Ermanno Readi Antonio Tricomi

Si sa quali tesi Raffaele La Capria affidi nel 1986 all’Armonia perduta, libro che egli stesso reputa «una mitografia conoscitiva» volta a cogliere «non una verità storica» ma «una verità poetica», presentandosi come «una fiction», più che «un saggio», in cui l’autore ripercorre «la storia di Napoli» anzitutto per raccontare la propria «storia interiore», il «poetico litigio» tra lui e la sua città d’origine. Che gli sembra, come altre, «una città della decadenza, una di quelle città dove per ragioni note o misteriose ad un certo momento la storia si è fermata». Circostanza a parer suo verificatasi nel 1799, l’anno («sanguinoso») della rivoluzione (fallita). Fu allora, sostiene La Capria, che «l’immagine della “città interiore”», serbata da ogni napoletano, venne «lacerata», per cui «si ruppe la spirituale armonia che la reggeva» e apparve «condannata a morte o bandita per sempre la classe e la cultura grande borghese che la legava all’Europa». Napoli diventò il feudo di una piccola borghesia «dominata dalla paura della plebe» e propensa, «per restaurare ad ogni costo l’armonia perduta o solo sognata», a «recitarla», a costruire «una forma di civiltà fondata sulla Recita Collettiva». A dar vita, cioè, a quanto lo scrittore definisce «napoletanità», ossia «una manieristica», ipocrita «riduzione piccolo borghese della civiltà precedente» in grado di determinare il profilo identitario della città sino alla metà del secolo scorso e, anzi, sino a oggi, giacché «la piccola sparuta borghesia napoletana scampata ai massacri del ’99» riuscì ad «addomesticare la grande plebe numericamente sovrastante che l’assediava», convertendo «il feroce plebeo dei giorni della rivoluzione nel bonario personaggio che vediamo nelle commedie di De Filippo». E seppe raggiungeretale obiettivo anche perché abile a servirsi, stravolgendolo, del dialetto dei bassifondi, che «rese affabile e accattivante», che «cantò» e «diffuse in mille modi seducenti fino a incantare la plebe che a poco a poco diventò quella che quel dialetto le suggeriva di essere».

La diagnosi di La Capria è dunque inequivoca: Napoli ha mancato forse per sempre l’incontro con la modernità quando ha reso marginale, probabilmente in via definitiva, il ceto al quale lo scrittore stesso appartiene, poiché solo consegnandosi a un’alta borghesia colta e liberale, laica e riformista la città avrebbe potuto onorare un simile appuntamento. Problema – anche se questo, più che dirlo, La Capria si aspetta che il lettore lo colga magari autonomamente – che, in fondo, è un po’ il problema dell’Italia intera, mai incline a lasciarsi guidare da una grande borghesia illuminata del resto pressoché irreperibile in un paese che, tuttora, può quindi trovare la cartina al tornasole della propria fisionomia socio-culturale per l’appunto in quel peculiare modello di civiltà piccolo-borghese che è la “napoletanità”.

Con L’armonia perduta finivano giocoforza col dialogare già due libri: Il resto di niente di Enzo Striano, edito nel 1986, e Mistero napoletano di Ermanno Rea, pubblicato nel 1995. E se le obiezioni mosse da La Capria – in un volume di contributi critici sugli scrittori napoletani apparso nel 1998, Napolitan graffiti – al primo di quei testi scaturivano da considerazioni di ordine letterario del tutto condivisibili, il relativo o – sarebbe forse più corretto dire – diffidente apprezzamento del secondo titolo citato,che – nella medesima opera saggistica – l’autore di Ferito a morte, il capolavoro romanzesco del 1961, non mancava di esprimere, rispondeva invece, almeno in parte, a valutazioni sostanzialmente ideologiche.

Sul romanzo storico di Striano, in cui – trasformando «in narrazione» l’indubbia «erudizione» acquisita dall’autore dopo aver vagliato una mole sterminata di documenti d’epoca – si ricostruiscono gli eventi e si dà voce agli individui che prepararono e animarono la rivoluzione del ’99, La Capria è infatti nel giusto. Si tratta cioè di un libro apprezzabile «per la sua forte motivazione civile» e perché tocca «una corda cui i napoletani sono molto sensibili», trasmettendo «una malinconia, uno sconforto storico ed esistenziale che viene loro da lontano»: appunto, da quegli avvenimenti di fine Settecento che ribadirono come, a Napoli, rischi sempre di confermarsi un’illusione ogni tentativo di «interrompere il Silenzio della Ragione». Ma si tratta anche di un’opera in cui «Storia e invenzione romanzesca» non trovano, se non di rado, «un giusto equilibrio», sicché essa troppo somiglia a una didascalica mise en abîme delle fonti studiate da Striano. Ne deriva una sorta di tableau vivant nel quale «la Storia» è ridotta a «uno scenario su cui si muovono, più che personaggi, delle figure che – come le maschere – si distinguono per un sol tratto saliente».

