di Rino Genovese

Marcello Rossi prima, e Massimo Jasonni poi, sono intervenuti su questo sito con dotti argomenti per lamentare il fatto che la lista unitaria di sinistra “Liberi e Uguali” avrebbe messo da parte la Fraternità che, oltre a essere il terzo termine della divisa della Rivoluzione francese, sarebbe anche quello specificamente socialista. Non discuto le critiche a “Liberi e Uguali”, in larga misura condivisibili (si tratta di un agglomerato informe che sembra ripetere l’errore che fu già del Pd, quello di non avere un’identità ben definita); vorrei invece mettere in questione la centralità della  fraternité nella nascita e nello sviluppo del socialismo così come si è formato storicamente. A mio parere, infatti, è molto dubbio che si possa parlare del terzo termine come di quello propriamente socialista.

Fermo restando che è dalla Rivoluzione francese che tutto il discorso prende le mosse, c’è da dire che è da una rottura nell’insieme della divisa repubblicana che si determina quel movimento di idee e di attori sociali che chiamiamo “socialismo”. È una diversa declinazione dei tre concetti, presi nel loro stretto legame. Così la liberté non può essere vista in maniera soltanto negativa come nel liberalismo: essa cioè non termina dove inizia la libertà dell’altro, ma al contrario, in termini positivi, comincia dove c’è la libertà dell’altro (in questo senso si può parlare di un “individualismo sociale”). L’égalité non può più essere soltanto giuridico-formale (come quando si dice, per esempio, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge); deve diventare sostanziale, concretizzandosi su un piano economico e sociale. La fraternité, infine, non indica più una generica solidarietà nazionale, sia pure in senso democratico; è quella tra coloro che conducono una stessa battaglia contro l’oppressione (da qui il termine “compagno”, colui con cui si con-divide il pane nel corso di una lotta civile). È insomma da una rilettura dell’insieme delle tre parole d’ordine che proviene il socialismo, non dal privilegiamento di qualcuna su un’altra.

Se poi un privilegiamento nella realtà storica c’è stato, questo lo si può vedere piuttosto con l’égalité. La questione sociale ottocentesca pone (del resto come al giorno d’oggi, verrebbe da dire, anche se non più nello stesso modo) il problema di una distanza abissale tra il prestatore d’opera e chi, al contrario, gode i frutti di un lavoro non proprio. La tematica dell’uguaglianza diviene centrale quando c’è da ridurre anzitutto delle disuguaglianze strepitose: lo diviene – e questo è il nodo spinoso che si è posto nel corso della storia – perfino a scapito della stessa libertà; laddove oggi sappiamo che i due momenti – quello della libertà e dell’uguaglianza – vanno tenuti in una costante tensione reciproca.

Ora, non è che la fraternité in tutto questo non giochi una sua parte: si tratta però di un ruolo per forza di cose subordinato. Le società di mutuo soccorso, la cooperazione e così via, sono state certo importanti nella vicenda storica del movimento operaio. Ma il mutualismo può anche essere una specie di capitalismo sotto mentite spoglie: così, per distinguersene, l’affratellamento non può essere che quello, limitato, dentro un campo definito all’interno di un conflitto sociale. Senza la centralità di questo momento del conflitto, difficilmente si sarebbe potuto parlare di socialismo. Si sarebbe rimasti a Mazzini, alle sue “società” solidaristiche, tutt’al più a Proudhon che, a differenza di Mazzini, socialista lo era, ma non vedeva nello sviluppo di un movimento di lotta il cuore del problema dell’emancipazione.

D’altronde, “fratelli” si chiamavano tra loro i massoni e i carbonari del Risorgimento, cioè gli esponenti della piccola borghesia radicale democratica. Per il socialismo, invece, tutto prese inizio da una Congiura detta degli eguali, non dei fratelli. È vero che da allora di acqua ne è passata sotto i ponti; ma, se un privilegiamento dell’uguaglianza vi fu, questa non sarebbe ancora una ragione per privilegiare oggi la fraternità.