di Marcello Rossi

Giorni or sono, prima che Mattarella bocciasse il governo giallo-verde, un amico mi ha mandato una mail (ormai la comunicazione si tiene con questi strumenti) in cui, con fare malizioso, usando dell’Eduardo di Natale in casa Cupiello, mi chiedeva: «Ti piace ’o presebbio?». Gli ho risposto con le parole di Tommasino: «Non mi piace ’o presebbio». E gli ho risposto così perché questo “presebbio” mi sembrava sfacciatamente di destra, e a me la destra non piace. E qui tuttavia occorre che io faccia qualche precisazione per non essere frainteso perché io penso che il governo che stava per nascere – mi piacesse o non mi piacesse, d’altronde anche i governi democristiani non mi sono mai piaciuti – era la diretta espressione del voto del 4 marzo, il che lo rendeva assolutamente legittimo.

Come e qualmente questo governo si sia incagliato nella scelta del ministro dell’Economia è altro problema che riguarda i rapporti che sarebbero dovuti intercorrere tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio incaricato. Mi spiego: io credo che nella formazione della lista dei ministri i due presidenti avrebbero dovuto trovare un accordo, prima di arrivare alla definizione ufficiale dei ministri secondo l’art. 92 della Costituzione, secondo comma, che recita: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Vorrei richiamare l’attenzione su quel “nomina”, che è un indicativo, e non un congiuntivo o un condizionale e, secondo la sintassi italiana, la funzione dell’indicativo è quella di indicare una situazione non condizionata da incertezze. Il che vuol dire, secondo me, che le incertezze, i dubbi e i divieti su un possibile ministro si sarebbero dovuti risolvere da parte dei due presidenti prima di mettere in campo l’articolo 92, perché, se si arriva all’art. 92, i giochi sono ormai fatti. Ma altri su questa rivista, con maggiore dottrina della mia, affrontano il problema e a loro rimando il lettore.

Mi voglio invece soffermare sul «governo del presidente». Già nel commento all’articolo di Calamandrei che appare su questo numero ho esternato le mie perplessità sul fatto che il presidente della Repubblica desse vita a un «governo del presidente» o a un «governo neutrale» o a un «governo di garanzia» perché il governo deve essere espressione della volontà popolare che i risultati elettorali hanno espresso. Solo così il presidente della Repubblica è il rappresentante del potere del popolo e attua – secondo l’interpretazione di Piero Calamandrei – «l’impegno preso dal popolo nella Costituzione». E quello che io credo sia ancora più grave, e che è conseguenza del «governo del presidente», è il fatto che, se il Parlamento sfiducerà siffatto governo, la sfiducia ricadrà immediatamente sul presidente. E come si configura una sfiducia del Parlamento al presidente della Repubblica? È questo un problema nuovo su cui i costituzionalisti dovranno fare luce perché è problema che non rientra nello «stato di accusa» dell’art. 90 della Costituzione. Comunque, se io fossi il presidente, dopo una plateale sfiducia del Parlamento mi dimetterei.

Infine, il rifiuto del governo giallo-verde crea anche un problema politico. C’è infatti chi sostiene – al di là dello stabilire se il comportamento di Mattarella sia stato o non sia stato corretto – che alle prossime elezioni (che si dice si terranno il 9 settembre) Lega + M5S prenderanno l’80% dei voti. Se veramente accadesse qualcosa di simile, Mattarella avrebbe ancora la forza di rifiutare un ministro dell’Economia che nel frattempo potrebbe anche essere il leader della coalizione? E se dopo queste elezioni l’Italia sarà molto più simile all’Ungheria che non al Regno Unito a chi dovremo chiedere conto?

P.S. Queste considerazioni, come il lettore si sarà accorto, si riferivano a un momento preciso della “questione governo”, a quando, cioè, sembrava che il governo Di Maio-Salvini fosse tramontato e stesse per entrare in campo Cottarelli con il «governo del presidente». Le cose poi sono andate diversamente: mi viene da dire “purtroppo” (anche se nuove elezioni non mi avrebbero entusiasmato), perché, man mano che l’operazione si è delineata nei suoi contorni, è divenuto chiaro che Salvini era il dominus e Di Maio il liberto. Abbiamo dunque ancora un governo di destra, ma di una destra che nella storia della Repubblica non si era mai palesata in questi termini. Sembrerà un paradosso, ma io credo che il tutto sia la diretta conseguenza delle magnifiche sorti e progressive del passato renzismo, quel renzismo che ora, per risorgere, sembra stia pensando alla creazione di un fantomatico «Fronte repubblicano». Come nella Spagna repubblicana, per combattere i novelli franchisti?

m.r.