A Roma, sul lungotevere de’ Cenci, ancora negli anni Ottanta esisteva un vecchio caffè. Grandi vetrate, buon arredo, specchi, un ampio bancone; i camerieri sembravano usciti un po’ dall’ambiente trasteverino, un po’ dai ricordi del poeta Vincenzo Cardarelli. Era sull’angolo con via Arenula, dove c’era, e c’è ancora, il Ministero di grazia e giustizia, che adesso ha inasprito il nome: ha perso la grazia.

È qui, nel caffè sul lungotevere, che nel pomeriggio del 4 luglio 1989 irrompe un giovane raggiante, incontenibile. È vicino ai trent’anni, ha una giacca fuori moda, il colorito tradisce frequentazioni insalubri e polverose: libri, codici, biblioteche. Il modo di fare, però, stride con tanta mestizia: ride, smania, saluta gli sconosciuti; proclama che è appena diventato un magistrato, si precipita al banco, alza la voce, fa aprire una bottiglia di champagne – e subito, e del migliore! – e pretende che tutti brindino con lui, compresi i camerieri. Guai a tirarsi indietro, non sente ragioni. Un mitomane? Ha veramente vinto il concorso? E ci sarebbe da fidarsi, di magistrati così?

Ma facciamo un passo indietro, anzi, avanti. Nell’estate 2024 un noto giurista, e precisamente un civilista, il professore universitario in pensione Francesco Gazzoni, guadagna notorietà perché nel suo manuale di diritto privato ce l’ha coi magistrati, e di più con le magistrate.

Per Gazzoni i magistrati sono corporativi e politicizzati. I pubblici ministeri non gli vanno giù, i giudici civili non li risparmia, quelli del lavoro hanno «pregiudizi ideologici». Quanto alle magistrate, non devono occuparsi di famiglia e minori, «per motivi che Freud ha ampiamente illustrato». Il professore, per dire la sua sulla psiche dei magistrati, fa presente che Gli psicolabili è il titolo di un capitolo, in un libro sulla giustizia che non precisa meglio (vedremo di che si tratta). Naturalmente ricorda la proposta di Francesco Cossiga di un esame sulla psiche per la magistratura[1]. Non ricorda, però, che lo proponeva anche la loggia P2 (col decreto legislativo 44 del 2024 la valutazione sulla psiche dei magistrati è arrivata). Già che c’è, Gazzoni scrive di una «magistratura giacobina» che sarebbe «nostalgica della Costituzione napoletana del 1799», specialmente degli articoli 313 e 314 (anche su questo, vedremo). Contesta anche una decisione della Cassazione dicendo che una persona coinvolta in quel caso dovrebbe «dare una catenata nel sedere a quei giudici»[2].

Adesso torniamo nel 1989. Il giovane che abbiamo lasciato a brindare al caffè, allegro anche per lo champagne, anzi felice, felicissimo, riprende la sua Fiat 500 del 1968 riverniciata blu cobalto e se ne va. Si è tolto quella giacca; è più vecchia della 500, ma come poteva non metterla? Era di suo nonno, e per questo l’aveva portata, invariabilmente, a tutti gli esami universitari (tanti studenti hanno queste fissazioni).

E ora via, che è luglio! Il giovane in camicia apre la cappottina, abbassa i finestrini e canta a squarciagola. La voce non gli manca, l’utilitaria fa da cassa armonica e l’effetto è garantito. Sul lungotevere i gorgheggi sovrastano il traffico. Come se non bastasse, ai semafori saluta tutti, grida che è un magistrato, un magistrato, un magistrato! C’è chi si complimenta, chi lo guarda strano, chi ride, chi lo manda a quel paese. Ragioni per cantare ne ha. Anni di studi, e negli ultimi mesi ripetizioni e approfondimenti così intensi, penetranti, coinvolgenti, che ancora dopo l’esame, per giorni, per settimane, si sveglierà di colpo, la mattina presto, correndo a studiare, convinto di aver solo sognato il successo. Risolverà il problema tenendo sul comodino una copia del verbale; così potrà calmarsi, a ogni risveglio tremebondo: è tutto vero.

