di Luca Baiada
La Germania continua a non pagare il debito per i crimini in Italia dal 1943 al 1945, e su questo l’informazione è inadeguata. Scriveva Piero Calamandrei: «Ormai, a quello che furono capaci di fare i nazisti in Italia e in Europa, è meglio non pensarci più. È uno di quegli argomenti che nella buona società non è educazione toccare: è questione di galateo, di buon gusto».
A maggio si sono svolti due convegni: La responsabilità economica tedesca per stragi e deportazioni in Italia: il risarcimento e la memoria, e Remedies against Immunity? Reconciling international and domestic law after the Italian Constitutional Court’s Sentenza 238/2014. Il primo a Pistoia, a cura dell’Istituto storico della Resistenza, una onlus che vive di contributi dei cittadini e di spiccioli dagli enti locali; l’altro a Como, al Centro italo-tedesco di Villa Vigoni, col denaro della Fondazione Fritz Thyssen, intitolata a un industriale nazista. Il primo è stato pubblico e gratuito, hanno partecipato i familiari delle vittime e se n’è interessata Rai Tre; l’altro a scomparti: alcune fasi per gli invitati, o a pagamento, con ammissione o esclusione a discrezione degli organizzatori, e solo l’ultima parte messa su Internet.
Per la pubblicazione degli atti ci vuole tempo, e quelli di Como non potranno essere completi, visto che ci si riprometteva «the necessary confidentiality». Ma dalla guerra di tempo ne è passato già troppo, va detto qualcosa subito.
A Pistoia si è parlato della responsabilità economica di Berlino e della giurisdizione nei suoi confronti. L’attenzione è stata rivolta anche agli stratagemmi tedeschi, alla posizione italiana e al riparazionismo: è la messa in ombra del risarcimento con iniziative culturali o memoriali pagate dalla Germania col Deutsch-Italienischer Zukunftsfonds (Fondo per il futuro). Fra questi prodotti ci sono il deludente Atlante delle stragi, contestato dai familiari delle vittime, una lontana mostra a Berlino, restauri sporadici, lapidi con nomi sbagliati.
Si deve al convegno un tentativo di quantificazione del debito, elemento raro nel discorso pubblico, perché solo aprire il tema incrina l’insistenza su morale e riconciliazione. Con un dato di partenza sbagliato per difetto, settantamila morti fra stragi e deportazioni, considerando le liquidazioni nelle sentenze recenti di autorità giudiziarie italiane e gli interessi dagli anni Quaranta, sono state ipotizzate cifre per un totale superiore a cento miliardi di euro. Questo importo non terrebbe conto dei feriti, dei saccheggi, degli incendi, degli stupri, dei deportati tornati ma morti in conseguenza degli stenti patiti, del dovuto ai deportati realmente sopravvissuti. È stato sottolineato che il calcolo è ipotetico, e che chi lo confuta dovrebbe proporne uno diverso, invece di parlare d’altro.
Si è tenuto conto di quanto ha speso la Germania per i prodotti memoriali. Facendo riferimento ai dati della finanza pubblica di Berlino e ai resoconti del Bundestag, si è ipotizzato che il riparazionismo sia costato alla Germania quattro milioni di euro. Quindi, il rapporto fra il debito e la spesa riparazionista sarebbe di centomila a quattro. La proporzione è l’esito di calcoli generosi con la Germania, perché il debito è più elevato e lo speso è inferiore. I due termini si possono ridurre a misure domestiche: l’ipotesi di avere un debito di centomila euro, magari con una banca, pagare quattro euro – non alla banca, a qualcuno che racconta i rapporti fra banca e clientela – e ricevere ringraziamenti dall’autorità e dall’accademia, sentendosi dire che si sono fatti «i conti col passato», ha colpito l’uditorio.
L’incontro pistoiese è stato accompagnato da immagini illustrative. Quelle della sontuosa Villa Vigoni, già invano ipotecata dalle vittime, abituate a dimore più semplici, hanno fatto impressione, insieme alle parole del Rapporto della Commissione storica italo tedesca, del 2012, quando furono invocate le iniziative memoriali: «[La Commissione] si rivolge al governo della Repubblica federale di Germania che, in base a una dichiarazione del suo Ministro degli affari esteri, si è dichiarato pronto a un gesto di generosità ».
Sono stati ripercorsi i passaggi che hanno portato fino a qui: l’Armadio della vergogna, l’impunità dei criminali di guerra, i processi celebrati dopo il 1994 e le mancate estradizioni. Si è notata l’importanza dell’anno 2008: la crisi economica è iniziata e sta per arrivare in Europa, la Lehman Brothers fallisce, la Cassazione ribadisce i diritti italiani, si svolge un vertice italo-tedesco a Trieste, si annuncia l’avvio della Commissione storica e la Germania si rivolge alla Corte internazionale di giustizia. Fra quell’anno e il 2013 si è stretta una tenaglia: da un lato l’azione legale, in cui l’Italia è rimasta soccombente, dall’altro la spinta ai prodotti memoriali. Nel 2014, con la sentenza n. 238 della Corte costituzionale, un estremo della tenaglia si è spezzato: l’arnese è diventato inservibile e sono state emesse nuove condanne, mentre il riparazionismo ha continuato a camminare.
