axel honnerthdi Marco Solinas

Bisognerebbe pur ricominciare a sperare in un’alternativa al capitalismo contemporaneo,  reincanalando e riattivando politicamente il sordo malessere e la cieca indignazione che attraversano la società occidentale, passando dalla disperazione alla lotta: una speranza che ancora una volta dev’essere chiamata socialista. È l’obiettivo di fondo che si prefigge l’ultimo, coraggioso lavoro del filosofo tedesco Axel Honneth, intitolato appunto L’idea di socialismo (Milano, Feltrinelli, 2016). Certo, la fisionomia del socialismo proposta in questo libro è talmente differente da quella tradizionale che i suoi padri fondatori – da Proudhon a Marx – avrebbero non poche difficoltà a riconoscere in Honneth un loro discendente diretto. E tuttavia risiede proprio in questa radicalità la forza del nuovo progetto.

Si tratta di una costruzione dal carattere eminentemente teoretico, storicamente fluttuante sulle vicende del secolo scorso. L’autore intende delineare e superare diversi elementi cruciali del framework socialista tradizionale. La critica degli errori e delle tare del vecchio paradigma socialista e marxista risulta non soltanto puntuale e incisiva, ma anche particolarmente feconda.  La sua metodologia costituisce però la debolezza del lavoro: astraendo dalla storia politica del socialismo, Honneth incorre nel rischio di fraintendere alcuni degli snodi correlati a quei molteplici processi in cui l’idea, o meglio le differenti idee, di socialismo sono state interpretate da autori e movimenti politici in luoghi e momenti storici peculiari. Una deriva beffarda per l’autore di Il diritto della libertà, anch’esso recentemente tradotto in italiano (Torino, Codice, 2015): qui infatti veniva adottato un metodo analitico di tipo storico-ricostruttivo, il cui taglio rigorosamente immanente ha indotto perfino alcuni interpreti a criticare Honneth per essere slittato inavvertitamente nel flusso della destra hegeliana, perdendo l’afflato emancipatorio che ha innervato da sempre la teoria critica. Se L’idea di socialismo rappresenta una risposta nettissima a queste critiche – poiché in esso è delineato un ideale positivo, quasi utopico, a cui poter ancorare la teoria in modo propositivo –, la divaricazione metodologica tra i due testi trova tuttavia un punto di riequilibrio nella centralità attribuita al concetto di libertà sociale.

Tale principio – ripreso da Hegel grazie a una particolare reinterpretazione dei suoi Lineamenti di filosofia del diritto – viene per molti aspetti a sovrapporsi al concetto di riconoscimento reciproco. Come quest’ultimo, anche l’ideale di libertà sociale dischiude un universo semantico assai ampio, e trova un campo di applicazione ancor più esteso: dall’amore di coppia, alle relazioni filiali e all’amicizia; dalle cooperative sociali al mercato socialista, alla socializzazione dal basso del mercato capitalistico; dai processi deliberativi collettivi alla ricerca di soluzioni di ingegneria sociale e all’ampliamento della sfera pubblica democratica. Nonostante questo principio normativo non sia mai stato usato dai socialisti, esso rappresenterebbe secondo Honneth lo storico nucleo teorico da cui nacque il socialismo tradizionale. Ed è richiamandosi a tale ideale che egli tenta di rinnovare il progetto socialista.

A me pare, però, che il nucleo del socialismo, ammesso e non concesso che ve ne sia uno soltanto, non sia unilateralmente ed esclusivamente riconducibile alla libertà sociale. Inoltre, sia le critiche sia le proposte avanzate da Honneth per rilanciare il progetto socialista mi sembrano sotto diversi aspetti indipendenti da tale concetto; anzi, separandole da quest’ultimo, possono in certi casi  acquistare persino maggiore linearità e cogenza. È a partire da questa convinzione, paradossale e contro-intuitiva, che vorrei ricostruire rapidamente la pars destruens e la pars construens di L’idea di socialismo, per ritornare da ultimo sull’uso del concetto di libertà sociale.

 Le critiche al socialismo tradizionale

Il fulcro della critica avanzata da Honneth al socialismo tradizionale ha un nome: si chiama economicismo, nel senso che i socialisti privilegiarono la sfera economica, trasformandola in una griglia attraverso cui interpretare pressoché ogni forma e dinamica sociale; trascurarono pertanto altre dimensioni fondamentali: anzitutto la sfera del diritto e della politica, e poi quella delle relazioni interpersonali. In breve, i socialisti ignorarono sistematicamente il processo di differenziazione funzionale della società contemporanea.

