di Luca Baiada

C’è ancora chi apprezza Rodolfo Graziani, e si sa che certe questioni, considerate un po’ riduttivamente di memoria, non riguardano il passato ma fanno il presente e pesano sul futuro. La vicenda di Affile lo conferma: una sentenza di Cassazione, depositata lo scorso marzo, cioè nove anni dopo la dedica del monumento a Graziani, si destreggia fra commemorazione, polarizzazione, esaltazione e altri distinguo più fini di un capello, per concludere annullando il processo e chiedendo di rifarlo.

Dal governo fascista Graziani è inviato a controllare l’Etiopia occupata e a reprimere la lotta anticoloniale. L’aggressione a un paese indipendente, già allora ammesso a partecipare alla comunità internazionale, non aveva visto contro il regime di Mussolini altro che reazioni modeste, inadatte a ostacolare davvero l’operazione imperialistica. Graziani fa il suo, le qualità militari scarseggiano e viene richiamato in Italia.

In Etiopia, però, fa in tempo a farsi odiare come capo spietato, e un tentativo di dargli quello che merita va a vuoto. Il vittimismo a questi eroi di cartapesta non manca mai, mentre in punto di autoironia sono scarsini; così si fa fotografare con la gamba offesa, mostrandola sollevata col gesto della marcia in parata e lo sguardo sdegnoso di una ballerina. Anche l’oca zoppa tiene il passo.

Si approfitta dell’accaduto per scatenare il tremendo massacro di Debra Libanos, in cui cade un numero di etiopi mai esattamente calcolato; se si tiene conto delle violenze commesse dagli italiani per giorni, sin da subito dopo l’attacco a Graziani e anche in altre località, i morti sono migliaia. Cadono persino i monaci del santuario; eppure l’Etiopia è cristiana, non si tratta di nulla di accostabile all’odio contro i musulmani o gli ebrei, e nessun argomento vero, falso o strumentale può avere credito.

All’epoca, sulla «Civiltà cattolica» il problema della guerra contro l’Etiopia viene posto, con articoli come Necessità di vita e diritto di espansione o Diritto di espropriazione e diritto di espansione. Forse è male, invadere quel paese cristiano, per quanto non ubbidiente alla Chiesa di Roma. Ma il Concordato del 1929 è un successo poco lontano, un boccone di cui si sente ancora un buon sapore sul palato, e la risposta del gesuitismo è gesuitica. Sarà un male, un peccato? Chissà, la questione è delicata. Così, nel dubbio, se Cesare ordina di fare l’impresa coloniale e Pietro non lo vieta, agli italiani non resta che ubbidire mettendo gli scrupoli in sospeso. Certe volte non rispondere a una domanda è già una comoda risposta. È probabile che Graziani, passato alla vita militare con un occhio agli studi in seminario, abbia respirato anche questa massima di sicuro giovamento.

Dell’impresa in Etiopia, appunto, fa parte la vergogna di Debra Libanos: la più grave strage coloniale di cristiani, in Africa, l’hanno fatta i cristiani di Roma. Va messa nel conto di quel colonialismo brutale – se mai ce ne fu uno che portò del buono da qualche parte, non fu quello italiano in Etiopia – che l’Italia farà fatica anche solo a raccontare. L’uso del gas e il ricorso alla repressione indiscriminata non saranno ammessi che molto tempo dopo, grazie a pubblicazioni di ricercatori seri, soprattutto di Angelo Del Boca. Persino un provvedimento doveroso come la restituzione della stele di Axum sarà controverso e sarà eseguito solo all’inizio del ventunesimo secolo.

