di Marcello Rossi

Dopo le elezioni amministrative, che hanno confermato le magnifiche sorti e progressive del Pd di Enrico Letta, ecco un’altra elezione, molto più importante e più complessa, quella del presidente della Repubblica. Gli analisti politici già da tempo hanno esplicitato alcune loro previsioni: la prima di queste – e che forse è già tramontata perché Mattarella sembra voler rispettare la Carta costituzionale – è quella che ripropone un’operazione già messa in atto con Napolitano e cioè che l’attuale presidente sia riconfermato pro tempore (due anni, non di più) per permettere a Draghi di concludere il suo mandato e passare poi trionfalmente alla presidenza della Repubblica. Salvatore della patria prima, salvatore della patria poi!

Il fatto è che – a mio parere, ma non solo – la Costituzione non permette che il presidente della Repubblica sia eletto una seconda volta, e per di più pro tempore. Ma veniamo al Titolo II della Carta (artt. 83-91) in cui si pongono le regole per l’elezione del presidente: «può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici» (art. 84). Al 1946-47, quando la Costituzione fu scritta, l’aspettativa di vita di un cittadino non andava molto oltre i sessant’anni per cui l’idea che il mandato di un presidente potesse essere rinnovato era assolutamente impensabile. Che poi – come già accennavamo – il rinnovo del mandato possa essere pro tempore è addirittura contro l’art. 85 che statuisce che il presidente è eletto per sette anni. E a scanso di equivoci, sempre secondo l’art. 85, il Parlamento e i delegati regionali eleggono il nuovo presidente della Repubblica. Che valore dare a quel nuovo? Può essere nuovo il presidente già eletto con l’elezione precedente?

E il “caso Napolitano”? È stato un vulnus alla Costituzione, uno dei tanti di una Costituzione mai attuata, direbbe Calamandrei.

C’è poi chi (la destra della Meloni), non mettendo in discussione la candidatura di Draghi, sarebbe però disposto a eleggerlo subito presidente purché si vada poi, immediatamente, a elezioni politiche anticipate, nella speranza – ovviamente – di vincerle. E c’è chi pensa che Draghi, eletto subito presidente della Repubblica, possa indicare il nuovo presidente del Consiglio (forse Franco?) senza indire nuove elezioni. In definitiva, un presidenzialismo all’italiana, in barba alla Costituzione e alla Repubblica parlamentare nate dalla Resistenza.

Il Pd sulla questione sembra essere un po’ ondivago (ma questo non è una novità): prima delle amministrative Letta ha sostenuto che Draghi avrebbe dovuto concludere il suo mandato, il che lo avrebbe escluso dall’elezione a presidente della Repubblica; a risultato elettorale acquisito, ha dichiarato che questo risultato rafforzava il governo Draghi, sottintendendo – ma non troppo – che il Pd era il vero e l’unico partito su cui Draghi poteva fare affidamento. Affidamento su che cosa? Sulla presidenza del Consiglio o sulla presidenza della Repubblica?

Direi sul secondo corno del dilemma perché Letta ha ancora bisogno di tempo per realizzare quel “nuovo” Ulivo a cui tende e che lo porterà – secondo le sue previsioni – a vincere le elezioni politiche nel 2023 e a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. Per questo può appoggiare sia un Mattarella bis pro tempore, sia quel presidenzialismo all’italiana di cui sopra. Il tutto – ovviamente – per il bene del paese: il trionfo del centro, o meglio, di una nuova Democrazia cristiana di cui il nuovo Ulivo è espressione evidente.

E la sinistra? Assente. Ma esiste la sinistra?