Più da vicino, Honneth mostra come nella tradizione socialista, a iniziare da Proudhon e Marx, fu sostenuta la tesi secondo cui il nuovo ordinamento economico avrebbe reso sostanzialmente inutile la dimensione politica dello Stato democratico di diritto. Le vecchie funzioni dello Stato sarebbero state riassorbite interamente dalla nuova sfera della cooperazione economica. Questa persuasione ha fatto sì che i socialisti siano rimasti ciechi di fronte alla necessità di preservare lo spazio del politico, in particolare quello della democrazia. Invece, se anche si costruisse una società con una economia socialista, ciò non significherebbe che la dimensione del politico potrebbe e dovrebbe essere eliminata. La stessa idea tradizionale di una economia pianificata diretta in modo centralizzato, quindi dall’alto, risente di un deficit di democraticità. Honneth sottolinea altresì come  questo economicismo abbia condotto a una interpretazione unilaterale dei diritti liberali conquistati con la Rivoluzione francese. Accecati dal loro economicismo, i socialisti e Marx si limitarono a vedervi la mera legittimazione del mercato capitalistico, senza rendersi conto della loro portata emancipatoria. Si tratta di una legittima serie di critiche che a mio parere mira – anche se Honneth non lo dice mai – a render conto indirettamente del carattere totalitario dei regimi comunisti novecenteschi.

Un secondo fronte critico, ormai classico, concerne il ruolo del proletariato e la filosofia della storia. Honneth sottolinea come i socialisti, e soprattutto Marx, abbiano ascritto al proletariato industriale degli interessi e delle aspirazioni obiettive esclusivamente in base alle sue condizioni economiche, procedendo in modo apodittico e non empirico. Tali presunti interessi hanno poi fornito la base della tesi per cui il proletariato avrebbe necessariamente rivoluzionato il modo di produzione capitalistico, supportando in questo modo una concezione della storia rigidamente deterministica. Si tratta di uno schema teorico artificialmente riflessivo, incapace di adeguamento sperimentale, che si è dissolto nel corso del Novecento, dando così un colpo mortale al socialismo in quanto teoria che si autointerpretava come coscienza di un movimento storico in atto.

Il nuovo socialismo

È l’adozione di un approccio alle trasformazioni sociali improntato a uno spiccato sperimentalismo che rappresenta, per Honneth, uno degli elementi costitutivi atti a rinnovare il socialismo superandone il vecchio determinismo storico. Una metodologia da applicare anzitutto sul fronte dell’agire economico, in due sensi principali.

In un senso negativo, l’auspicato sperimentalismo permetterebbe di superare la tradizionale concezione dell’economia, quella di Marx in particolare, a cui viene rimproverato di aver interpretato il mercato capitalistico in modo eccessivamente rigido. Marx avrebbe infatti collegato in maniera indissolubile tre elementi: primo, il rapporto di scambio regolato dalla legge della domanda e dell’offerta; secondo, la disponibilità dei capitali privati dei mezzi di produzione; terzo, un proletariato creatore di valore e nullatenente. Questi tre elementi sarebbero stati interpretati come facenti parte, scrive Honneth, di una «unità inviolabile, una “totalità” in senso hegeliano», racchiusa nel concetto di “capitalismo”. Muovendo da tale assunzione – a parte alcune eccezioni – Marx avrebbe sostenuto l’impossibilità di operare qualsiasi riforma del mercato: il sistema capitalistico doveva essere superato in blocco. Questa postura teorica indusse i socialisti a ritenere che l’unica alternativa al capitalismo dovesse essere quella di un’economia pianificata guidata in modo centralizzato. Anche in questo caso, dunque, seppure senza mai dirlo esplicitamente, Honneth sembra mirare a offrire un’alternativa al modello adottato dai regimi comunisti novecenteschi.

Quanto al suo senso positivo, lo sperimentalismo è inteso anzitutto come apertura alle diverse possibilità di riformare l’economia di mercato capitalistica. L’alternativa dev’essere costruita per tentativi, senza preclusione di sorta: devono poter essere contemplate tutte le forme economiche di matrice cooperativistica. A partire da questo approccio Honneth apre esplicitamente al socialismo di mercato, inteso come una socializzazione dal basso coadiuvata dal reddito di base e collegabile a tutte le forme esistenti di cooperative solidali. La via al socialismo diventa una via letteralmente sperimentale, che non si preclude e non teme nessuna ibridazione delle forme economiche.

Un ulteriore elemento del nuovo socialismo è poi costituito dalla centralità attribuita alla sfera dell’opinione pubblica, e più in generale alla discussione democratica. Al riguardo, Honneth supera la tradizionale cecità giuridica e politica riprendendo alcune fondamentali linee di ricerca tracciate da John Dewey e da Jürgen Habermas. Il suo progetto viene così ancorato ai presupposti socio-politici di fondo atti a garantire la democraticità della formazione della volontà politica. Tale approccio permette di bypassare la vecchia impostazione che faceva del proletariato l’unico vero destinatario della proposta socialista: ora il messaggio è diretto a tutti i cittadini della società in cui sono stati recepiti i principi normativi introdotti dalla Rivoluzione francese. Radicale e deciso ampliamento degli interessati, che però non preclude in alcun modo la necessità di continuare a farsi carico delle aspettative e delle richieste avanzate da un proletariato dei servizi in costante crescita.