La storia di quel monumento è un assaggio della prepotenza inutile, dell’imperialismo taccagno e della ruberia da pitocchi. Gli obelischi egiziani che ornavano l’antica Roma, non tutti prede di conquista, erano stati valorizzati entrando a far parte di nuovi manufatti già in età antica o nella Roma papale. La stele di Axum, con l’aria di chi chiede scusa per il disturbo, fronteggiava un palazzone progettato come sede del ministero delle Colonie; da lì guardava i semafori all’ingresso della Passeggiata archeologica, luogo di fatica appartata per signorine di piccola virtù. Ecco, il rapporto che c’è fra l’Obelisco Laterano, il più antico a Roma, inserito in una sistemazione imponente, e il trattamento fatto alla stele di Axum, è come quello fra un condottiero romano e i troppi Graziani che il fascismo produsse e di cui l’Italia repubblicana fece finta di sbarazzarsi, trattenendoli a mezzoservizio. La stele di Axum è stata restituita, ma nella toponomastica, anche nella capitale italiana, i nomi dei luoghi del breve dominio in Etiopia restano, senza un filo di vergogna.

Ci furono anche gli usi disinvolti dell’araldica e dei gradi: come altri fascisti e come i profittatori industriali e finanziari del regime, Graziani riceve una carica dal nome sonoro, di cui la sua presunzione non aveva bisogno. In genere l’aristocrazia prefascista, grave di stemmi antichi e motti latini, non prese le distanze dal fatto che il regime fosse piuttosto prodigo di onori, compresi titoli che avevano come predicato località africane. Magari, luoghi espugnati in scontri che di eroico non avevano che la retorica dei giornali, visto che l’armamento italiano era di suo tecnologicamente superiore a quello degli avversari, e che quando questo non bastava si faceva ricorso ad armi non consentite. Graziani, fedele alla sua modestia, diventa viceré. A volte bisogna accontentarsi: i posti di re e imperatore erano già occupati.

Quanto ai titoli nobiliari, ci vorrà la XIV disposizione finale della Costituzione per stabilire che non sono riconosciuti, e che valgono come parte del nome solo i predicati di quelli acquisiti in tempi non sospetti, prima della marcia su Roma. Il colpo di mano populista armato del 1922, allo stesso tempo futurista e antimoderno, scelto come spartiacque per la fine ufficiale dell’Italia delle corti. Regola dura ma saggia, visto il recente passato: l’offesa permessa da chi avrebbe potuto preservare almeno le storie secolari di nomi significativi, senza mischiarle a quelle improvvisate di banditi, rese necessario azzerarne il valore giuridico, e fu un bene. Del resto, la presenza della famiglia reale italiana era stata assidua, sia nella legittimazione del fascismo che nel controllo delle colonie, e fu proprio in occasione di una ricorrenza, la nascita di Vittorio Emanuele, figlio di Umberto, che gli etiopi organizzarono i festeggiamenti a modo loro, riuscendo solo a ferire il loro diretto oppressore.

Il nome di Graziani è legato indissolubilmente alla sua condotta militare, soprattutto nella Seconda guerra mondiale, e all’adesione attiva alla repubblichina, dopo un periodo di ritiro a vita privata. La memorialistica su di lui, come di solito su personaggi carichi di sangue e quindi di curiosità morbosa, tende a cercare dettagli, a ricostruire battaglie e a ridisporre schieramenti, immaginando esiti diversi, a seconda della situazione temuti, desiderati, rimpianti. La memoria italiana, poi, spesso ha la prerogativa di un’ambigua autocommiserazione e di una patina di falsificazione emozionale; quegli ingredienti, per intenderci, che permettono di ricordare l’aggressione all’Urss come una «ritirata di Russia», con un misto di autoassoluzione e di innocua mestizia.

Così, divenuto padre ignobile del Movimento sociale italiano – il disastro bellico suggeriva di tenerlo lontano da incarichi operativi – Graziani assunse da allora il sapore di un’anticaglia rispettabile, di uno sconfitto di successo, ma anche di un catalizzatore di consenso. Una sorta di nume corrucciato della rivincita, un eroe sottinteso. Qualcosa è rimasto, di quell’incantesimo simbolico, e solo per questo vale la pena parlare di lui, perché altrimenti, a proposito di criminali fascisti o fascistoidi, fra Pirzio Biroli e Badoglio e Roatta e tanti altri, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta senza bisogno di Graziani. Semmai, i paragoni fra loro insegnano che il delinquente di Stato, dopo la disfatta della banda che lo protegge, può riciclarsi indifferentemente in un campo o nell’altro. Non perché i campi siano uguali, ma perché vi allignano simili erbe cattive, o semplicemente mediocri, che si fatica a far morire.

