Vladimir Putindi Rino Genovese

Non sapevano più cos’erano, chi erano, e Putin, con il suo richiamo identitario e sovranista, è apparso come una zattera di salvataggio: così si spiega il perdurante successo dell’ex sgherro del Kgb presso i suoi connazionali devastati dalla fine dell’Unione sovietica. L’ibernazione dei tempi storici differenti – cioè la neutralizzazione reciproca di passato, inteso come tradizione, e presente, considerato come rivoluzione, nello slancio verso un futuro puramente fittizio e propagandistico: ciò che era già stato il contenuto implicito del leninismo e poi, in una rapida involuzione, quello sempre più palese dello stalinismo – aveva lasciato credere, nel lungo immobilismo post-totalitario di Breznev e compagni, che ci fosse almeno ancora una prospettiva di grande potenza. Il crollo aveva sorpreso un po’ tutti (non però un osservatore come Emmanuel Todd che l’aveva visto arrivare con qualche anticipo, basandosi sulla constatazione di un vertiginoso aumento del tasso di mortalità infantile nella “patria del socialismo”). Ed ecco, dopo molteplici traversie, l’emergere del gruppo criminale di Putin come un elemento di stabilizzazione interna, con una rinnovata capacità di giocare un forte ruolo internazionale, dalla guerra in Cecenia all’annessione della Crimea, all’intervento in Siria.

Nella Russia odierna Stalin è un punto di riferimento: il suo potere personale era basato sul terrore e sul gulag, ed era percorso da quello stesso antisemitismo già diffuso sotto il regime zarista. Ciò nonostante il contributo della Russia stalinista – dopo il patto Molotov-Ribbentrop che aveva mirato a evitare il conflitto – alla vittoria contro Hitler fu fondamentale. I due totalitarismi alla fine si erano scontrati e aveva vinto il meno peggiore. Così oggi, i piccoli emuli di Stalin, che si annettono territori e ordinano assassinî mirati di oppositori e “traditori” anche fuori dai confini nazionali, tributano omaggi a un precursore più risoluto di loro, che non aveva certo bisogno di periodiche investiture plebiscitarie per confermare il proprio dominio.

C’è perfino il tipo dello “scrittore combattente” (uno come D’Annunzio o Malraux, per fare degli esempi novecenteschi), a nome Zachar Prilepin – già vicino alla movenza “nazional-bolscevica”, soldato volontario in Cecenia, impegnato oggi a fianco dei separatisti del Donbass in Ucraina –, che in una Lettera a Stalin così si esprime: “Tu hai protetto la vita della nostra razza [da notare l’uso del termine, non si parla né di patria né di socialismo, si parla di razza]. Senza di te avrebbero soffocato i nostri nonni e bisnonni dentro delle camere a gas accuratamente predisposte da Brest a Vladivostok, e il nostro problema sarebbe stato definitivamente risolto” (da “Le Monde” del 16 marzo 2018).

Forse nulla meglio della Russia di Putin mostra in che cosa consista la minaccia culturale e politica costituita dai sovranismi, questi nazional-populismi eredi dei totalitarismi del Novecento, che montano insieme come in un insensato bricolage sia pezzi del bolscevismo-stalinismo sia dei fascismi, privando di qualsiasi spessore storico la stessa complessa vicenda del comunismo.