Goffredo Fofi qualche anno fa, rifacendosi al magistero di Aldo Capitini, iniziò a parlare di minoranze etiche, costituite dai colpiti dal mondo, ovvero dai disoccupati, dagli esclusi, dai sofferenti, dai torturati, persino dai depressi, dagli sfiniti e dagli scomparsi, i quali, alleandosi con gli intellettuali, tentassero di operare una vera e propria rivoluzione aperta, non approvando che prevalgano dappertutto la forza e la prepotenza. Si tratta di alleanze tra persone che non hanno alcun dovere di diventare maggioranza e che scelgono di essere minoranza per rispondere a un’urgenza morale, dunque di verità e di giustizia. Fofi, in una bella intervista rilasciata a Oreste Pivetta (La vocazione minoritaria, Roma-Bari, Laterza, 2009), chiariva come tale disposizione dovesse fondarsi sull’amore per il prossimo, sull’azione nella storia, sulla non accettazione del fatto che la società e la realtà (quella locale allo stesso modo di quella nazionale) restino come sono. è una strada percorsa da non pochissimi gruppi organizzati che, in questo momento, operano tra mille difficoltà anche nel Sud del paese, persino in Calabria, vero e proprio deserto sociale, frangia tossica dell’Italia, luogo in cui ogni problema tende a divenire sistema.
Questa strada ha due corsie: lungo una prima corsia, tali minoranze cercano di influenzare dall’esterno le istituzioni (i rappresentanti del potere legislativo, esecutivo, delle authorities e delle pubbliche amministrazioni) per favorire gli interessi e i beni della comunità; lungo una seconda, esse cercano di colmare il vuoto di informazione riguardo a questi interessi e beni, interagendo, proprio nel modo suggerito da Fofi, con le fasce più disagiate della popolazione e agevolando la costruzione di strutture autonome. La battaglia, condotta senza mai disertare la strada e senza abbandonare i pochi laboratori di sintesi, è senz’altro di qualità, nonostante debba fare i conti, quotidianamente, con una cultura politica che in Italia, e maggiormente nel Meridione, si è sviluppata in termini non partecipativi, esasperati, negli ultimi decenni, da un’ancor più pronunciata sudditanza nei confronti di cattiva amministrazione e leggi ingiuste.
In seno a queste minoranze, che criticano la politica, più che praticarla, e che operano costantemente per recuperare una più diffusa e cosciente socialità del bene pubblico, si annida l’inquietante figura del sensibile, la cosa peggiore che possa essere partorita al sud: è l’intellettuale agnostico, pappagallesco, il falso profeta insomma. Il sensibile non è che un’appendice strumentale del potere; si limita a intrattenere le masse, a educare senza amore, ad accontentare chi gli paga la ricerca, incapace di qualsiasi forma di elaborazione politica complessiva. L’università, e Fofi lo aveva detto dieci anni fa come anche prima, è una macchina che produce a tamburo battente questo genere di intellettuali, cani da guardia o lacchè sempre pronti ad adeguarsi. Il più delle volte il sensibile è un militante stipendiato, un impiegato della politica o, magari, un funzionario di partito. Quanto può contare un individuo del genere, così conformista, così inserito nel solco degli interessi personali e corporativi? Nel caso in cui, al contrario, si mantenga fuori dai ruoli della politica, per scelta elitaria o di ignavia, il sensibile, confortevolmente sdraiato nella sua zona grigia, diffida di tutti ma, ugualmente, non osa dispiacere a nessuno.
E invece bisogna dispiacere, rompere le scatole, mostrare una diversità reale, indicare la strada possibile dell’intervento singolo e collettivo, persino in seno all’università, legare la propria ricerca a una forma concreta di intervento sociale (non a marce inoffensive o a vacui happening culturali). Alla zona grigia del sensibile è necessario contrapporre, proprio adesso e con un vivo senso di impazienza, una zona libera, un cuneo di contraddizione, un’area fatta di pochissime persone che resistono, che sanno guardare e interrogare la realtà e che, partecipando a essa, sono in grado di fornire una prospettiva alla protesta. è proprio per questa strada − che poi altro non è che il metodo della non menzogna e della non collaborazione con i meccanismi infernali delle istituzioni − che le minoranze etiche possono assurgere a minoranze critiche: con il loro esempio e la loro trasparenza (Fofi lo dirà anche più recentemente nel suo Elogio della disobbedienza civile) possono mirare a estendere quella prospettiva. Non nella speranza, vana oggi come dieci anni fa, di diventare maggioranza; bensì, nella convinzione che, mediante la connessione, il confronto, il collegamento, si possa arrivare a intuire un orizzonte futuro che preveda nuovi rapporti tra le persone e, magari, con le istituzioni e, infine, con la natura.
Una minoranza che si rivolta contro la realtà non è che una minoranza che giudica e che, se riconosciuta e distinta dalla maggioranza costituita dai sensibili, può diventare uno strumento di ricomposizione per molte delle vertenze che caratterizzano il nostro paese, tanto al sud quanto al nord. Non è poco. In un momento in cui stiamo assistendo al sistematico tradimento di tutte le promesse d’ispirazione ambientalista di una classe politica che ha deciso di sacrificare le rivendicazioni storiche dei comitati sul tavolo della compatibilità con le alleanze di governo, questa opposizione in continuo rinnovamento è fatta soltanto dai movimenti che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte, contro la predazione delle risorse naturalistiche e paesaggistiche e a favore di una nuova mobilitazione che sensibilizzi sulla salvaguardia dei territori più marginali come sui grandi cambiamenti climatici. Con decine di assemblee tenutesi, a partire dallo scorso dicembre, in tantissime piazze italiane, questa minoranza cresce. Cresce molto lentamente, ma cresce, evitando di farsi fuorviare dai sensibili e da modelli parodistici di partito e di farsi confondere, dunque, tanto con gli uni quanto con gli altri.
Perché tale prospettiva emerga con maggiore forza è necessario che gli intellettuali non smettano di esserlo neanche per un solo attimo nella loro quotidianità, che mostrino una diversità reale; è opportuno, cioè, che cessino di tacere e, cosa ancora più urgente al sud (dove, secondo Gaetano Salvemini, sono sempre stati «sconcreti»), che rinuncino − dall’alto del loro saccente, ripetitivo e innaturale birignao − a un ridicolo antagonismo da copertina, anteponendo giorno per giorno alla loro misera sorte individuale pratiche concrete di opposizione al potere e di ripristino delle libertà giuridiche e politiche essenziali, della vita associata e dei beni comuni. Solo così, recuperando un rapporto diretto con le pratiche, con l’inchiesta e la controinchiesta, sarà possibile mettere fine a quella relazione di indistinzione tra sensibili di professione e minoranze etiche e critiche che vige tra i più e che rischia di immiserire e compromettere definitivamente le tante lotte, mai come oggi, così indifferibili.