Basta con la terza persona, perché quel giovane fresco di esame, quel neomagistrato, sono io.

Adesso lasciamo il calendario al 4 luglio 1989 ma mettiamo indietro l’orologio: prima del mio ingresso nel caffè. L’esame scritto per la magistratura l’ho superato, oggi c’è quello orale. La commissione è riunita, presieduta da Francesco Siena, un olimpico magistrato di Cassazione. C’è anche Mario Vaudano, bravo ma non ancora autore di libri importanti. La sala è austera, con finestroni dietro il banco dei commissari, che illuminati così sembrano ministranti di un culto misterioso. Mette soggezione solo ad affacciarsi.

Ho l’agitazione fino alla cima dei capelli ma riesco a dominarla e fila tutto liscio. Tutto, proprio tutto? C’è un commissario, un civilista noto per la preparazione robusta, i modi asprigni, le posizioni eclettiche. Il presidente gli dà la parola, deve esaminarmi. Diritto civile, appunto. Il professore sceglie una questione che conosco: l’impugnazione del matrimonio non valido per incapacità di intendere e di volere di uno dei coniugi al momento delle nozze. Vediamo meglio.

Se una persona in stato di incapacità per vizio di mente si sposa, il matrimonio non è valido, ma la cosa non può essere rilevata sempre e comunque: se c’è coabitazione, si può fare solo entro un anno dal recupero delle facoltà mentali. Se la persona guarisce e lascia passare un anno senza un’azione legale, coabitando, resta sposata. Illustro la norma, mi sento a posto. Tutto bene?

Neanche per sogno. Il professore approva la descrizione, certo. Però, però, però. Sento che ha preso la cosa di punta, tasta il terreno, cerca l’incrinatura. Adesso vuole sapere se, a parer mio, quel termine di un anno è troppo lungo o troppo breve. Brusio della commissione. All’esaminando si chiede di conoscere le norme, non certo di cambiarle. Per me: panico. Che devo dire? Mettere a posto il professore ricordandogli la neutralità del candidato rispetto alla materia, proprio no. Se dico che il termine è breve, già immagino il sorriso del chiarissimo, che mi chiede di spiegare perché; e poi, via, in un anno puoi decidere, a mente sana, se quel matrimonio te lo vuoi tenere, anche se alle nozze non c’eri con la testa. Se dico che è lungo, è lo stesso; a mente sana, ci vorrà pure un po’ di tempo per pensarci. E c’è di peggio: con qualunque risposta può arrivare la domanda assassina: secondo me, quale sarebbe il termine giusto? Come a dire: quanto tempo ci vuole, per assaggiare una moglie, un marito?

Mi occorre una risposta che non risponda, che mi cavi d’impaccio senza urtare, che non permetta repliche, che vieti controdomande, precisazioni, distinguo. Devo risolvere, prevenire, depistare. Urge un colpo d’ala, un diversivo, una mossa del cavallo. Tutti mi guardano, il presidente è una sfinge, eppure sento che sono tutti in imbarazzo, che anche loro non saprebbero cosa dire. Il codice civile è pieno di termini, per impugnare, eccepire, rilevare; e se per ogni termine ci fosse questa verifica?

Dove trovai la soluzione, ancora adesso non lo so. Ma qualcosa dissi. Professore – cominciai col suo titolo accademico, per cautela, e ci misi tutta la serietà – bisogna considerare che per impugnare una sentenza penale di condanna all’ergastolo il termine è molto più breve, si calcola in giorni; e tutti possiamo convenire sul fatto che un cattivo matrimonio è peggio della galera. Quindi… Il boato della commissione non mi fece proseguire, la tensione si sciolse in grasse risate, il presidente da sfinge divenne una pasqua. Tutti contenti. Tutti? Non proprio tutti. Il commissario dalle domande impenetrabili prese a insistere, voleva ancora spiegazioni. Possibile che il topolino gli sfuggisse dagli artigli? Ma il presidente intervenne: basta, passiamo a un’altra materia. Ero salvo.

