Minniti gode oggi di una certa considerazione: Salvini lo considera un suo precursore, Travaglio lo elogia come colui che senza tanti clamori stava risolvendo il problema dell’immigrazione; si può immaginare che sarebbe stato uno dei perni della poi fallita coalizione di governo Pd-Cinque Stelle. Il suo merito maggiore è quello di essersi accordato con i predoni e capi bastone libici per creare campi (di accoglienza!?) nel deserto, dove internare i migranti; istituendo quella frontiera esterna, che un po’ tutta la Fortezza Europa vuole costruire, Merkel e Macron non esclusi. Peccato che le condizioni di vita in questi campi siano divenute simili – senza che nessuno se ne preoccupi – a quelle di un lager nazista. Paragonai in un articolo su «Il Ponte» l’indifferenza di Minniti (e nostra) a quella di Eichmann, che – durante il suo processo a Gerusalemme – declinava ogni responsabilità per quello che accadeva nei campi, pur avendone predisposto la realizzazione. Paragone che mi ha attirato molte critiche, in parte giustificate: in effetti io non mi riferivo alla quantità delle vittime, ma alla qualità morale dell’internamento. Ricordo che nel novembre del 2017 l’Alto commissario dell’Onu per la difesa dei diritti umani, fondandosi su prove e testimonianze, dichiarava: «È letteralmente disumana la cooperazione UE-Libia, si assiste a orrori inimmaginabili. […] La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità». Non è esagerato parlare di neoschiavismo: in un video della Cnn, sempre del 2017, si documenta la vendita di due ragazzi «per i quali piovono offerte e rilanci. 800 dinari… 900, 1.100… venduti per 1.200 dinari (pari a 800 dollari)». Uno dei due giovani è presentato come «un ragazzone forte, adatto al lavoro nei campi». Ricevuto il filmato, Cnn è andata a verificare, registrando in un video shock la vendita di una dozzina di persone in pochi minuti. Stupri violenze, detenzione in condizioni intollerabili, vendita di schiavi, sono la normalità in questi centri di accoglienza.
Note sono le fucilate che hanno ucciso i migranti a Ceuta, o il comportamento disumano dei gendarmi francesi a Ventimiglia. Le dispute fra Salvini, Macron e Orban, condite da insulti apparentemente sanguinosi, somigliano a quelle scene da circo di periferia in cui i pagliacci si danno botte da orbi per finta. In realtà, ai governi “europeisti” del Nord Europa non dispiace che il neofascista Salvini coi suoi compari si occupi del lavoro sporco in Libia o in Mali, lasciando a loro le mani nette e la coscienza pulita. Questo spettacolo rivoltante suscita almeno per ora un consenso trasversale ai rispettivi governi, denunciando che non stiamo vivendo solo una crisi politica, ma una catastrofe antropologica. In Italia la situazione è più grave, perché il nazionalismo etnico sta prendendo piede nel senso comune e diffondendo il razzismo come fondamento identitario del “popolo”.
D’altra parte, l’assenza o la cecità della sinistra politica si avvicina pericolosamente a quella dimostrata negli anni venti del Novecento. Può una sinistra degna di questo nome non denunciare che il fenomeno dell’immigrazione ha assunto proporzioni così devastanti a causa delle guerre occidentali in Iraq, in Libia, in Mali? Può dimenticare lo sfruttamento delle risorse naturali nei paesi africani, che non ha nulla da invidiare ai periodi peggiori della storia coloniale? Ma a parte questi gravi aspetti economici e politici, una sinistra non dovrebbe dimenticare che il colonialismo non è solo un fenomeno economico e politico, ma anche un trauma storico che lascia tracce indelebili nella psiche dei sopravvissuti e delle generazioni successive.
A puro titolo di esempio, ricordiamo le parole del generale Bugeaud, pacificatore dell’Algeria francese nell’Ottocento, riportate da T. Todorov nel suo libro Noi e gli altri: «Non basta attraversare le montagne e battere una volta o due questi montanari: per sconfiggerli, bisogna colpire i loro interessi. Non ci si riesce passando fugacemente: bisogna gravare sul territorio di ogni tribù […] restare il tempo necessario per distruggere i villaggi, tagliare gli alberi da frutto, bruciare o arraffare i raccolti, vuotare i silos, perquisire i burroni, le rocce e le grotte, per imprigionare le donne, i bambini e i vecchi, le greggi e i mobili». Se il genocidio per fame non bastava, l’esercito francese soffocava col fumo gli insorti e le loro famiglie, come accadde nelle grotte di Ghar-el-Frechih. Da questo massacro, praticato nell’Ottocento, fino a quello di Setif operato dai francesi nel 1945, c’è una linea ininterrotta e continua di offesa e di oppressione. Così come nella stessa logica di sterminio si collocano l’uso massiccio delle armi chimiche da parte degli italiani in Etiopia o i dieci milioni di persone uccise dai belgi in Congo, direttamente o per effetto di amputazioni, fame e torture. È a questo che si riferisce l’ultima parola di Kurz in Cuore di tenebra di Conrad: «Orrore».
Ci sono molti studi esaurienti sulla Shoah come trauma storico e sulle sue conseguenze psichiche intergenerazionali, che comprendono disastri patologici, malattie incurabili, suicidi. Sul colonialismo invece si preferisce tacere: nonostante che prima H. Arendt e poi T. Todorov abbiano mostrato il nesso inscindibile che lega l’imperialismo europeo e il successivo razzismo etnico del fascismo e che gli effetti di un trauma storico presentino – si può presumere – caratteristiche simili.
