di Lanfranco Binni
«Populisti, vil razza dannata!». Pianti, lamenti e lai, anatemi borghesi ottocenteschi a esorcismo delle “classi pericolose” alimentano il narcotraffico dei media di regime. Il sistema democratico è in pericolo. L’onda lunga dell’insorgenza diffusa e popolare contro ogni mediazione liberista e socialdemocratica tra potere politico e «popolo» (il popolo «sovrano» della Costituzione inattuata del 1948) che il 4 dicembre 2016 ha abbattuto con un sonoro no la “riforma” anticostituzionale della banda Renzi, grazie a un imprevisto protagonismo degli elettori ignoti (maledette elezioni!), il 4 marzo ha stravolto (anche questa volta con esiti imprevisti) un quadro politico già a rischio di «ingovernabilità». Il disegno furbastro del Pd di resuscitare il patto del Nazareno grazie a una legge elettorale anti M5S si è rovesciato nella disfatta del Pd, nella forte affermazione del M5S (primo partito nazionale), nello squilibrio dei rapporti di forza all’interno della coalizione di destra (sconfitta di Forza Italia e affermazione della Lega come primo partito della coalizione). Numerosi articoli di questo numero del «Ponte» analizzano i risultati elettorali, con punti di vista diversi e diverse valutazioni, come si addice a una rivista di aperto dibattito politico.
Mi preme sottolineare le tendenze che i dati elettorali rivelano: 1) l’astensionismo è stato un fenomeno contenuto, in controtendenza rispetto alle precedenti elezioni politiche e amministrative; 2) il voto al M5S, maggioritario nei collegi del sud e in alcune aree del centro e del nord, ma diffuso in tutto il paese, è stato prevalentemente un voto giovanile (classi di età: 18-35) e popolare; 3) nella sua sconfitta, il Pd ha resistito in poche aree del centro, dove più radicate sono le reti locali di potere e la confusa tradizione di un Pci perduto; 4) la coalizione di destra è risultata maggioritaria, grazie al successo della Lega, prevalentemente nelle regioni del nord, suo tradizionale bacino di radicamento; 5) l’analisi dei flussi elettorali dimostra che una parte consistente del tradizionale elettorato di centro-sinistra si è unito, nel sud, nel centro e nel nord, all’elettorato del M5S, mentre è ritornata a destra, in voti alla Lega e a Forza Italia, quella parte di elettorato di destra che nel 2013 aveva votato M5S; 6) una sostanziale assenza di credibilità ha punito, a sinistra, il confuso tentativo di Liberi e Uguali di proporsi come alternativa al renzismo nell’area politica del Pd; 7) diversa la situazione di Potere al Popolo, che ha deliberatamente fatto un uso politico della scadenza elettorale per dare visibilità a un’area di opposizione sociale “dal basso” e sviluppare collegamenti tra le diverse realtà di azione politica.
Hanno vinto gli elettorati del M5S e della Lega. I cinque anni di opposizione del M5S hanno premiato un movimento giovane e innovativo che ha saputo condurre una campagna elettorale efficace in cui alcuni temi principali (il reddito di cittadinanza, la lotta ai privilegi di casta, la coerenza legalitaria, la prospettiva di un cambiamento radicale del sistema politico) hanno fatto la differenza, attraendo settori consistenti dell’elettorato popolare del Pd, della classe operaia, delle periferie: un ampio e diffuso elettorato interclassista che si è unito per spingere al governo una nuova rappresentanza, più espressione dei temi che delle persone degli eletti. Un voto di apertura e di speranza in un quadro politico nuovo e in divenire, in cui tutto sia finalmente possibile, oltre le macerie di un sistema politico che ha creato disoccupazione, precariato, disuguaglianze, nuove povertà, subalternità all’Europa del capitalismo finanziario. Il Movimento si è esposto molto sul terreno della “democrazia diretta”, della ricostruzione dello Stato “dal basso” e della “cittadinanza attiva”: temi giusti e impegnativi, di confronto duro con la realtà sociale e le vite quotidiane, su cui si misurerà la coerenza tra idee e pratica sociale.
