di Ferdinando Imposimato
«Virtù viva sprezziam, lodiam estinta», disse Giacomo Leopardi. E questo è stato il destino di Stefano Rodotà, uomo spesso solo nelle sue battaglie, isolato da quelli che di lui avevano invidia e lo temevano come persona indipendente e non manovrabile, e oggi esaltato come statista.
Certamente il contributo di Rodotà è stato enorme, specie nella difesa della democrazia e della Costituzione repubblicana, giungendo spesso a criticare la stessa Corte costituzionale per le sue sentenze che non erano aderenti ai principi costituzionali. Egli disse che «la Corte costituzionale non ha manipolato la Costituzione, ma l’ha addirittura modificata» nel riconoscere un contenuto essenziale del diritto di proprietà privata come un diritto fondamentale, nonostante l’art. 2 Cost. abbia escluso dai diritti fondamentali il diritto di proprietà privata.
Io vagliai il suo spessore culturale e la sua grandezza morale, ma anche la sua capacità di ricerca della verità, nell’indagine che egli svolse nella «Commissione Moro». Egli fu il primo a distogliere lo sguardo dalle Brigate rosse come sole responsabili della maggiore tragedia italiana dalla nascita della Repubblica, e a occuparsi di un organismo anomalo voluto dal ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, due mesi prima dell’agguato di via Fani. L’organismo che servì a Cossiga a gestire il sequestro e la prigionia di Aldo Moro era l’Ucigos, Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali del ministero dell’Interno. Accertai l’esistenza di quell’ufficio poco tempo dopo avere scoperto, senza essermene reso conto, la prigione di Aldo Moro, a Roma in via Montalcini n. 8, interno 1, dopo l’arresto di Anna Laura Braghetti, carceriera del presidente della Democrazia cristiana, che in quella casa aveva abitato per un anno assieme ai brigatisti Prospero Gallinari e Germano Maccari.
Ma occorre fare una breve premessa prima di parlare dell’apporto di Stefano Rodotà alla comprensione di alcuni aspetti significativi della vicenda Moro e degli abusi del potere politico.
Ero stato incaricato, quale giudice istruttore, dell’inchiesta il 17 maggio 1978, – otto giorni dopo l’assassinio – alla ricerca del luogo in cui Moro era stato tenuto prigioniero dalle Br. Finalmente, dopo l’arresto della Braghetti (maggio 1980) da parte dei carabinieri, dopo due anni di ricerche spasmodiche, scoprii il misterioso appartamento in via Montalcini, una zona insolita per le Br in quanto quella era l’area della Banda della Magliana. L’appartamento era stato acquistato da Anna Laura Braghetti nel giugno 1977 con i soldi del riscatto del sequestro Costa, armatore di Genova. Nel rapporto dei carabinieri di arresto della Braghetti non c’era alcuna descrizione della casa da lei acquistata e abitata e proprio questo mi aveva incuriosito. Decisi di visitare quella casa, assieme al mio segretario, il fedele maresciallo dei carabinieri Cosimo Lagetto. Quando entrai nella casa, abitata da una persona estranea alle Br, intuii che quella potesse essere stata la “prigione del popolo”. Ne aveva tutte le caratteristiche strutturali e ambientali: luogo isolato e lontano dagli ambienti della contestazione (via Tiburtina, Centocelle, San Lorenzo e zone limitrofe).
La prima Commissione Moro, guidata dal presidente Mario Valiante, nel 1983, al termine dei suoi lavori, sostenne di non essere riuscita a individuare con certezza il luogo dove Moro era stato tenuto prigioniero, eppure aveva avuto conoscenza della casa della Braghetti in via Montalcini e la possibilità di scoprire che quella era stata la prigione.
Avevo accertato infatti, grazie all’aiuto del brigatista Patrizio Peci, che la Braghetti aveva abitato in una casa con Prospero Gallinari, ricevendo spesso la visita di Mario Moretti, capo delle Brigate rosse, che aveva interrogato Aldo Moro. Era il preciso identikit della casa di via Montalcini per la presenza di Braghetti e Gallinari. La casa era al primo piano dello stabile: vi si accedeva direttamente dal garage dove, nel box della Braghetti, la mattina del 9 maggio 1978 Moro fu ucciso da Mario Moretti e Germano Maccari. Dopo l’acquisto, nel 1977, l’appartamento era stato protetto da grate di ferro, cosa mai avvenuta in nessun altro appartamento brigatista.
Compresi che la sola possibilità di risolvere il mistero di quella casa di via Montalcini era ascoltare tutti gli inquilini che avevano abitato nello stabile tra il giugno 1977 e il settembre 1978. Affidai l’incarico di trovare gli inquilini a un misterioso ufficio creato dal potente e temuto ministro dell’Interno Francesco Cossiga nel gennaio 1978. A questo punto ebbi la prima straordinaria sorpresa: la casa della Braghetti era stata fonte di sospetti di tutti gli inquilini durante la primavera del 1978 e costoro ne avevano parlato con uomini di uno speciale ufficio del Viminale. Scoprii che agenti dell’Ucigos erano andati a indagare su via Montalcini e sulla Braghetti fin dalla primavera del 1978. Ma di quella ricerca dell’Ucigos e dell’esame degli inquilini – ed era questo l’aspetto più inquietante – non erano stati informati i magistrati che si erano occupati della tragedia di Aldo Moro: quelli della Procura della Repubblica di Roma, fino al 15 maggio 1978, e quelli dell’ufficio istruzione dal 17 maggio 1978, quando ormai Moro era stato ucciso.
