di Nicolò Bellanca
Nelle sue stimolanti “considerazioni” sulla sinistra politica italiana, Rino Genovese sostiene tre proposizioni tra loro connesse, ma che, come proverò ad argomentare, andrebbero invece tenute distinte. A suo avviso, la sinistra nel nostro paese: 1) è fortemente frammentata; 2) manca di una caratterizzazione ideologica che possa unificarla; 3) dispone di un orizzonte sfocato, ossia di una ridotta chiarezza sulle proprie finalità. Mentre la tesi (1) è difficilmente opinabile, trattandosi di una mera constatazione fattuale, la tesi (2) appare quella che, secondo Genovese, spiega non soltanto la (1), ma anche la (3). Insomma: sarebbe l’assenza di un’impostazione ideologica adeguata ad alimentare il settarismo, e a impedire la formulazione di un programma coerente e incisivo di azione.
Ho tuttavia l’impressione che la tesi di Genovese potrebbe fruttuosamente venire rovesciata. La sinistra italiana rimane ferma al palo, immersa in diatribe interne che la segmentano in continuazione, proprio perché resta ancorata a opzioni ideologiche novecentesche che la rendono incapace di guardare a quello che accade e che potrebbe accadere. Due esempi. Il primo lo traggo da un altro articolo di Rino Genovese su questa rivista, nel quale egli notava con efficacia come l’evocazione dell’Articolo 1 della Carta costituzionale, da parte di una nuova formazione politica di sinistra, fosse un omaggio fuori tempo massimo a un’opzione ideologica. L’altro caso riguarda uno dei temi scottanti delle campagne elettorali dell’ultimo periodo: l’immigrazione.
Come osserva Luca Ricolfi, «se, nel 2001, la sinistra avesse letto il libro di Italo Fontana Non sulle mie scale, edito da Donzelli, sugli effetti dell’immigrazione in un quartiere popolare di Torino, oggi non sarebbe così terribilmente indietro sui problemi della sicurezza, e non avrebbe perso i milioni di voti che ha perso per pura volontà di non vedere. […] I ceti popolari chiedono una cosa soltanto: protezione. Protezione contro la perdita di occupazione e di reddito, protezione contro criminalità e immigrazione». Ovviamente, il tema immigrazione-inclusione-protezione può essere affrontato in molti modi; ma il punto è che la sinistra italiana, in blocco, ha puramente e semplicemente eluso il tema, per ragioni ideologiche.
Peraltro, accanto ai paraocchi ideologici, vi è un altro decisivo fattore che ha compromesso i rapporti tra sinistra politica italiana e milioni di cittadini: l’occupazione del potere. In Italia la sinistra ha avuto, dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’influenza maggiore sul sistema politico ed economico, tra tutte le sinistre occidentali. In particolare, nella Seconda repubblica la sinistra ufficiale, erede del Pci e della sinistra Dc, ha sistematicamente occupato istituzioni, enti locali, corpi intermedi, gangli della società civile. E lo ha fatto in maniere poco o per nulla distinguibili da come lo ha fatto la destra. D’altra parte, i gruppi dirigenti della sinistra radicale non hanno mostrato un diverso atteggiamento: sempre attenti alla spartizione delle cariche e degli incarichi, non hanno, a parte poche eccezioni, avuto la lucidità politica e lo spessore morale di tornare nei ranghi, quando le loro strategie si sono rivelate perdenti.
Riassumendo: l’intera sinistra politica è schiava di opzioni ideologiche anacronistiche, e viene percepita dalla gente come un ceto politico professionale con l’abitudine e l’aspirazione di occupare le poltrone, accaparrandosi perfino gli strapuntini. In questa situazione, come potrebbe formarsi un gruppo dirigente che marchi una discontinuità credibile? Se qualche sparuto lettore avesse questa curiosità, lo rimando a un recente articolo, nel quale ho provato ad articolare qualche elemento di risposta.