di Rino Genovese
[Intervento al convegno su “Vivere/sopravvivere”, Centro di psicoanalisi romano, 13-14 dicembre 2014]
In Massa e potere (un libro iniziato nel 1939, cioè nel pieno dei totalitarismi europei, e pubblicato nel 1960) Elias Canetti, autore formatosi nell’atmosfera della Vienna di Freud e di Kraus, tematizza la sopravvivenza, e il corrispondente sentimento di soddisfazione nei confronti di chi al contrario è morto, come una caratteristica propria del potere. Il suo discorso, che si avvale di una quantità di esempi tratti dalla storia e soprattutto dall’antropologia culturale, fa del capo – dell’eroe in guerra, e anche del “potente” come colui che detiene il diritto di vita e di morte sui suoi sottoposti – il sopravvivente al quale si indirizza quella speciale venerazione che è la Stimmung entro cui si colloca chi detiene il potere, ovvero colui che può dedicarsi al “sempre rinnovato piacere di sopravvivere”. In altre parole, laddove il sopravvissuto – a una catastrofe, a una strage e così via – è soltanto uno scampato alla morte, il sopravvivente, inteso come capo, è quello che la morte l’ha sfidata e sempre di nuovo ha potuto assaporare il trionfo sopra coloro che invece sono periti.
Se si pensa a condottieri come il primo Bonaparte che avevano costruito gran parte del proprio carisma sui campi di battaglia (è noto che Napoleone non si sottraeva al rischio personale), e se si pensa che, almeno nei primi anni, davanti a un fenomeno sostanzialmente inedito come quello dei totalitarismi, proprio la nozione di “bonapartismo” (con riferimento in particolare al secondo) fu usata per interpretare personaggi come Mussolini e Hitler, o anche Stalin, beh, allora il discorso di Canetti un senso ce l’ha – nonostante con lui il critico della cultura assuma le vesti di un antropologo e di uno psicologo, anziché quelle, a mio parere più consone, di un sociologo e di un teorico della politica. Il difetto, cui Canetti non si sottrae, è di antropologizzare – di fissarlo cioè oltremisura, considerandolo una costante e un’esperienza comune a tutte le culture – il fenomeno del totalitarismo che, nella sua specificità , è qualcosa di tipicamente europeo o euroasiatico (se vogliamo leggere lo stesso stalinismo come quella combinazione culturale, prima ancora che politica o tecnoburocratica, in cui si tengono insieme momenti storicamente tra loro eterogenei nel segno di una modernità forzata). Un po’ come il suo contemporaneo Martin Heidegger, che di mentalità totalitaria ne sapeva qualcosa, con mezzi tuttavia antropologici anziché ontologici, anche Canetti finisce col bloccare l’analisi del totalitarismo (si pensi, in tema di concetti bloccanti, al significato che ha in Heidegger la nozione di “tecnica”, e come questa, da ultimo, sia da lui adoperata perfino per spiegare le montagne di cadaveri in serie dei campi di sterminio): un fenomeno, al contrario, a molte facce e senz’altro mobile. Si consideri inoltre il marchio prettamente conservatore (alla Ortega y Gasset) impresso da Canetti al concetto di “massa” – fonte di qualsiasi ubriacatura carismatica, quindi di qualsiasi possibilità di ergersi quali sopravviventi al di sopra delle folle dei morti o dei “morituri” –, e si avrà un quadro pressoché completo di ciò in cui consiste Massa e potere. Un libro che affronta la morte e la sopravvivenza in termini non lontani da quelli, ontologici, dell’essere-per-la-morte di Essere e tempo.
Rivolgiamoci adesso all’esperienza contemporanea e quotidiana del sopravvivere: la vediamo come qualcosa che ha perso qualsiasi connotazione “eroica”. Oggi il sopravvivente è il lavoratore disoccupato, il cassaintegrato, il precario, qualcuno che non sa, non può sapere, che cosa gli riserva il domani. È la condizione precaria quella di chi vive sopravvivendo giorno dopo giorno. Non diversamente – ed è un significativo punto di contatto – il migrante che arriva per la prima volta in terra straniera, spesso dopo un viaggio ai limiti della sopravvivenza, è afferrato dalla precarietà dell’esistenza. Se in passato, nella società di massa studiata da Canetti e da tanti altri, era la morte in guerra – da civili sotto un bombardamento o in un’azione militare – ciò che dava il segno dell’essere sopravvissuti o sopravviventi, nell’individualismo di massa dei tempi nostri è piuttosto il “riuscircela a fare” sbarcando il lunario che conferisce il suo ritmo a una vita rattrappita.
Ma in questa costellazione, dentro una Stimmung radicalmente antieroica dell’esistenza, fa capolino nuovamente la morte, non come il contrario della vita ma come una vita che a poco a poco sfugge di mano. La condizione precaria, che è essenzialmente lavorativa, si generalizza in una certa misura, e, pur senza perdere le sue radici sociali e politiche, appare quasi esistenziale. Un vivo che non vive – come qualcuno prigioniero di uno strano incantatore sul letto di morte, un novello signor Valdemar secondo il racconto di Poe – è così la cifra di larga parte dell’esistenza contemporanea.