1. Come rileggere Marx dopo la crisi economica del nostro presente e la rivoluzione passiva, che ha ricodificato in forma neoliberista le istanze di emancipazione degli anni sessanta del Novecento? Questa è la domanda di partenza di Finelli (Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014) che, di contro ai più tradizionali marxismi della contraddizione e dell’alienazione, pone al centro dell’opera di Marx un crescente e totalitario affermarsi dell’astrazione in ogni piega del reale. Il marxismo della contraddizione si muoveva secondo lo schema dialettico del rovesciamento e della negazione della negazione:esso sottolineava soprattutto il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione, che conduce di necessità al superamento dell’ordine capitalistico e al comunismo. Entro lo stesso capitale si sviluppano capacità tecniche, scientifiche, intellettive, che sono già oggettivamente generiche e comuni e dunque incompatibili con l’appropriazione privata della ricchezza.
È la stessa forza-lavoro a essere il motore necessario del rovesciamento, secondo uno schema evolutivo che ha trovato una delle sue più compiute espressioni in Storia e coscienza di classe di Lukács. Nel corso dello sviluppo del capitale, la forza-lavoro perde, è vero, i suoi caratteri qualitativi, concreti, differenzianti; ma proprio per questo – superando ogni limite individualistico – può risolversi in soggetto universale-collettivo all’altezza dei mezzi di produzione creati dal capitale stesso. A questo processo di rovesciamento e contraddizione risolutiva, si affianca – soprattutto nel primo Marx – l’idea dell’uomo come genere comune, comunità originaria, che il capitale ha dissolto con l’incremento della divisione del lavoro. Tuttavia, proprio questa origine alienata può essere recuperata e liberata, nella forza lavoro compiutamente astratta, all’ultimo grado di sviluppo del capitale: «La sua potenza universale e fabbrile, per quanto negata attraverso la divisione del lavoro, non può comunque, per il suo carattere consustanziale all’umano, essere annichilita» (p. 73); tanto che solo oggi «l’immanenza dell’universale in ogni esistenza umana individuale» diviene del tutto esplicita; con la creazione del mercato mondiale e l’affermazione della tecnica «si è infine imposta una universalità dell’umano che si è sottratta ad ogni fissità e limite propri invece della dimensione naturale» (p. 74). Per questo marxismo, l’essere astratto della forza-lavoro può realizzare positivamente la sua antica potenza generica e universale: potenza che attende solo di essere disalienata, quasi per effetto automatico, in seguito alle contraddizioni che minano dall’interno lo sviluppo del capitale. Per Finelli, invece, l’idea di un genere umano e comune originario – e di una potenzialità emancipativa già implicita e compressa nella forza-lavoro asservita al capitale – è solo una figura mitica o un’immagine di sogno.
2. Dal «marxismo della contraddizione» Finelli prende congedo, dopo averne ricordato le correnti, le fonti e i principali esponenti (e anche i meriti storici). Il fenomeno originante del capitale è invece l’astrazione, che svuota ogni essere umano in quanto asservito come forza-lavoro; essa non lo fornisce affatto di una virtualità rivoluzionaria, neanche in potenza, ma tende a collocarlo in una dimensione di povertà assoluta, di totale desolazione della sua qualità corporea e psichica: «Non leggiamo la negazione, secondo cui il lavoro è non-capitale, come la capacità e la forza che apparterrebbe al lavoro di contrapporsi al capitale, ma come l’esclusione-liberazione dal mondo-ambiente, che lo fa povertà assoluta» (p. 123), «soggettività povera, fino alla vuotezza di sé» (p. 120).
L’enfasi del capitalismo attuale sull’individuo come «imprenditore di se stesso», il passaggio dal lavoro corporeo al lavoro immateriale, non mutano – secondo Finelli – questo stato di crescente desolazione del lavoratore dominato: le nuove ideologie del capitale esaltano un’apparenza sociale di liberazione, che appartiene ai tratti pertinenti di quella rivoluzione passiva o rivoluzione dall’alto, da cui il capitalismo di fine Novecento ha preso le mosse. Debord avrebbe detto tale apparenza spettacolare o fittizia, Finelli la definisce un simulacro, compiendo qui un gesto sottile di détournement rispetto a un termine molto amato dalla filosofia postmoderna: il simulacro non è in tal senso un alleggerimento dell’essere, ma un fenomeno sociale, prodotto dal capitale nel suo movimento di dominazione. È vero il sintomo riscontrato dal postmoderno – la superficializzazione dell’esistenza: ma è appunto solo un sintomo sviante e una formazione di compromesso, a fronte del processo di astrazione, che è invece l’osso duro del meccanismo di produzione e circolazione delle merci.