Rigorosamente in punto di diritto internazionale, a Pistoia è stato ricordato l’Accordo sui debiti esteri tedeschi, Londra 27 febbraio 1953 (Agreement on German External Debts – Abkommen über deutsche Auslandsschulden o LSCHABK, Londoner Schuldenabkommen), ratificato in Italia con d.p.r. n. 1712 del 1965, applicabile ai crediti sorti prima dell’8 maggio 1945. La Germania aveva riconosciuto il diritto dei cittadini italiani di rivolgersi all’autorità giudiziaria e di ottenere il risarcimento. È stato notato che comunque la Germania aveva anche rinunciato alla sua immunità , e che la Corte dell’Aia non era competente, perché l’Accordo di Londra prevede la giurisdizione esclusiva di un Tribunale arbitrale (Arbitral Tribunal for the Agreement on German External Debts – Schiedsgerichtshof für das Abkommen über Deutsche Auslandsschulden) e di una Commissione mista (Mixed Commission – Gemischte Kommission), che si estende anche alla questione di giurisdizione dei tribunali nei paesi creditori. Inoltre si è osservato che la Corte dell’Aia con la decisione del 2012 ha disatteso il diritto internazionale, e in particolare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Roma 4 novembre 1950, col suo Protocollo addizionale, Parigi 20 marzo 1952, tutto ratificato in Italia con legge n. 848 del 1955, nonché il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, New York 19 dicembre 1966, ratificato in Italia con legge n. 881 del 1977, e lo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, Roma 17 luglio 1998, ratificato in Italia con legge n. 232 del 1999, quest’ultimo specialmente nella parte in cui riprende le norme della Convenzione sulle leggi e gli usi della guerra per terra, L’Aia 18 ottobre 1907.
È stata denunciata la doppiezza dell’atteggiamento tedesco: prima della riunificazione l’Accordo di Londra, spiegabile con la divisione delle due Germanie, è stato inteso come una moratoria dallo stesso Bundesgerichtshof; dopo la riunificazione, è stato aggirato escludendo il diritto al risarcimento. Facendo così, Berlino ha violato sia il divieto di venire contra factum proprium che la Convenzione sul diritto dei trattati, Vienna 23 maggio 1969, ratificata in Italia con legge n. 112 del 1974 ed entrata in vigore anche in Germania.
Invece nel convegno di Villa Vigoni, considerando la parte resa nota, le questioni giuridiche veramente rilevanti non sono state affrontate. Però risaltano: la distanza dalla tutela delle vittime; l’inadempimento dato per scontato; il continuo slittamento espressivo, come se il baricentro lambisse la responsabilità economica senza afferrarla mai. E questo malgrado le qualifiche professionali dei partecipanti e l’impegno dell’erudizione. Come sulla Shoah, il discorso scomodo finisce sempre per cambiare discorso, in misura proporzionale al livello culturale di chi discorre. In certi momenti la dottrina ha aggirato la questione in modo così forbito, che interi brani di qualche intervento, se isolatamente considerati, potrebbero riferirsi a qualsiasi controversia. L’aspetto morale è stato taciuto o sovrapposto a quello economico, e anzi l’esecrazione dei crimini ha accompagnato lo svuotamento dei diritti al risarcimento, coi tipici accenni alla verità , al riconoscimento dei fatti, all’utilità di pagamenti nummo uno o alla nobiltà d’animo della vittima se non vuole denaro.
Nella discussione a Como si nota anche altro. L’affacciarsi nel dibattito della finanza, nominata prendendo le distanze, ma ben presente: «Non è la questione degli Eurobond». Un paragone senza senso tra la riconciliazione di ex appartenenti alle Brigate rosse coi parenti delle loro vittime, e una riconciliazione della Germania con l’Italia. Una battuta di grana grossa che accosta la bellezza della Villa, che era stata ipotecata, alla giustizia: «Una giustizia completa esiste solo in paradiso. Ora, questo posto è un paradiso, ma non sappiamo di chi sarà in futuro». Una rivelazione scarsina, da parte di un giudice della Corte dell’Aia nel 2012: quando decisero il par. 104, cioè che la questione potrebbe essere materia di nuovi negoziati, discussero per due ore se scrivere «potrebbe» o «dovrebbe».
Soprattutto, a Como risalta la prospettazione di possibili nuove iniziative tedesche in sede internazionale, e insomma la colpevolizzazione dell’Italia, come avvenuto dal 2008 al 2013.
È in linea con la colpevolizzazione l’ipotesi di un fondo che erogherebbe un po’ di denaro. Si è parlato di al massimo tremila euro a vittima, e si è detto subito che sul concetto di vittima, sui requisiti concreti, bisognerebbe ragionare. Eppure, se anche la Germania pagasse questo per settantamila morti, sborserebbe 210 milioni, cioè due millesimi del dovuto. Ma il disegno non è così, è peggiore: nel fondo l’Italia metterebbe denaro per prima, per «dare l’esempio», seguita da Berlino e da imprecisate ONG. Il progetto comporta dichiaratamente un’assunzione di colpa comune per stragi e deportazioni di italiani, e quindi un revisionismo di Stato, col retrogusto di un collaborazionismo differito e di una presa di distanza ufficiale dalla Resistenza, quindi dalla Costituzione. Per questo, a Como si è fatto cenno all’alleanza militare sino al 1943, e Christian Tomuschat, già rappresentante tedesco al processo dell’Aia, ha lasciato scivolare un’osservazione: senza l’alleanza con l’Italia, Hitler non avrebbe aggredito l’Unione sovietica. I sottintesi di questa lettura accomodata della Seconda guerra mondiale sono sconcertanti.
Giustizia e storia, una tenaglia rotta, molti ferri in giro.