di Rino Genovese
Steve Bannon, l’ideologo della campagna elettorale di Trump negli Stati Uniti, è intervenuto qualche giorno fa in Francia in una riunione del Front national (che cambierà nome, si chiamerà Rassemblement national: piccola correzione che dimostra come questo partito non riesca ad andare molto in là nella transizione da una classica estrema destra a un populismo neoperonista – ma di questo dopo…). Ecco quello che Bannon ha dichiarato: “Marine Le Pen lo ha spiegato bene: non ci sono più una destra e una sinistra, si tratta di un’invenzione dell’establishment e dei media per impedirci di arrivare al potere. Lei lo ha detto perfettamente: considerate lo Stato-nazione come un ostacolo da superare o come un gioiello che dev’essere lucidato, curato, mantenuto?” (da “Le Monde” del 13 marzo 2018).
Da decenni si parla di un declino dello Stato-nazione, di una perdita di autonomia della politica sottoposta al primato di un’economia finanziarizzata e globalizzata, di un neoliberalismo planetario: qualcosa di più del semplice credo economico neoliberista, una vera e propria antropologia a vocazione universale, che punterebbe – trovando tuttavia non poche resistenze da parte delle culture particolari – a diventare l’unica cultura sulla faccia della terra. Ora, da questa situazione si possono prospettare due uscite: o verso il passato, con i nazionalismi più o meno spinti, con il protezionismo economico (i dazi di Trump), oppure guardando al futuro, verso formazioni statali sempre più sovranazionali e postnazionali, che abbiano in sé il principio di un federalismo “dall’alto”, nel senso di un’integrazione tra Stati, e al tempo stesso quello di un patto tra gruppi sociali diversi, anche tra culture differenti, per un controllo democratico “dal basso”.
Questa seconda prospettiva non può più essere presentata nei termini di un internazionalismo “proletario” (che presupponeva una situazione di classe in linea di massima identica in ogni paese, compresi quelli coloniali con le loro borghesie nazionali e i loro ceti subalterni); dev’essere proposta come una forma di cosmopolitismo alternativa a quella dei “padroni del vapore” neoliberale. I quali ogni giorno dimostrano il loro conservatorismo preoccupandosi di tenere aperti i mercati, volendo la libera circolazione delle merci e del denaro, ma infischiandosene delle ragioni sociali di una costruzione cosmopolitica nell’interesse dei più deboli.
Ai loro tempi Marx ed Engels si vollero preferibilmente libero-scambisti anziché protezionisti, ed era una conseguenza del loro ritenere la rivoluzione a portata di mano: bisognava spingere lo sviluppo capitalistico mondiale il più avanti possibile se si pensava a un’alternativa di società che nascesse dall’interno stesso di quel mondo che si veniva affermando tra notevoli resistenze (anche nel senso di un passato pre-borghese che non riusciva a essere liquidato). Oggi sappiamo che le cose non stanno così, e che in qualche caso il protezionismo e il nazionalismo (purché non troppo spinto, come quello a un certo momento sostenuto da Keynes) possono avere un valore progressivo. Dipende dal contesto. Nella piccola Svezia, almeno fino a ieri, era palpabile un diffuso orgoglio nazionale per il modello socialdemocratico di Stato sociale. Nell’Argentina di Perón il contenuto anticolonialista e antimperialista del nazionalismo e del protezionismo economico è fuori discussione, ed è quello che ha implicato un’eternizzazione del peronismo di cui tuttora quel paese soffre. Ma si trattava, negli anni quaranta e cinquanta del Novecento, di un paese del terzo mondo. V’immaginate, oggi, un protezionismo economico da parte del cosiddetto nord del mondo? Avrebbe tutt’altro significato – e danneggerebbe non tanto la Cina (che ha spalle solide e capacità d’imporre dazi a sua volta), quanto le piccole economie emergenti.
Da noi in Europa ci sono adesso i sovranisti di destra (senza virgolette) e quelli “di sinistra” (le virgolette sono d’obbligo) che intendono rifarsi alle vecchie esperienze novecentesche. Senza comprendere che, ammesso che un nuovo modello di Stato sociale e di politiche keynesiane sia possibile ipotizzare, esso andrebbe sul conto di un’Europa completamente riformata in senso sovranazionale (con un’imposizione fiscale progressiva identica o molto simile sull’intero continente, con regole unificate del mercato del lavoro che impediscano delocalizzazione delle imprese e dumping sociale, etc.), così da fare apparire i vari Stati nazionali europei come quei relitti del passato che sono, non meno di quanto lo fosse il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla nell’Italia risorgimentale.
Tuttavia non bisognerebbe confondere il sovranismo (nostalgico del ruolo e della centralità degli Stati nazionali) con il fascismo vero e proprio. Quest’ultimo – se non altro a partire dagli anni trenta del Novecento, quando al suo interno fece irruzione il nazionalsocialismo – non è essenzialmente “sovranista”, anzi, a suo modo può essere detto sovranazionale e universalistico: Hitler mirava infatti a un’egemonia tedesca sull’Europa e sull’intero mondo. I sovranismi odierni, pur tra loro differenti, si limitano al piccolo cabotaggio della difesa della nazione – o meglio, dell’etnia – contro gli immigrati e contro un’Europa che non farebbe abbastanza per fermare l’invasione. Sono dei particolarismi del capro espiatorio – lo straniero, l’euro, l’oligarchia di Bruxelles – più che dei nazionalismi pimpanti: qualcosa come “mogli e buoi dei paesi tuoi”, in cui si esprime oggi il fascioleghismo di Salvini, al tempo stesso liberista, perché vorrebbe abbassare le tasse, ed etnocentrico perché vorrebbe uno Stato sociale esclusivamente per gli italiani.
C’è insomma un tasso di confusione programmatica e mentale nei sovranismi che li fa essere protestatari, certo, ma anche cani che abbaiano molto e mordono poco. Prendiamo, per ritornare all’inizio di questo articolo, Marine Le Pen. Dopo un risultato elettorale modesto nel ballottaggio alla elezione presidenziale rispetto alle aspettative, e dopo una successiva “fronda” interna non di poco conto, non è riuscita a fare altro se non a cambiare nome al partito: non più “fronte” (che fa pensare a un che di combattivo) ma “raggruppamento” (che nelle intenzioni vorrebbe forse richiamare la maggiore calma di un bonapartismo alla de Gaulle). Peccato che il nome Rassemblement national ricalchi quello del Rassemblement national populaire che fu già un partito politico di punta a Vichy, fondato dall’ex socialista e poi collaborazionista filonazista Marcel Déat. Senza riuscire a staccare davvero il partito dalle sue radici, Marine Le Pen denuncia una volta di più il nesso che sussiste tra i fascismi del passato e la maggior parte dei sovranismi odierni, ma dimostra anche la loro scarsa capacità inventiva.