Alla polarità del marxismo della contraddizione (forze produttive-rapporti di produzione), Finelli sostituisce quella caratteristica dell’astrazione: svuotamento e dissimulazione. Questa formulazione potrebbe ricordare alcune tesi di Debord: quanto più il concreto si svuota di qualità reale, tanto più splendente di apparenze luminose e fittizie è la sua immagine, come è esibita nella sfera della circolazione e della sua fantasmagoria pubblicitaria. Finelli estende questa concezione alla persona viva del lavoratore (fordista e poi mentale): quanto più la sua personalità globale è privata di individuazione e di irripetibilità, tanto più splende la sua apparenza come «libero imprenditore di se stesso»: simulacro solo economico di una persona complessivamente dissolta. Giacché quel «libero imprenditore» appartiene alle maschere di capitale, al gioco di ruolo in cui si alternano i «tipi» che caratterizzano il suo modo di produzione.
3. Il movimento del capitale è caratterizzato dal ciclo del presupposto-posto, che Marx riprende da Hegel, per applicarlo al suo oggetto. L’astrazione del capitale, nel suo inizio non evidente, è ancora un in-sé non sviluppato, dominio solo formale. Esso cresce fino a palesarsi come il vero presupposto reale di tutto il suo modo di produzione. Il fenomeno originante del capitale è per Finelli quella merce particolare che è il lavoro astratto (più che la merce in generale, come in Benjamin e Adorno). Il presupposto è tale quando è posto in ogni piega del quotidiano e della produzione, quando il dominio del capitale diventa reale.
L’astrazione diviene l’orizzonte epistemico, l’ordine del discorso, entro cui si dispone ogni linguaggio possibile. Tuttavia, il suo nucleo più profondo – il plusvalore di capitale attraverso il dominio del lavoro e il suo sfruttamento – resta il non-visibile, il sotteso inevidente, il dio nascosto (come la misteriosa potenza del denaro, che Simmel paragonava al dio di Cusano). Il meccanismo di produzione e incremento del capitale è il non-detto di ogni discorso che tutti li regge, il moderno «mistero sacro» della sovranità. Al corpo duplice-ambivalente del Re, che secondo Kantorowicz personalizzava il potere premoderno, si è sostituito lo spirito immanente-invisibile del denaro. L’intenzione di Marx e della critica dell’economia politica è di rendere evidente questo nucleo invisibile, che inverte e dis-toglie tutte le rappresentazioni del reale. Come il re dev’essere mostrato nella sua nudità di corpo e nella sua imbecillità interdetta (diceva Lacan), così il danaro nella corposa e violenta materialità del dominio, che è alla base delle sue eteree moltiplicazioni di interesse. Accumulazione originaria e astrazione immateriale non sono due fasi successive del fenomeno, ma i suoi poli compresenti e complementari, come è oggi palese nella coesistenza di tutte le forme di lavoro e di sfruttamento, dal lavoro schiavile e servile, fino a quello digitalmente rarefatto.
Nella parte storica del I libro del Capitale, Marx mostra come il presupposto si afferma in quanto tale attraverso una lunga serie di atti contingenti di forza, di sottomissione, di invenzione tecnica. Solo alla fine, dalla prospettiva del nostro presente, riconosciamo una legge di sviluppo, consideriamo a posteriori il passato dal punto di vista del principio che si è affermato. Solo oggi l’astrazione, di cui parlava Marx, è interamente posta e reale. Ma vale anche la considerazione opposta: se la Comune avesse vinto, se la Rivoluzione spartachista non avesse commesso errori fatali, ecc. forse oggi il punto focale da cui leggiamo retrospettivamente la storia sarebbe in tutto o in parte differente. Sarebbe stato posto un diverso presupposto. Perciò Marx sottopone il ciclo spiritualista e idealista di Hegel, che procede di necessità dall’in sé al per sé, alla prova contingente delle lotte, che a ogni biforcazione, col loro esito, hanno portato al risultato attuale. Il presupposto del capitale poteva essere interrotto nel suo porsi, e può ancora esserlo, determinando una diversa leggibilità della storia. La crisi è il momento in cui il presupposto rivela un possibile stato di indeterminazione, come del resto quello in cui il capitale può riterritorializzarsi in una nuova rivoluzione passiva o conservatrice.