 Osservazioni conclusive

Dalle critiche e proposte avanzate da Honneth emerge una struttura piuttosto cogente del discorso: al determinismo storico, alla centralità del proletariato e alla rigidità dell’economia pianificata centralizzata, si sostituisce un deciso sperimentalismo storico, aperto sia riguardo alle forme economiche sia riguardo agli attori in gioco. Alla cecità giuridica e politica del socialismo tradizionale è contrapposto un progetto radicalmente democratico, giocato sulla discussione pubblica e sull’ampliamento dei partecipanti a essa. Nella struttura complessiva del testo appare invece problematica l’analisi della sfera delle relazioni interpersonali. In proposito Honneth radicalizza la distinzione tra l’analisi della condizione di assoggettamento delle donne, sviluppata dai socialisti prevalentemente in termini di dipendenza economica, e le istanze di riconoscimento delle differenze di genere avanzate dalle femministe. Sebbene la questione sia certo spinosa, molti resoconti storici insistono però su una molteplicità di convergenze tra socialismo e femminismo, riscontrabili a partire dal XIX secolo, determinate proprio dal ruolo centrale assegnato alla dimensione economica e in riferimento alla conquista di una sempre maggiore autonomia e parità.

Tutto ciò conduce alla questione di fondo su cui vorrei, seppure brevemente, soffermarmi: il metodo analitico adottato da Honneth sul piano storico. Con il privilegiare sistematicamente la storia delle idee, Honneth ottiene certo una serie di vantaggi teorici. Ma, astraendo dalla dimensione della prassi politica, corre il rischio di deformare gli ideali dei diversi movimenti socialisti nei diversi e oggettivi momenti storici, appiattendoli su un unico modello. È una metodologia rischiosa anche sul piano teorico. Astraendo dalla storia politica del socialismo, ivi incluse le vicende dei paesi comunisti (a cui si accenna un’unica volta nell’introduzione), Honneth sembra talvolta proiettare indirettamente sugli autori e sui testi del socialismo tradizionale problemi che rispondono invece a dinamiche storiche specifiche. Quasi come se questi autori potessero essere considerati corresponsabili di fatti e misfatti che a loro in verità non appartengono.

Questo problema metodologico mi pare acuirsi allorché si arriva a una seconda questione, cui vorrei almeno accennare: l’uso della nozione di libertà sociale. Sul piano storico, la tesi di Honneth secondo cui il nucleo teorico del socialismo sarebbe stato rappresentato dall’ideale di libertà sociale mi pare problematica anzitutto perché esso, in senso letterale, è di fatto assente. Appare anche problematica la tesi secondo cui tale ideale sarebbe stato presente non letteralmente ma concettualmente. Al riguardo, la premessa di Honneth è che i socialisti avrebbero voluto conciliare e armonizzare i tre principi normativi ereditati dalla Rivoluzione francese, privilegiando appunto il principio della libertà. Questa tesi è piuttosto facilmente falsificabile sul piano storico-politico. Non pochi socialisti hanno infatti sostenuto che i tre principi non potevano essere pienamente armonizzati, essendoci tra essi tensioni irriducibili. E sono innumerevoli i socialisti che hanno  privilegiato il principio dell’uguaglianza rispetto a quello della libertà.

Trovo inoltre problematici alcuni aspetti dell’uso del concetto di libertà sociale sul piano della riattualizzazione del progetto socialista, sebbene tale principio possa contribuire a ripensarne la dimensione solidale. Il suo uso, infatti, mi pare andare a discapito di un pluralismo assiologico e  normativo, che meglio potrebbe sorreggere la costruzione di una concezione socialista della giustizia aperta e incisiva. Mi sembra che il principio di libertà sociale trovi in Honneth un campo di applicazione socio-politico talmente ampio che i suoi contorni ne risultano infine offuscati. Tale ideale, invece, potrebbe risultare più netto ed efficace se la sua banda di oscillazione venisse limitata ai due poli della solidarietà e del riconoscimento reciproco, soprattutto rispetto a talune specifiche accezioni di quest’ultimo concetto.

In conclusione, l’impostazione di Honneth presenta i due svantaggi di una ricostruzione storica esclusivamente ideale e di un approccio fondativo normativo univoco e monolitico. Trovo comunque che il testo abbia il grande merito di sforzarsi di superare in modo sistematico alcuni dei difetti costitutivi del progetto socialista, di valorizzare la sua dimensione positiva solidale, coniugandola con uno sperimentalismo economico saldamente ancorato ai presupposti basilari della democrazia.