C’è bisogno di dire il nome dell’accademico insigne, nella commissione? Già: proprio Francesco Gazzoni, che adesso ci spiega le pecche dei magistrati, psicolabili, senza vedere che il problema – vero, verissimo e trascurato – riguarda tutti i giuristi, compresi gli avvocati e i professori di diritto, specialmente in una società complessa e piena di regole stratificate, violente, assurde, che sono frutto di rapporti di potere, o semplicemente di manovre, condizionamenti, scambi indicibili. Magari del lavorio nelle commissioni di giureconsulti, coi loro tira e molla, con le loro ambizioni, coi loro dispetti bambineschi e con le loro piaghe mentali. Giuristi, a loro volta, formati in università dove imperversano docenti ripetitivi, o intrattabili, o moralmente anestetizzati, o affezionati alle loro tesi cervellotiche, o divorati dall’ambizione. E adesso, tutti i giuristi sono anche chiamati a difendere una gabbia sociale in cui i poveri si impoveriscono, i ricchi si rimpinguano, i prepotenti si fanno maestri di morale, le bestie si atteggiano a profeti. Allo stesso tempo, i giuristi sono spinti a proclamare garanzie parolaie che si svuotano ogni giorno di più.

Ora è il momento di dire qualcosa sul libro da cui Gazzoni trae psicolabili. È un volume del magistrato Mario Garavelli del 2003: nel capitolo La magistratura il paragrafo Buoni e cattivi è diviso nelle sezioni I martiri (magistrati assassinati), I mariuoli (corrotti), Gli psicolabili (malati di mente o bizzarri), I parsimoniosi (vulgo lavativi) (pigri), Gli ottimati e l’onesta medietà dei più[3]. Insomma, la critica di Garavelli non è a senso unico; per esempio, proprio nella sezione Gli psicolabili vede con un po’ di comprensione l’origine delle storture mentali di quei colleghi: «Una pattuglia di magistrati […] che è affetta da una sindrome forse dovuta alla stessa professione, notoriamente stressante e patogena perché la patologia sociale è il suo humus naturale»[4].

Va anche notato qualcosa sul percorso di Garavelli: nella seconda metà degli anni Ottanta è stato alla prima sezione penale della Cassazione, allora presieduta da Corrado Carnevale detto «l’ammazzasentenze»; ha sofferto per l’esasperato formalismo del presidente e del collegio; poi il caso di Emanuele Basile, capitano dei carabinieri assassinato, con l’annullamento per due volte della condanna dei mafiosi l’ha spinto a cambiare sezione[5]. Gazzoni non solo dà una lettura parcellizzata di Garavelli, ma trascura che fra i motivi delle critiche c’è un nodo nella vita professionale: l’esigenza di giustizia per un caduto nella lotta contro la criminalità organizzata. Il fraintendimento delle parole di Garavelli è un’alchimia negativa: dal sangue nobile al cattivo inchiostro.

A questo punto, già che ci siamo, nel libro di Garavelli leggiamo qualcosa su un uomo oggi più noto; il libro accenna a una commissione: «La cosiddetta commissione Nordio (dal nome del sostituto procuratore veneziano di fede polista il quale, con notevole audacia vista la consistenza della sua produzione scientifica, ha sostituito un insigne giurista alla presidenza del consesso che deve progettare le modifiche al codice penale)»[6]. Gazzoni non si sofferma su questa chiosa, espressa vent’anni prima che Nordio diventasse ministro della giustizia.

