conflitto socialedi Rino Genovese

Mario Pezzella è intervenuto da par suo nel dibattito avviato qualche settimana fa su questo sito, introducendo il tema del riconoscimento. In effetti, se la fraternité ha da significare qualcosa di non vagamente generico, questo qualcosa non può che essere il riconoscimento reciproco. Aggiungerei questo aggettivo per nulla secondario: se infatti si trattasse di riconoscimento unilaterale – come nel caso di un’identificazione emotiva con una star del cinema o con un personaggio televisivo –, se io riconoscessi senza a mia volta essere riconosciuto, ciò non avrebbe niente a che fare con la fraternité nel senso della divisa repubblicana della Rivoluzione francese.

La reciprocità non implica, tuttavia, che si debba essere concretamente coinvolti in una relazione interpersonale (come nell’amicizia o nell’amore); si può dare anche in una forma relativamente astratta. Quando parliamo di un riconoscimento di diritti da parte dello Stato – dei diritti di libertà individuale come di quelli propriamente sociali –, stiamo parlando di una reciprocità costituita mediante le leggi. Non si deve considerare la reciprocità che può stabilirsi all’interno di una relazione “faccia a faccia” (in realtà comunque precaria, perché l’amicizia può rompersi, l’amore terminare) come l’unica forma di reciprocità. Ce n’è una seconda, costruita tramite il diritto, non meno importante della prima.

Ebbene, questa seconda forma di reciprocità implica il conflitto sociale. È perché ci sono state delle lotte che la realtà giuridica è mutata e si è potuta costruire una reciprocità per cui, nella domanda posta dai movimenti sociali e nella risposta che a questi è stata data, lo Stato è stato riconosciuto come democratico nel momento stesso in cui ha accolto (se le ha accolte) le istanze provenienti “dal basso” trasformandole in diritti.

È dunque questa la prima considerazione: se si escludono i momenti di crisi rivoluzionaria – in cui il riconoscimento e la fraternità sono per così dire sorgivi, e avvengono per lo più in maniera diretta –, è attraverso la mediazione delle leggi che si può realizzare una reciprocità su un piano più ampio.

La seconda considerazione è che il riconoscimento reciproco non può avere, in un mondo travagliato dalle divisioni e segnato da profonde diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, l’umanità come suo referente (diversamente, ci troveremmo all’interno di una nozione religiosa di fraternità). Per forza di cose – ho cercato di dirlo già nel mio intervento precedente – la fraternità riguarda il mio compagno di lotta: non ha una portata di per sé universale ma un carattere più circoscritto, limitato all’ambito in cui io riconosco come comuni a chi mi è vicino gli stessi obiettivi. Fu questo il motivo dominante del mutualismo e del cooperativismo al suo sorgere: inserire, pur nella realtà del capitalismo, degli elementi di reciprocità che, alludendo a un mondo liberato dal capitalismo, fornissero anzitutto un sostegno a chi si trovava a condurre insieme con altri una lotta per la trasformazione della società.