Ci fu un tempo in cui la violenza, “levatrice della storia”, parve essere uno mezzo di emancipazione. È l’epoca in cui – dalla Rivoluzione francese, incluse le guerre napoleoniche, giù giù fino all’Ottobre sovietico e ai movimenti di liberazione dal colonialismo nei paesi del Terzo mondo – un uso della forza di matrice giacobina viene di volta in volta proposto e riproposto come strumento di progresso. Sorel, all’inizio del Novecento, ne è stato un grande sostenitore con la sua polemica contro il socialismo parlamentare e il mito dello “sciopero generale” (comunque più distruzione di cose che di esseri umani). Dopo la catastrofe delle due guerre mondiali qualcosa cambia: si comincia a dubitare della validità della violenza. Un dibattito si ebbe in Francia durante la guerra d’Algeria, quando il Fronte nazionale di liberazione metteva le bombe nei caffè e, dall’altro lato, si torturava in modo sistematico. Era non diciamo moralmente lecito ma politicamente produttivo arrivare a un simile imbarbarimento? La storia successiva – con la cattiva coscienza francese riguardo alla tortura in Algeria e il passaggio della violenza dalla matrice giacobina, così ancora nella teorizzazione di un Fanon, a quella islamista – si è incaricata di far piazza pulita di quel dibattito. Oggi in Siria il regime di Assad tortura e usa le armi chimiche contro la sua stessa popolazione; d’altro canto si assiste alle esecuzioni con relativa messinscena a uso mediatico da parte dell’islamismo radicale. L’impasse è conclamata. La violenza più brutale si avvita semplicemente su se stessa.
In un libro molto ben fatto – che ha però il difetto di non approfondire il discorso sulla trasformazione in atto, e di restare nella tradizione del pensiero marxista e “post-operaista” senza metterla in questione – Federico Tomasello (La violenza. Saggio sulle frontiere del politico, edito da Manifestolibri) prende le mosse dalle esplosioni a ondate, come nel 2005 nelle banlieues francesi o nel 2011 in Gran Bretagna, da parte di giovani di seconda e terza generazione provenienti dall’immigrazione post-coloniale che si danno a incendi e saccheggi, per mostrare come una sorta di happening della violenza espressiva sia il Leitmotiv delle nuove forme di sommossa urbana. Con la violenza anarcosindacalista come quella teorizzata da Sorel, che apparentemente le è vicina, la rivolta odierna ha tuttavia ben poco a che fare: manca il presupposto di un movimento operaio organizzato, soprattutto non c’è l’idea di un’azione rivoluzionaria, sia pure in una sua anticipazione per frammenti. Gli incendi di automobili e gli scontri con le forze dell’ordine, da parte dei banlieuesards nel 2005, erano fini a se stessi ed erano una risposta ai controlli polizieschi sul territorio (per sfuggire a uno di questi, due ragazzi si erano rifugiati in una centralina dell’elettricità rimanendo fulminati) e alle provocazioni dell’allora ministro degli interni Sarkozy (che aveva dichiarato di voler ripulire i quartieri come con un aspirapolvere). A loro modo, erano una forma di comunicazione, l’espressione di un malessere nella forma di una protesta che restava “muta”, nel senso che non c’erano rivendicazioni, e però in maniera gestuale era estremamente efficace. Del resto sarebbe riduttivo considerare la “presa di parola” qualcosa di puramente verbale. La violenza – in particolare quella contro le cose – è una forma di comunicazione gestuale, ed è un parlare a nuora perché suocera intenda, nel senso che, con il suo carattere di espressività sociale, rinvia a un intervento politico (che non ci fu, nel caso delle banlieues, non c’è mai stato in tutti questi anni) perfino di tipo riformistico: una replica alla violenza sarebbe stata, per esempio, mettere in campo una strategia di lotta alla disoccupazione e politiche di ridistribuzione del reddito. Diversamente, nel “fai da te” metropolitano, il passaggio all’islamismo, o al terrorismo con la sua componente di martirio sacrificale, è stato per taluni un modo di sviluppare quella “presa di parola” – da un momento di comunicazione gestuale a uno di comunicazione verbale. Una transizione, piaccia o non piaccia, alla politica: cioè a un tipo di espressione che rivendica le proprie azioni e mira anzitutto a galvanizzare il proprio campo dentro una prospettiva di organizzazione (“vedete, nonostante la loro forza, i paesi occidentali non sono imbattibili, possono essere messi sulla difensiva, in certi casi anche condotti a rinnegare alcuni dei loro fondamenti democratici”).
La trasformazione della violenza cui stiamo assistendo negli ultimi decenni consiste nel suo diventare, a pieno titolo, un mezzo di comunicazione, laddove in passato essa era nutrita dal mito dell’azione. Mezzo di comunicazione non significa soltanto che la violenza, com’è stato detto e ripetuto mille volte riguardo al terrorismo, si avvale dei mass media, dell’effetto di cassa di risonanza che per il loro tramite produce; la violenza tende a diventare in se stessa un mezzo di comunicazione nell’alternativa colpisco / non colpisco – e quindi, da parte dei possibili obiettivi, in virtù della tensione riguardo al “colpiranno o non colpiranno, e dove?” –, uno strumento mediante cui seminare il panico. Dall’altro lato, quello di chi detiene il potere, l’uso circoscritto della violenza legittima si fa sempre più illegittimo, come nel caso dei rapimenti segreti ai danni di islamisti radicali presunti o reali, di Guantanamo, e così via, dopo l’11 settembre americano. Nella forma di un controterrorismo terroristico, anche l’uso della forza statale diventa a suo modo una forma di comunicazione tesa a rassicurare il proprio campo, e a far sentire la ferula sul corpo dell’oppositore. La violenza di tipo giacobino – cui si poteva derogare, semmai, ma il cui ricordo restava indelebile in quanto violenza emancipatrice – è oggi un cimelio del passato. Nella trasformazione attuale la violenza è un batti e ribatti fine a se stesso, sia quando assume le vesti di una politica di marca religiosa, sia quando, al contrario, si vuole “guerra al terrorismo”.