E ora, invece, qualcosa sul manuale di Gazzoni, nell’edizione 2024. L’autore antepone al trattato sette introduzioni, la prima del 1987. In tanti anni si susseguono sempre più lunghe e più polemiche, più forbite, più fitte di «qualsivoglia». L’agitazione contro il mondo moderno è incessante e nervosa, insieme all’elogio della competizione, all’astio per il debole. Gazzoni disprezza il diritto del lavoro e i lavoratori, propugna la facoltà di licenziarli tutti, chiama i sindacalisti «mefitici» e gli studenti «bivacchi di maleodoranti e nullafacenti»; è contro la legge che dagli anni Sessanta permette l’accesso indifferenziato dei diplomati alle varie facoltà, vuole la meritocrazia e chiede un’università e una società dichiaratamente all’«americana», anche sulla sanità e sull’istruzione.

Alcune pagine sono tirate interminabili su ogni cosa, denunce di crolli sociali, degradi, sfaceli; un mondo ridotto a una cloaca, in cui zampettano esseri deboli e mostruosi che solo lotta e fatica potrebbero selezionare e sfoltire. Forse i provvedimenti del governo Meloni piacciono, a Gazzoni, se non li trova timidi, di fronte a tanto bisogno di severità. Comunque ci sono riferimenti a Nietzsche, Schopenhauer, Schmitt, Céline. Quindi non c’è da stupirsi che, divagando sulla musica, ammiri Karajan e Furtwängler (uno diresse per Hitler e l’altro quasi) storcendo il naso su Toscanini, Abbado, Muti.

E l’impugnazione del matrimonio invalido per incapacità d’intendere e di volere, la domanda micidiale al concorso? La questione ha proprio colpito Gazzoni, che nel manuale se ne occupa. Il professore precisa che il venir meno della possibilità di far valere l’invalidità non costituisce una sanatoria dell’atto di matrimonio, e che anzi:

L’ordinamento non reputa esistente la volontà di vivere come marito e moglie, volontà espressa tacitamente tramite un comportamento concludente, né considera tale volontà quale elemento sanante dell’atto, ma ricollega una decadenza a un determinato fatto [corsivo nell’originale], essenzialmente per motivi di certezza e quindi per motivi di interesse generale che prescindono del tutto dalla effettiva volontà degli interessati[7].

Cioè. La presenza di un termine sembra una questione di decenza, di prevenzione del degrado e della confusione. Strano? Chi vede bivacchi nei capannelli di studenti può vedere insidie in due persone che abitano insieme, se una delle due ha la testa confusa e non è chiaro cosa sarà di un matrimonio celebrato un anno fa.

Gazzoni nota che il codice civile parla di coabitazione, non di convivenza, e dunque che non occorre una comunione di vita fra i due. Forse anche in questo si nasconde il motivo della sua forte attenzione? Prima c’è un atto, le nozze, in cui la percezione e la volontà di un vincolo ci sono state pienamente solo da una parte; poi, dopo il recupero delle facoltà mentali, c’è un rapporto di cui conta l’ubicazione, l’indirizzo. E c’è il tempo. La curiosità di un giurista che nel corso del tempo ha visto cambiamenti sociali che considera come un disfacimento, una sciagura, una putredine, si era già fissata, nell’anno 1989, sull’effetto che ha, il tempo, per dare serietà a ciò che sembra instabile.

Gazzoni ci tiene a sottolineare, per l’esclusione della possibilità di far valere l’invalidità del matrimonio, l’importanza della coabitazione e l’irrilevanza dei contatti sessuali. E proprio sulla sessualità si nota altro. Nel manuale osserva che «c’è chi vede il diritto privato come un grande utero e il legislatore privatistico come una mamma», e che altri lo vedono come un padre e altri ancora come un essere asessuato; nelle stesse pagine ci informa di avere coi figli un rapporto fuori del «tradizionale schema della paternità»[8]. Non è interessante?