Oltre alle violenze fisiche sul corpo dei colonizzati, occorre considerare quelle psichiche legate al rapporto di asservimento, che continuiamo a praticare sui migranti che giungono nella Fortezza Europa. Esso comporta la radicale reificazione dell’altro. Il colono non è solo il proprietario dei beni materiali e delle armi micidiali: diviene un modello identitario, «il colono fa la storia […]. Lui è l’inizio assoluto» (Fanon). La sola identità umana pienamente riconosciuta è quella del colono e della sua cultura: che riesce a decomporre la cultura e l’autocoscienza dell’altro. Tra il colono e il suo servo si scatena, in tutta la sua virulenza, una fosca dialettica servo-padrone, che segue i parametri descritti da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Il padrone-colono è sì oggetto ideale di imitazione e di ricerca identitaria; ma anche di un odio sottaciuto e profondo, perché essere lui – per il colonizzato – è desiderabile e impossibile allo stesso tempo. In effetti – in un rapporto di asservimento – solo distruggendo l’altro, in una spirale di violenza mimetica, posso illudermi di essere veramente me stesso: «Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore» (Fanon). Questa spirale imitativa e distruttiva non porta fuori dal ciclo della violenza, ma la intensifica nei suoi attori reciproci fino a livelli sempre più distruttivi, fino a comportare la rovina di entrambi. Questo vale in certo senso anche se il colonizzatore europeo sembra vincere la battaglia e confermare la sua forza: in realtà la spietatezza della lotta lo spinge a rinunciare alla democrazia, a regredire in forme autoritarie e infine fasciste di dominio; oppure a subire una violenza senza limiti, come quella che colpì i coloni francesi durante la guerra d’Algeria. In ogni caso, la dissimetria del rapporto coloniale distrugge la nostra forma di vita, o almeno quella che ci siamo illusi costituisse l’essenza della nostra civiltà. È questo il nesso tra imperialismo e totalitarismo, che H. Arendt ha così profondamente messo in luce. Non stiamo incamminandoci su una strada simile? Non stiamo confermando – col nostro atteggiamento verso l’immigrazione – le peggiori costanti archetipiche della nostra storia? Non stiamo rischiando la più distruttiva delle antinomie: o fascismo o barbarie?
Una violenza traumatica e profonda accompagna il capitalismo fin dalle sue origini, fin dall’accumulazione originaria, descritta da Marx nel primo libro del Capitale, ove l’autore cita questo passo: «Questi poveri innocenti e derelitti […] andavano incontro ai tormenti più atroci. Venivano prostrati a morte dal lavoro eccessivo […] venivano flagellati, messi in catene e torturati coi metodi di crudeltà più squisitamente raffinati; si davano parecchi casi in cui per mancanza di cibo si riducevano a pelle e ossa, e intanto la frusta li legava al lavoro». Non è la descrizione della vita in un campo nazista; è il trattamento a cui venivano sottoposti migliaia di bambini alla fine del Settecento, all’inizio della rivoluzione industriale1. Molto peggiori erano le condizioni degli oppressi al di là della linea d’amicizia che divideva lo spazio legale europeo dallo spazio colonizzato, dove cessava la vigenza delle leggi ed erano ammessi i genocidi, i massacri, la pirateria e la rapina senza limite. L’oro così guadagnato e le risorse così saccheggiate sono uno dei fondamenti dello sviluppo del capitalismo, assai più della “virtù” o del “risparmio” dei primi calvinistici imprenditori: «Le barbarie e le esecrabili atrocità perpetrate dalle razze che si dicono cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a sottomettere, non hanno uguale in nessun’altra età della storia del mondo, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e primitiva, violenta e impudente essa sia»2.
Il prevalere del lavoro mentale o immateriale in Europa non cancella affatto il persistere della violenza traumatica, a livello geopolitico, nella dominazione del capitale. Il progetto attuale del capitale intreccia tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione delle forze produttive cognitive e immateriali non esclude, e anzi prevede, un feroce sfruttamento “fordista” nelle aree periferiche del mondo e delle nostre stesse metropoli. Non sono ritardi che verranno colmati: lavoro immateriale e schiavismo arcaico sono entrambi funzionali alla sopravvivenza del capitale: «L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali necessarie al suo metabolismo»3. Il processo di decolonizzazione politica, dopo la Seconda guerra mondiale, non è riuscito ad alterare profondamente questo stato di cose; le risorse minerarie dei paesi africani restano saldamente in mani europee (come l’oro e l’uranio in Mali, dove la Francia conduce una delle sue guerre “liberatrici”, o il petrolio in Libia, contesa tra italiani e francesi in antagonismo, questo sì, molto concreto).
Non è solo il persistere di forme selvagge di accumulazione che dovrebbe inquietarci. Un trauma non produce solo il male del suo presente, ma distorce l’anima delle generazioni successive. Ciò vale per le atrocità del passato, ma anche per la violenza e l’umiliazione con cui i governi europei affliggono le vittime di oggi. Il disastro psichico intergenerazionale verrà trasmesso in eredità, come è accaduto con i figli e i nipoti dei sopravvissuti della Shoah. Il dominio si iscrive traumaticamente nei corpi di generazioni, inciso da una macchina simile a quella descritta da Kafka nella Colonia penale, e la sua ferocia grava come un debito insolubile su noi europei, che crediamo di avere un credito illimitato con la morte.
1 K. Marx, Il capitale, Roma, Newton Compton, 2006, p. 545.
2 W. Howitt, citato da Marx, Il capitale cit., p. 540.
3 D. Bensaid, Le Pari mélancolique, Paris, Fayard, 1997, p. 44.