di Floriano Romboli
L’opera narrativa di Romano Luperini ha come caratteristiche spiccate la compattezza e l’organicità, nel senso che i vari lavori (I salici sono piante acquatiche (2002); L’età estrema (2008); L’uso della vita. 1968 (2013) si sostengono e si richiamano in un processo di integrazione perfezionante altresì testimoniato dalla tecnica del riuso di intere porzioni di narrato che transitano, sovente con scarse variazioni , da un testo a un altro.
Altrove (v. «Italianistica», XLIII, 3, 2014) ho messo in risalto il fatto che l’unitarietà sostanziale del discorso letterario non si afferma mai a detrimento della dimensione peculiare che è propria di ogni libro e ne garantisce l’autonomia; e ciò vale tanto di più per La rancura (gennaio 2016), che rispetto alle altre prove – contraddistinte da una scrittura multigenere (nel merito vale di nuovo il rinvio al saggio menzionato poco sopra) –, si segnala apertamente per la più regolare e rigorosa narrazione romanzesca, seppur suddivisa in tre momenti distinti: il primo, Memoriale sul padre (1935-1945), dal tratto memorialistico-storico; il secondo, Il figlio (1945-1982), più precisamente autobiografico; il terzo, Il figlio del figlio (2005), non redatto come gli altri in prima persona, bensì in terza e quindi in forma più distaccata e impersonale.
Comuni a tutte le parti sono in ogni modo l’«onestà», lo «sforzo di verità» (p. 13) preannunziati nel patto narrativo d’apertura che introduce – per ancorarci a una definizione d’assieme, di natura criticamente orientativa – a un «romanzo storico», a un «romanzo-saga» concepito intorno alle vicende di tre generazioni e incardinato sul conflitto (montalianamente «rancura») fra padri e figli:
Sempre la stessa sfida, fra me e lui e anche fra lui e il suo, di padre, e così via. Come se ci fossero dei cicli naturali che si ripetono eguali attraverso i secoli di generazione in generazione, dall’Edipo dei greci alla «rancura» di Montale contro il mare-padre (p. 296).
Nonostante questo, risulta tanto maggiore l’affinità fra le prime due sezioni, narrativamente piuttosto omogenee, innanzitutto perché in esse il “romanzo storico” conosce l’articolazione specificante del Bildungsroman o “romanzo di formazione”, il quale – non “genere”, ma “modello narrativo” interno al genere stesso – scandisce il ritmo del racconto, animandosi della tensione esplorativa e auto-espansiva del protagonista, di cui segue la crescita intellettuale e morale attraverso la sua interazione con situazioni, personaggi, eventi del proprio tempo.
Nel padre Luigi, maestro elementare di convinzioni socialiste democratiche, come nel figlio Valerio, docente universitario e dirigente della sinistra marxista rivoluzionaria, si ravvisano inizialmente ignoranza, inettitudine, incertezza progettuale, ma a un tempo voglia di cimentarsi con la vita, desiderio di scoprirne e sfruttarne le potenzialità, di individuare un senso, di imprimere nella medesima un segno, superando la situazione negativa di partenza. Se per l’uno «tutto, allora, doveva sembrare come sospeso, incerto fra la malinconia e la speranza» (p. 14), pure per l’altro «tutto era come sospeso, incerto tra una felicità possibile e una pacata tristezza» (p. 155).
Il percorso della Bildung ha fatto loro in seguito scoprire il sesso (e quindi l’universo femminile), le dure leggi dell’esistenza, i tanti volti dell’ingiustizia sociale e dell’ineguaglianza, magari insieme alla necessità dell’impegno solidale e collaborativo. In particolare l’esperienza della vita e il complesso di propositi, attese, speranze a essa connessi li hanno posti di fronte alle grandi idealità politiche e all’appeal suggestivo,anzi esaltante, delle ideologie: e le discussioni appassionate riguardo a nazifascismo, comunismo, socialdemocrazia costituiscono un aspetto essenziale della loro biografia e una ragione primaria del loro antagonismo insanabile:
Nel 1968 c’era stata l’ultima grande lite […]. Volete fare la rivoluzione e siete solo dei ragazzi illusi, gridava. Le sapete usare voi le armi? Avete mai visto dei morti per terra? Sapete cos’è una guerra civile?, gridava fissandomi negli occhi (p. 180).