Il professore vede un arretramento del genere maschile, lo spiega con l’alimentazione, teme che il «risveglio del maschio» sia affidato ai musulmani[9]. E in una lunga rampogna sui giovani ricorda che i vecchi, quelli di un tempo, da giovani avevano scaricato le «turbe ormonali» nelle guerre. Secondo lui, poi: «Dell’orgia [corsivo mio] di follia sessantottina è rimasta, innanzi tutto, la liberazione sessuale a seguito di una deflorazione di massa, avvenuta con il consenso di quelle giovani che univano il dilettevole all’utile, al fine di essere accettate dai “rivoluzionari”»[10]. Non badiamo all’eleganza e osserviamo: da un lato, anziani che hanno regolato i conti con la sessualità dentro la guerra; dall’altro, ragazze che scelsero di fare l’amore, magari per la prima volta, in cambio dell’ingresso nell’ambiente (l’utile), cioè sostanzialmente prostituendosi ai militanti politici. Quanto all’orgia, ricompare nelle critiche ai giudici civili che liquidano risarcimenti per morte o lesioni: «Che cosa c’è alla base dell’orgia di chiacchiere che vorrebbero sorreggere la proliferazione dei danni alla persona […]?»[11].

Ancora Gazzoni, sull’ingresso delle donne nel mondo giuridico, spiega in chiave sessuale il loro rapporto col professore di diritto[12]. A proposito di studentesse: critica duramente le indagini e il processo sul delitto Russo, dice che «ingiustizia è stata fatta» e lo paragona al processo Montesi; curiosamente, si capisce che parla di Marta Russo ma non la nomina, mentre nomina Montesi[13]. Nelle sue parole, cioè, Wilma Montesi, morta in un caso irrisolto a sfondo sessuale, fa ombra a Marta Russo, un caso risolto che elementi sessuali non ne ha. Insieme a tutto questo, nelle sue pagine ci sono vari riferimenti alla mente e alla psicologia del profondo ma anche l’affermazione secondo cui i professori di psicologia «insegnano chiacchiere per microcefali»[14].

E ora una domanda: perché quegli articoli della Costituzione napoletana del 1799 lo preoccupano? Stabiliscono che sarà privato temporaneamente dei diritti di cittadinanza chi «vivrà poco democraticamente, cioè da dissoluto e voluttuoso, darà una cattiva educazione alla sua famiglia, userà de’ modi superbi ed insolenti, e contro l’uguaglianza»[15]. Lasciando da parte ogni opinione su questo rigore, è oscuro cosa disturbi Gazzoni, che specialmente in tema di voluttà – turbe, orge, deflorazioni – sembra assai severo. C’è da escludere che un tribunale giacobino avrebbe punito quest’uomo irreprensibile.

Insomma, su Gazzoni si potrebbe fare qualche indebita congettura. Anche perché fra le sue pubblicazioni ce ne sono alcune che confermano speciali attenzioni: fra i titoli, Innamoramento e amore nella giurisprudenza (divagazioni quasi giuridiche in tema di affectio consigliata) e Amore e diritto, ovverosia I diritti dell’amore.

Proprio i vissuti familiari e affettivi, coi loro conflitti, sono anche fra i giuristi il terreno ideale per la formazione di personalità complesse, che magari, in seguito, si presentano sfaccettate, contraddittorie. Persino moleste, insistenti, urticanti: come certi magistrati, avvocati, professori. I rapporti familiari, in cui le regole si conciliano a fatica con l’essenza del rapporto – amore, sensualità, cura, condivisione – , possono produrre una necessità interiore di giustizia e allo stesso tempo un bisogno di affetto che contribuiscono all’orientamento verso lo studio delle leggi. Non so se questo sia anche il caso dell’elettrico professore, e la scelta di quell’argomento – il matrimonio e la mente, il tempo e la resa dei conti – , nel 1989, unita al modo in cui la sessualità entra nelle sue argomentazioni, mi fa riflettere, senza pretesa di risposte.