4. Se l’astrazione si afferma in modo totale e reale, se la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione non può più essere considerata la legge dialettica della storia, è ancora possibile immaginare e pensare una fuoruscita dall’universo del capitale? In effetti, per Finelli, è innegabile una contraddizione di genere diverso, rispetto a quella consacrata dalla tradizione del marxismo ortodosso: essa intercorre tra la superficie-simulacro della società – che come abbiamo visto è caratterizzata da una superfetazione solo immaginaria della libertà – e la disuguaglianza che si afferma come verità del reale. Qui può aprirsi una lacerazione che spinge alla rivolta l’individuo che ne è attraversato: «Perché è nello scarto che si apre tra il valore della vita liberamente autonoma, messo in scena nella superficie della società, e il disvalore della disuguaglianza e dell’oppressione di vita messo in pratica nella dimensione reale e quotidiana del vivere dei più, che si può accendere un’istanza forte di liberazione ed emancipazione» (p. 333).
Si crea una contraddizione fra essenza e apparenza sociale che può ricordare quella del torto, secondo Rancière: fra l’universalismo proclamato dei diritti e la dissimetria praticata della padronanza. La simulazione e dissimulazione di uguaglianza, che domina la superficie svuotata del reale, la sua povertà assoluta, suscita però il sogno di possederla realmente; sorge così un conflitto insanabile fra desiderio e apparenza del dominio, che cerca di sviarlo in rivoluzione passiva: «Ed è appunto qui, nello spazio che si apre all’interno della società capitalistica tra appello e stimolo ininterrotto all’autonomia individuale da un lato e non saturazione e inadempienza della medesima dall’altra – in questa accensione di desiderio sollecitata e mai realizzata – che si colloca […] la genesi di una soggettività critica» (p. 334).
Non c’è dunque passaggio necessario dalla soggettività plasmata dal capitale a quella emancipata, quasi fosse una potenza che diviene atto: l’uomo in rivolta deve fronteggiare l’assoluta povertà della disperazione prodotta dai simulacri del capitale, dalla sua insistita delusione, dal dolore radicale della perdita. La soggettività critica insorge contro l’apparenza soggettiva elaborata dal dominio del capitale e contro la sua essenza fondata sul lavoro astratto, ben lungi dall’esserne il semplice rovesciamento o la realizzazione autentica. La contraddizione non è più solo di genere economico, ma diviene soprattutto politica, psichica e morale: non per questo meno oggettiva e determinata.
Tale individuazione è incompatibile col mito di un’origine felice della vita, di un «genere umano» fabbrile destinato al dominio della natura, ma anche con le forme di individuazione ricodificate dal capitale, che ne rappresentano il distoglimento e il distorcimento. Queste vanno rovesciate a loro volta: non è che – per esempio – l’«imprenditore di se stesso» contenga in nuce la possibilità dell’emancipazione del desiderio e del comune; ma un’istanza di liberazione radicale nata negli anni sessanta e settanta del Novecento è stata ricodificata e dominata nella figura dell’imprenditore di se stesso. Il capitale non fornisce segnavia oltre il suo orizzonte: il desiderio che lo oltrepassa nasce dalle e nelle sue crisi, non dal suo sviluppo, e il suo sforzo incessante è di riplasmarlo in forma sfigurata e resa dominabile.
