare in vita una vecchia fantasia, una storia immaginaria, è un modo di raccontare l’attualità», Due anni, otto mesi e ventotto notti ci fa letteralmente viaggiare nel tempo, sbalzandoci da un remoto passato che ci permette di incontrare Averroè a un lontano futuro in cui – estintasi ormai da secoli quell’arcana sete di «conflitto» che si è a lungo rivelata «una caratteristica distintiva della nostra specie» – il mondo appare «governato dalla ragione, dalla tolleranza, dalla generosità, dalla conoscenza e dal ritegno», non essendo la paura riuscita a spingere «i popoli della Terra tra le braccia di Dio», avendo «la razza umana» imparato «a fare a meno del divino». Prefigurazione, però, solo all’apparenza idilliaca del domani che ci attende. Infatti, l’odierna «Guerra dei mondi» ci avrà frattanto convinti a ripudiare per sempre le antiche favole, suggerendoci di considerarle le autentiche responsabili di quello scatenamento della «nostra parte selvaggia» che, nel corso della storia, ci ha periodicamente sprofondati nelle «nostre tenebre». Non ci resterà, allora, che percepirci sì oltremodo «appagati», che fare sì «delle belle vite», ma pagando un «prezzo» incredibilmente salato «per la pace, la prosperità, la tolleranza, la comprensione, la saggezza, la benevolenza e la verità»: l’inconsolabile rimpianto di quei vecchi «sogni» per riavere indietro i quali finiremo addirittura con l’agognare «gli incubi», esponendoci in tal modo al rischio che qualcuno o qualcosa riesca a persuaderci un’altra volta circa il valore supposto salvifico di nuovi slanci distruttivi, di nuovi deliri apocalittici.

Perlomeno da laici, si può davvero non essere d’accordo con Rushdie quando auspica un mondo finalmente liberatosi, oltre che dai tradizionali contrasti religiosi, dall’ossessione stessa del divino? E, ancora da laici, si può forse non condividere la speranza, dalla quale la riflessione dello scrittore trae in una certa misura nutrimento, che anche un mondo rimasto orfano di Dio sappia «sognare» e s’impegni puntualmente a credere nelle proprie migliori «fantasticherie notturne», o – per meglio dire – si sforzi di elaborare utopie civili sempre nuove cercando senza sosta di tradurle in realtà? Ovviamente no. Il punto però è che, già con la loro struttura narrativa e soprattutto in virtù del gioco dei significanti cui danno di solito vita, le favole migliori ambiscono, talvolta anche in maniera perversa, a rendere problematico, o comunque a sfumare, il senso comune, non a semplificarne ancor più i discorsi arrivando a convalidare passivamente ogni suo assunto logico. Ebbene, avremmo da fare i conti con guai grossi se, ultimata la pur gradevole lettura di Due anni, otto mesi e ventotto notti, la maggior parte dei fruitori percepisse la netta sensazione di aver appena esperito una sofisticata proposta letteraria e, in special modo, di aver appena dialogato con un’articolata e fisiologicamente minoritaria diagnosi intellettuale.