Il discorso romanzesco si focalizza infine sull’intrinseca ambivalenza dell’ideologia politica. Questa – nel presentarsi quale miscela seducente di astrazioni dottrinali, di generalità interpretative, e di aspirazioni pragmatiche, di interventi concreti e organizzati, nell’esprimere una zona intermedia fra considerazioni teoriche e fervore realizzatore – appare alla distanza una costruzione evanescente e ingannevole, come d’altronde risulta chiaro dalla condizione finale di isolamento e di solitudine sentimentale e politica di Luigi, comandante partigiano che pone fine ai suoi giorni con il suicidio, e dallo scacco etico-intellettuale di Valerio.
Nondimeno tale atteggiamento psicologico-culturale è destinato a rinascere sempre in forme nuove, giacché le ideologie sono state, nel silenzio indifferente della natura, nel trascorrere meccanico e insensato della vita nell’universo, un tentativo poderoso (il che non significa tout court positivo) di dare un “significato” alla dinamica degli accadimenti umani, condannati altrimenti a scadere e a degradarsi a serie di episodi casuali e irrilevanti nella loro scialba ripetitività.
Certo è che nella stagione post-ideologica e delle repliche storiche ai progetti utopistici non sono proponibili ambiziosi disegni palingenetici, non è più plausibile «un modo di inventarsi la vita, di modellarla per sé e per tutti» (p. 214) in base a quell’abito mentale che nell’opera del suo esordio narrativo citata all’inizio, I salici sono piante acquatiche, Luperini ha chiamato il «principio maschile»: attualmente possono soltanto darsi, ancora montalianamente, delle “occasioni”, delle convergenze circoscritte fra esigenze personali e bisogni collettivi, «fra privato e pubblico» (p. 204), può prospettarsi la possibilità di una scelta reale, ma ristretta e momentanea, lungo il filo della corrente politico- culturale che sta a ciascuno di noi trovare, partendo da se stesso.
Allora si manifesterà nuovamente «un grumo di senso», però «saltuario precario relativo», che tenderà ad «affermarsi nei momenti di interruzione, nelle crepe della durata, in un gesto o in una sfida, in un’emozione improvvisa o in una scommessa» (p. 230), quindi in un quadro di interpretazione e di iniziativa invero ridotto e rimpiccolito, seccamente ridimensionato, ove insidioso si sussegue quell’avverbio “forse”, dalla significativa valenza problematica e limitante:
Forse sta lì la corrente della vita, a tratti si può riconoscere e farne parte; e io non l’avevo ancora saputa cercare (ivi);
Forse davvero, come aveva detto il vecchio Foa, se uno trova il filo della corrente tutto può diventare più facile (p. 236, corsivi miei).
Alla fine del libro anche Marcello – il figlio del figlio – si ritrova solo e impotente, e tuttavia l’identità degli esiti non cancella la netta alterità ideale e morale rappresentata da lui e dalla sua generazione a petto di quella del nonno e del babbo, rilevata, si è già osservato, dal cambiamento della tipologia narrativa (il racconto in terza persona), ma soprattutto dal forte affievolimento, dalla marcata attenuazione della tensione personale in senso conoscitivo e appropriativo del mondo esterno propria della Bildung.
La realtà storico-sociale contemporanea sfugge infatti a un senso definito e di valore universale, si dimostra refrattaria a ogni ipotesi di cambiamento ideologico-politico ormai davvero estraneo alla sensibilità morale e alla mentalità di coloro che sono nati dopo gli anni ottanta del secolo scorso, per i quali la «rancura» assume gli aspetti del rifiuto aspro e sprezzantemente liquidatorio:
Ma questi vengono proprio da un altro pianeta […] Comunisti, anarchici, cavatori del marmo […] L’ultimo marxiano era proprio lui, il padre. Apparteneva a un altro pianeta, a un’altra era geologica (p. 249).
Differente è in proposito la posizione della sorellastra di lui, Serena, che invece dimostra senso delle radici, accetta il confronto con i padri, vorrebbe far accadere qualcosa di nuovo; sarà dalla «responsabilità verso se stessi» e dalla lucida e concreta tenacia delle donne che forse in futuro si troverà più spesso «il filo della corrente».