Riflettendo, mi viene in mente una canzone che contiene le nozze, uno sposo agitato, accuse di vizio di mente, una comunità turbata. È la splendida Alice di Francesco De Gregori: «Ma io non ci sto più, e i pazzi siete voi! Tutti pensarono dietro ai cappelli: lo sposo è impazzito, oppure ha bevuto, ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa…». È del 1973: la famiglia italiana sta cambiando, il divorzio è arrivato e fra un anno ci sarà un referendum lacerante. Siamo tutti figli della nostra epoca.

Comunque sarebbe bassa rappresaglia, adesso, trentacinque anni dopo una domanda imbarazzante fatta a me, porne qui altre su di lui. Niente domande, non esamino l’esaminatore.

Adesso, nel 2024, sul lungotevere al posto di quel caffè c’è un negozio e gli esami di magistratura si fanno in un altro modo. La 500 me la sequestrarono i vigili urbani, anni dopo, con un verbale per illecito ambientale e una multa costosissima: veicolo abbandonato e diventato «ricettacolo di animali». Faticai a spiegare che il tizio che ci dormiva era un senzatetto, non una bestia, anche se accoglieva tutti ringhiando e scalciando. Quando capirono, fecero finta di aver perso il verbale e non pagai.

Mi resta un dubbio. Gazzoni, se mai leggerà queste righe, si convincerà che è il giurista, non solo il magistrato, ad aver spesso una mente tortuosa? Magari, invece, potrebbe prendere questo scritto come una prova. Guardate – potrebbe dire – questo magistrato, già da giovane: si affeziona a una giacchetta lisa; offre champagne a sconosciuti e camerieri; canta ubriaco al volante; attacca discorso ai semafori; e poi, via, tiene sul comodino la prova che ha vinto il concorso; e addirittura, permette a un barbone di dormire nella macchina e ai vigili di distruggere un atto pubblico. Lo dicevo, io, che sono matti!

È difficile incrinare le certezze degli accademici. Secondo il Novellino, nel Tredicesimo secolo l’eminente medico Taddeo Alderotti sosteneva che se qualcuno avesse mangiato per nove dì melanzane sarebbe diventato matto; Alderotti ne era sicuro, sicurissimo, «e provavalo secondo fisica». Un allievo vuole smentirlo, mangia melanzane per nove giorni e cerca il professore; gli compare davanti, nega di essere matto e per sottolineare la beffa, oplà, «alzasi i panni, e mostrali il culo». Che errore! Maestro Taddeo ordina: «Scrivete ched è provato; e facciasene nuova chiosa»[16].

 

 

[1] Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2024, introduzione del 2007, pp. XLV-LVII.

[2] Ivi, introduzione del 2013, pp. LIX-LXXII.

[3] Mario Garavelli, Ma cos’è questa giustizia? Luci e ombre di un’istituzione contestata, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 35-52.

[4] Ivi, p. 41.

[5] Ivi, pp. 111-112.

[6] Ivi, p. 120.

[7] Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 345.

[8] Ivi, introduzione del 1987, pp. XXV-XXVII.

[9] Ivi, introduzione del 2003, pp. XXXIII-XXXIX.

[10] Ivi, introduzione del 2013, p. LXIII.

[11] Ivi, introduzione del 2007, p. L.

[12] Ivi, introduzione del 2013, pp. LIX-LXXII.

[13] Ivi, introduzione del 2007, p. XLIX.

[14] Ivi, introduzione del 2013, pp. LIX-LXXII.

[15] Proclami e sanzioni della Repubblica Napoletana, pubblicati per ordine del governo provvisorio, edizione fatta per cura di Carlo Colletta, Stamperia dell’iride, Napoli 1863, p. 151.

[16] Sebastiano Lo Nigro (a cura di), Novellino e Conti del Duecento, Editori Associati, Milano 1989, pp. 119-120.

 

Immagine: Honoré Daumier