Ha caratteristiche profondamente diverse il voto leghista: una vecchia formazione politica, nata anche come «costola» della base elettorale del Pci, ha lavorato sui temi dell’insicurezza, della paura degli immigrati (per sfruttarli meglio, senza diritti, nel nord-est produttivo), della chiusura comunitaria e dei confini. L’immigrazione è stata, e continua a essere, il tema dominante, con i suoi corollari di razzismo e xenofobia. Ma su questo piano è necessario distinguere tra gruppi dirigenti ed elettorato: l’insicurezza e la paura sono state alimentate dall’assenza di politiche dei governi di destra e di centro-sinistra in materia di immigrazione, e quando si creano torbide complicità tra gruppi dirigenti e ceti popolari dobbiamo reintrodurre la storica nozione maoista, teorica e pratica, delle «contraddizioni in seno al popolo», per aprire conflitti tra i potenziali interessi diversi tra gruppi dirigenti e ceti popolari, naturalmente attraverso pratiche sociali conseguenti. Sparare nel mucchio serve solo a rafforzare le complicità e le prigioni identitarie.
Nella campagna elettorale di tutte le forze politiche, tranne in quella inevitabilmente limitata di Potere al Popolo, sono stati completamente assenti i temi della geopolitica e della cultura. Sul piano geopolitico la tendenza in atto è alla guerra globalizzata come continuazione dell’economia: c’è uno stretto rapporto tra la guerra economica (dazi e affini) e le atomiche «tattiche» di nuova generazione, tra il mercato delle armi e le politiche di guerra della Nato sul fronte sud (Siria, Libia, Israele e territori occupati della Palestina, fino al Niger), sul fronte est, ai confini della Russia, e sul fronte sud-est (Afghanistan, Iran). L’Italia del centro-sinistra, con l’attuale governo di “ordinaria amministrazione” è pienamente coinvolta nelle politiche di guerra dell’Unione europea e della Nato. L’alternativa alla guerra è disertare le politiche di guerra e la Nato, collocando l’Italia in un diverso quadro di relazioni internazionali, di cooperazione attiva con i paesi del sud Europa e del Mediterraneo, con la Russia e con la Cina. La stessa questione irrisolta delle migrazioni può essere affrontata solo in questo quadro. La via è quella del disarmo unilaterale, dell’abbattimento delle spese militari, della riconversione industriale da militare a civile, dello sviluppo di politiche di pace, della piena attuazione dell’articolo 11 della Costituzione (l’Italia ripudia la guerra). Anche su questo piano si misurerà, in Parlamento e nella società, la capacità del M5S di sviluppare politiche realmente innovative e di sviluppo civile. Serve un recupero di «sovranità nazionale»? Certamente. Serve per svolgere un ruolo attivo e indipendente all’interno dell’Unione europea: rinegoziando i trattati, attuando scelte di politica industriale nazionale, riorganizzando la società di tutti. Serve una sovranità aperta e libera da condizionamenti esterni, fondata su un assetto istituzionale rifondato “dal basso”, con un nuovo protagonismo dei territori (enti locali e reti associative), in una dimensione di federalismo sociale animato da comunità aperte.
L’altro tema assente dalla campagna elettorale è stato quello della cultura: scuola pubblica, Università, istituzioni e associazionismo culturale. Il terreno è disastrato, oggetto di una tenace volontà di disgregazione da parte dei governi di destra e di centro-sinistra, dagli anni novanta del secolo scorso; ma è anche terreno fecondo di pratiche di resistenza e di autorganizzazione, soprattutto nel mondo della scuola, che chiede da anni politiche diverse, di rilancio e valorizzazione di pratiche educative conflittuali con l’organizzazione liberista della trasmissione culturale, di una ricerca non subalterna al “mercato”, di un diritto allo studio liberato dai ricatti del precariato e delle nuove povertà. Anche su questo terreno, erede diretto dei movimenti del Sessantotto, cantiere carsico e centrale nella produzione di una cultura critica e rivoluzionaria, si misurerà la qualità di qualunque processo di cambiamento “in alto” e “in basso”. Sulle potenzialità produttive dei “beni culturali”, non in chiave mercantile ma come volano di un altro modello di sviluppo, ha detto parole definitive Tomaso Montanari che sarebbe un ottimo ministro della cultura in un governo a venire.