È a questo punto che vennero fuori il coraggio e la sagacia di Stefano Rodotà, parlamentare della Sinistra indipendente, membro della Commissione Moro, non solo come studioso dei diritti civili, ma come ricercatore di verità, al di là della versione ufficiale, che vedeva nelle Br i soli responsabili della tragedia di Aldo Moro.
L’Ucigos era stato creato dal ministro Cossiga il 31 gennaio 1978. L’ufficio, di cui sarebbe entrato a far parte come consulente esterno l’americano Steve Pieczenick, inviato a Roma presso Cossiga da Henry Kissinger, aveva competenze amplissime che si sovrapponevano a quelle dei servizi segreti e della Polizia di Stato. Il solo a essere preoccupato di questo anomalo organismo dotato di superpoteri fu Stefano Rodotà, voce dissonante nella Commissione Moro.
Ecco cosa disse a proposito dell’Ucigos, che aveva monopolizzato le indagini a scapito dei magistrati inquirenti: «I compiti di tale ufficio appaiono in evidente contrasto con quanto dispone la legge di riforma dei servizi segreti, sia per i suoi fini, sia per la sua collocazione nell’ambito della Direzione generale per la pubblica sicurezza nel ministero dell’Interno». E qui Rodotà sferrò un duro attacco a Cossiga e ad Andreotti: «L’Ucigos non appare in linea con la logica della riforma e la sua costituzione rende non più spiegabile lo scioglimento dell’Ispettorato contro il terrorismo [guidato da Emilio Santillo, nda] e la dispersione del patrimonio di conoscenze e di professionalità dei suoi cento investigatori»1.
Allora Rodotà fu folgorato da un’intuizione sconvolgente, poi rivelatasi vera. Egli denunziò che «l’impressione di un più incisivo intervento dell’apparato giudiziario [Procura della Repubblica e Giudice Istruttore presso il Tribunale di Roma] sia stato considerato [dal potere politico] piuttosto come un fattore di disturbo in una vicenda che si preferiva gestire attraverso canali diversi». E infine l’affondo del grande inquisitore: «si tratta di fatti di tale gravità che avrebbero meritato lo svolgimento di un’inchiesta da parte del ministero competente – ma Rodotà ignorava il coinvolgimento di Cossiga come parte essenziale della creazione della struttura dotata di superpoteri – e dell’organo di autogoverno della magistratura, il Csm».
Egli si riferiva all’abolizione improvvida della struttura antiterrorismo guidata dal questore Emilio Santillo, che aveva scoperto la presenza di molti piduisti agli ordini di Gelli al Viminale, quel Gelli che controllava anche politici potenti come Flaminio Piccoli, poi segretario della Dc, Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, rispettivamente ministro dell’Interno e presidente del Consiglio, nemici giurati di Aldo Moro, come lo era Kissinger.
Le indagini successive da me compiute nel corso degli anni avrebbero consentito di spiegare la trama ordita da massoni, servizi segreti italiani e stranieri (americani, inglesi e tedeschi) e uomini politici che avevano voluto la morte di Moro, “colpevole” di aver promosso il dialogo della Dc con Enrico Berlinguer. Ma nella trama era coinvolto anche il Kgb, che con il colonnello Feodor Sergey Sokolov, sotto le mentite spoglie di uno studente di sociologia, pedinava Moro alla Sapienza. All’Unione Sovietica non andava bene il dialogo dei comunisti con i cattolici.
E questa vicenda tragica e sconosciuta – legata alla critica fondatissima mossa da Stefano Rodotà agli abusi commessi dal governo Andreotti-Cossiga nella vicenda Moro, attraverso l’emarginazione dei magistrati istruttori, tra cui chi scrive, per lasciare mano libera al manipolo di piduisti che si annidavano al Viminale, auspice Francesco Cossiga, con Federico Umberto D’Amato, Walter Pelosi, agenti della Cia, e uomini di Gladio Sb guidati da Kissinger – spiega anche come Rodotà nel 1992 venne tradito nelle sue legittime aspettative di essere eletto presidente della Camera, libero e indipendente. Al suo posto venne scelto, per volontà di Bettino Craxi e di Henry Kissinger, il migliorista Giorgio Napolitano, amico e sodale di Kissinger.
Scrisse Massimo Teodori, relatore della Commissione P2, riprendendo le accuse di Rodotà, nella sua relazione di minoranza: «il nodo della messa fuori gioco di Santillo e della sua struttura è essenziale per comprendere come sia potuto avvenire il sequestro di via Fani e il mancato successivo ritrovamento di Aldo Moro. Probabilmente con l’ispettorato funzionante, il corso della vicenda Moro avrebbe potuto essere diverso»2.
Sono convinto che quella coraggiosa presa di posizione nella vicenda Moro e nella denuncia degli abusi di Cossiga, costò a Stefano Rodotà l’esclusione dall’elezione a presidente della Repubblica, avvenuta con il patrocinio di quel governo mondiale invisibile che ancora oggi regge le sorti della nostra fragile democrazia.
1 Osservazioni di Stefano Rodotà alla relazione di maggioranza della CM, riportate nel libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, Doveva morire, Roma, Chiare Lettere, 2008.
2 Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, Doveva morire cit.