In altre parole, non c’è maturazione del socialismo all’interno del capitale, ma dissociazione costitutiva tra l’apparenza della libertà (nella circolazione) e l’essenza dello sfruttamento (nella produzione). La prima rende non visibile la seconda. Non c’è segnavia che porti da quell’apparenza – con minimo attrito – all’alterità del socialismo. L’esigenza di uguaglianza e di libertà può essere lì formalmente presente; ma per divenire effettiva deve sovvertire l’essenza del modo di produzione. L’astrazione delle forme di lavoro attuali non è premessa di liberazione, ma il suo détournement sul piano dell’apparire. Mentre il desiderio di individuazione dovrebbe crescere e affermarsi ribellandosi a quelle forme di dominio, che prosciugano l’essere irriducibile della singolarità: «Al prevalere dell’orizzontale e dello schiacciamento sulla superficie va cioè contrapposta una verticalizzazione dell’agire e del sentire. All’invasione e allo svuotamento dell’astratto, alla spiritualizzazione della nostra vita, una pratica di materializzazione emozionale quale paradigma di una rinnovata incarnazione» (p. 367).
5. L’individuazione costituisce il piano verticale della soggettività, polo complementare di quello orizzontale, che appartiene invece allo spazio sociale. Per indagare quel primo momento Finelli ritiene indispensabile l’apporto della psicanalisi, soprattutto nelle forme elaborate da Freud e da Bion. Egli rielabora in modo originale la teoria del riconoscimento di A. Honneth: il riconoscimento dell’altro fuori di sé non può andare disgiunto da quello dell’alterità entro di sé, e il primo senza il secondo non è possibile. L’affinamento del proprio «corpo emozionale» in ordine simbolico comporta sia la decifrazione dell’alterità entro di sé, sia l’esistenza di un contenitore, di un’accettazione e di un riconoscimento dell’altro esterno. Solo la presenza di quest’ultimo «protegge» dall’inquietudine del mondo pulsionale, che può aggredire il soggetto con la sua violenta ambivalenza (Finelli ha ben presente la potenza della pulsione di morte, il suo conflitto col desiderio di vita: la sua visione dell’inconscio non ha nulla di irenico, nulla che vada in direzione di un potenziamento e di un adeguamento dell’Ego alle strutture sociali e morali dominanti). L’individuazione è concepibile solo in un rapporto dialettico tra dimensione verticale e dimensione orizzontale della psiche; e d’altra parte solo l’individuazione permette la formazione di un soggetto politico libero, non dominato dalle identificazioni con l’aggressore e dalla servitù volontaria, che già Freud aveva individuato come caratteristiche della massa moderna: «L’asse verticale del riconoscersi, quale relazione mente-corpo emozionale, non si costituisce cioè senza l’asse orizzontale del riconoscimento, attraverso il quale la mente dell’altro porta dentro di sé la mia mente, consentendole di raffreddare l’emozione e di avviare un dialogo con la propria affettività» (p. 371). Partendo di qui, sostiene Finelli, sarà necessario affiancare alla critica dell’economia politica una critica dell’economia libidica, ancora da costruire, che riconosca il carattere irriducibile dell’individuazione.
La relazione tra la verticalità della psiche e l’orizzontalità dello spazio sociale è per Finelli un «trascendentale […] dell’essere umano», e più in particolare del giudizio politico. A cui si giunge in una lenta dialettica di persuasione e di comunicazione della differenza e dell’alterità: il desiderio dell’altro e il mio si riconoscono reciprocamente e anche si limitano, in forme e regole del gioco condivise e accettate. Di fronte all’illimitato incremento quantitativo senza tregua e senza riposo, che caratterizza l’astrazione capitalista e la religione del denaro, la posizione di limiti – di carattere ecologico e morale – è certamente necessaria: e tuttavia l’autorità del limite non può essere accettata come servitù a un comando posto gerarchicamente, dall’alto. È, la sua, un’autorità senza padri e capi che richiedano obbedienza e identificazione, elaborata dal «pensiero ampliato» dei molti (Arendt), nello spazio pubblico e condiviso di un essere in comune. Questa fraternità è il presupposto grazie a cui la violenza e l’aggressività possono non risolversi in guerra, essere contenute e accedere alle forme linguistiche del conflitto. Trovare nuove istituzioni che favoriscano questo spazio pubblico è il compito della politica del presente, oltre il disfacimento dei partiti e delle democrazie parlamentari e contro la rivoluzione passiva del populismo.