Chi non fa politica la subisce. Fare politica oggi significa soprattutto sviluppare pratiche sociali, di «nuova socialità» (così le definiva Aldo Capitini, e intendeva pratiche di socialismo qui e ora, a costruire una realtà liberata dal capitalismo e dalle sue ideologie) nella situazione concreta dei rapporti di potere, politici, sociali, interpersonali, con una visione alta, capace di vedere in orizzontale le realtà del mondo globale e in verticale le molte dimensioni della complessità umana, e di percepire l’intreccio tra presente e passato che vive in ognuno di noi. Il socialismo non è questione accademica, è necessità di trasformare il riconoscimento dei “beni comuni”, oggi ampiamente diffuso, in progetto di organizzazione sociale egualitaria, “comunista” nel senso in cui ne poteva parlare nel 1989, nell’anno del crollo definitivo dello statalismo stalinista, un socialista libertario e inquieto come Franco Fortini; a presente memoria riporto integralmente la sua voce «Comunismo», poi raccolta in Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991.
Comunismo. Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna. Unico progresso, ma reale, è e sarà un luogo di contraddizione più alto e visibile, capace di promuovere i poteri e le qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere quello scontro nella sua forma presente e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.
Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano quella, ingannevole, di scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Il confine di tale loro «libertà» non lo vivono essi come confine della condizione umana ma come un nero Niente divoratore. Per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, della propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta in insensatezza e non-libertà. Né questi sono migliori di quelli, finché si ingannano con la speranza di trasformarsi in oppressori e sfruttatori. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; e flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e fa fiorire.
Il comunismo in cammino (un altro non ne esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze tanto più avvertite come intollerabili quanto più chiara sia la consapevolezza di che cosa siano gli altri, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri. Comporterà che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce; invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Ma chi sia dalla lotta costretto ad usarli come mezzi mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulla necessità e la storia.
Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Con le manipolazioni più diverse quell’errore ha già prodotto e può produrre dei sottouomini o dei sovrauomini; questi cioè e quelli. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato nella cultura faustiana della borghesia vittoriosa, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin. Oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là dell’uomo presente, non quello della specie. Comunismo è rifiutare ogni specie di mutanti per preservare la capacità di riconoscerci nei passati e nei venturi.
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza e fraternità, quanto di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale dell’esistenza (con i nessi insuperabili di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza dei limiti della specie umana e della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). È una specie che si definisce dalla capacità di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. La identificazione con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi, allegoria dei lontani.
Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.
La messa elettorale, il rito “rappresentativo” concesso ai sudditi ogni cinque anni, è finita. Nel buon tempo antico, a questo punto la parola restava ai soli eletti e ai loro partiti di appartenenza. Non così oggi. Il voto del 4 marzo apre nuovi scenari e dà voce a nuove soggettività, in Parlamento e nella società. Siamo soltanto all’inizio di una fase nuova in cui ancora prevarranno tradizionali ritualità di gioco parlamentare, accentuando i processi di disgregazione dell’attuale sistema politico. I primi segnali delle conseguenze del voto sono già visibili nella coalizione di destra (la competizione per la leadership) e nell’area del Pd (arroccarsi o perire); nell’intera area della “sinistra” di governo, prigioniera di un liberismo fallimentare e antipopolare, cominciano a volare gli stracci. Vecchie soluzioni di ceto politico saranno tentate, per resistere a processi di cambiamento incomprensibili. Si moltiplicheranno, anche nella sinistra meno compromessa gli appelli a un non credibile “ritorno al popolo”; e proseguiranno le campagne di denigrazione ed esorcismo di un “cambiamento” insostenibile, di odio per la democrazia. Ma nel vecchio e rassicurante campo di gioco oligarchico hanno fatto irruzione nuovi soggetti, non più disponibili a subire passivamente l’eterodirezione e invece culturalmente interessati all’autonomia, a una diversa organizzazione della società di tutti. Ora è il momento di applicare gli strumenti (vecchi e nuovi) dell’“analisi concreta della situazione concreta” a una situazione nuova e in movimento. Senza confini, come raccomandò Luigi Pintor nel suo ultimo scritto su «il manifesto», 24 aprile 2003, che non a caso abbiamo riproposto, a presente memoria, nel numero di agosto-settembre 2017 di questa rivista. Cominciava con queste parole: «La sinistra italiana che conosciamo è morta», e concludeva, a proposito di un’altra sinistra da costruire: «Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Una sinistra senza nome, forte delle sue esperienze storiche e tradizioni ma tutta proiettata nel mare aperto del movimento reale, nel «cattivo nuovo» preferibile al «buon antico», come aveva capito Bertolt Brecht.