Mistero napoletano, nota La Capria, ripercorre invece «la tragica vicenda» di due militanti del Pci «quando questo, tra il 1946 e il 1956, attraversava una fase di stalinite acuta e con l’occhio vigile del Grande Fratello “sorvegliava” i propri iscritti fin nell’intimità delle loro case e dei loro sentimenti». Ci restituisce, pertanto, «una Napoli da guerra fredda, “sequestrata” da Lauro» e, secondo Rea, «dagli americani, che avevano qui stabilito il comando della Nato». In pratica, la Napoli in cui – per citare nuovamente L’armonia perduta – si registra quella «degenerazione» della “napoletanità” che è la «“napoletaneria”», alla quale corrispondono «l’“Uomo Qualunque” di Giannini» – vale a dire un «fenomeno risibile e passeggero, ma rivelatore di uno scetticismo inguaribile» – e «il laurismo del sindaco Lauro», ossia «la gran semina di tutti i disastri» che hanno «snaturato» la città. E se a non convincerlo, del libro-inchiesta di Rea, è in primo luogo «il teorema-Nato» che vi è esposto – e che gli sembra «una forzatura» scaturita «più da un antiamericanismo di sinistra ancor oggi vivo, che dai fatti» –, La Capria si mostra infastidito, in misura ancora maggiore, da un’altra evidenza storica che il volume rimarca. Dal fatto, cioè, che una quota non trascurabile della borghesia cittadina fu sinceramente, ma a suo giudizio incomprensibilmente, disposta a credere che, dallo sfacelo etico-civile, ci si sarebbe salvati, non soltanto a Napoli, con l’agognato avvento del comunismo. Auspicio politico del tutto insensato e, addirittura, socialmente nocivo per chi, come La Capria, aveva appunto già chiarito di ritenere avanzata solo una civiltà pronta a far propria la cultura liberale di un’alta borghesia tradizionalmente anti-comunista e ora si sentiva perciò in diritto di scorgere negli intellettuali celebrati da Mistero napoletano gli «involontari cattivi maestri» toccati in sorte alla sua generazione.

Rea, come si sa, è morto nel settembre scorso. Un mese dopo è giunto in libreria Nostalgia. Che non è il suo miglior libro – se ridondanze e ripetizioni, tanto nella caratterizzazione dei personaggi quanto nella gestione dell’intreccio, autorizzano persino a crederlo non sottoposto a un’attenta revisione ultima – e che, fin dal titolo, sembra alludere al desiderio di riprendere il dialogo con L’armonia perduta.

In un rione Sanità in mano a una «ragazzaglia» identica a quella ritratta da Roberto Saviano nell’ancor più recente La paranza dei bambini, e quindi capace di tenere la cittadinanza «in uno stato di paura perenne», sfogando compulsivamente «una violenza fine a se stessa», troviamo infatti, tra coloro che con generosità s’impegnano a contrastare miseria e criminalità, anche un sacerdote fedele allo spirito della rivoluzione del ’99, di fronte alla quale egli si toglie «tanto di cappello» e che, a parer suo, fu opera di parecchi «giovani» alla cui «maturazione culturale» aveva contribuito la Napoli, «illuminista e laica», di Antonio Genovesi, un prete che, nei propri testi, si era occupato «in modo prevalente, guarda un po’, di pubblica felicità e di virtù civili». Padre Rega – questo il nome del religioso – ne è allora più che certo: «alla fine del Settecento, pensando di difendere la “Santa Fede” e la propria sopravvivenza», i poveri di Napoli «lottarono e vinsero contro i rivoluzionari che predicavano giustizia e verità», ma essi «oggi, forse, stanno imparando che non si vive di solo pane, ma anche di libertà, dignità, uguaglianza, e che hanno il diritto di gestire in prima persona i beni comuni». Stanno insomma capendo – quasi abbiano tutti letto, dieci anni fa, Gomorra di Saviano – che il capitale «si muove per il mondo in modo frenetico e in tempo reale, senza nessun controllo da parte dei governi, con l’unico scopo di ottenere il massimo guadagno», e che a ciò si deve «la stretta assolutistica» nella quale ci troviamo e da cui possiamo ipotizzare di smarcarci esclusivamente tornando a riempire «i mercati veri, quelli che nascono nelle piazze, in mezzo alla gente», giacché solo in tali «spazi concreti e multiformi» possono «crescere le virtù civili, la vita relazionale, la civiltà dell’amore e la spiritualità». In pratica, perché solo in contesti simili ci è lecito riscoprire la «nostra grande tradizione, che s’ispira a un’economia civile, capace di favorire un mercato comunitario e non capitalistico».

Se, lo si è detto, L’armonia perduta era, per ammissione del suo autore, un esercizio mitografico, Nostalgia non lo è dunque meno. Rea auspica, ben più di quanto possa dimostrare, una collettiva presa di coscienza che – con l’intento di attualizzare su basi in parte nuove il sogno comunista reso violentemente inservibile a quella generazione di intellettuali descritta in Mistero napoletano – cerchi, a Napoli come pure altrove, di riappropriarsi dell’eredità della rivoluzione del ’99 interpretandola in maniera pressoché opposta a quella di La Capria. Non cioè come la conferma che solo in alto, quindi dalla grande borghesia, possono essere abbozzati disegni di avanzamento socio-culturale generalmente condannati a essere sabotati in basso, ossia dagli oppressi, ma come la dimostrazione che l’autentico progresso civile scaturisce da progetti, di matrice comunitaria, elaborati dagli esclusi. Progetti ai quali, sconfessando le consuete logiche corporative, i ceti abbienti aderiscano o da cui questi ultimi risultino, letteralmente, travolti. Difatti, lungi dall’essere sterile, «la fraternità – quando è profonda e sincera – possiede al contrario una forza dinamica che può condurre anche molto lontano: fino all’eversione sociale e politica».

Visti i tempi, si rivela allora uno slancio puramente utopistico, quello che sorregge Nostalgia. Benché imperfetto, libro prezioso appunto per questo. Per la tenace fedeltà al profilo di comunista eretico – ossia di intellettuale proficuamente démodé – del proprio autore. Anche quando costui sembra quasi cadere ostaggio della retorica di Papa Francesco, sicché ci offre l’encomio romanzesco di «una Chiesa totalmente a difesa dei deboli», di «una Chiesa spogliata dei suoi orpelli e delle sue ricchezze».