Rinobilitare Graziani sarebbe come restituirgli la carica di viceré, cioè sarebbe sognare un re imperatore, colli fatali di Roma e altri rottami che sbucano dalle tasche di forze in cerca di rivincita. Eppure, i Graziani buoni a sconfiggere gli africani col gas e poi a farsi sconfiggere dagli Alleati sono numerosi, e si riconoscono da un tratto comune: pagano col sangue degli altri. Dopo l’esito delle sue campagne d’Africa invincibili, Graziani non fu punito che col comando delle forze armate repubblichine, cioè servili nei confronti della Germania, spesso impiegate nei rastrellamenti e nel controllo del territorio, contro partigiani e contro civili italiani inermi. Quando si dice comando, s’intende più che altro quello burocratico e operativo, perché le forze armate della repubblichina non ebbero mai nessuna autonomia strategica, dovendo ubbidire sulle grandi linee alle decisioni di Berlino.

Il fatto poi che le varie formazioni fasciste fossero cariche di rivalità reciproche è semplicemente la prosecuzione, durante la guerra, della corsa all’accaparramento e della vocazione agli sgambetti già floride in tempo di pace, sin dagli anni venti. Però, nella memoria aneddotica e viscerale, come nelle pignolerie di pubblicazioni d’occasione, quelle scaramucce interne fra gerarchi e manutengoli sono da sempre il nutrimento di congetture, di rivalutazioni e di distinguo, sul tipo del «fascista buono», del «gerarca tradito», della «brava persona», insomma di quei personaggi atroci tratteggiati in formato locale da Giorgio Bassani mettendo a nudo le nuove ipocrisie italiane postbelliche, tanto simili alle precedenti.

Proprio nel frangente della repubblichina retrattile, il nome di Graziani si caricò di terrore e di odio, essendo il firmatario dei famigerati bandi di reclutamento dei giovani; non ubbidire, non presentarsi e non riuscire a mettersi al riparo poteva significare la morte, e «bando Graziani» era un riassunto inequivocabile: guerra, servaggio, lutti, devastazione dell’Italia e delle coscienze. Dietro c’era il mito dell’ubbidienza a ogni costo, della via dell’onore e della solidarietà all’«alleato germanico»; quel mito riassunto nella canzonaccia Camerata Richard cantata da Beniamino Gigli, tenore di grido per le truppe di occupazione (mentre il tenore del popolo Nicola Ugo Stame cadeva assassinato alle Ardeatine): «Oggi tutta la terra si schianta, ma noi due siamo un’anima sola. […] Camerati d’una guerra, camerati d’una sorte, chi divide pane e morte più nessun lo scioglierà».

Fascisti e nazisti manterranno la parola, non si scioglieranno, e l’Armadio della vergogna, l’archivio con le prove delle stragi, resterà nei locali della magistratura militare italiana sino alla caduta del blocco socialista, alla riunificazione della Germania e all’arrivo del Msi al governo, dopo aver protetto, nascosto, blandito o forse ricattato i nazisti, occulti o quasi, e i collaborazionisti fascisti, visibili o quasi. Chi non manterrà la parola sarà il fronte antifascista, condizionato da troppi opportunismi, anche quelli che non permetteranno di dire la verità, di fare giustizia, di riprendere quell’archivio scottante, che pure doveva le sue lontane origini a una decisione burocratica presa, disegnando altri scopi, dal governo antifascista nel 1945, dopo la Liberazione. La repubblichina a scomparsa, in fondo, proiettava ancora la sua ombra, e l’aveva intuito già sul finire della guerra la canzone Festa d’aprile di Franco Antonicelli e Sergio Liberovici: «Nera camicia nera, che noi t’abbiam lavata, non sei di marca buona, ti sei ritirata. Si sa, le mode cambiano quasi ogni mese, ora per i fascisti s’addice il borghese».

E Graziani? Come tutti i manici buoni per molti usi, solo cambiando la lama o la lima, Graziani dopo la guerra non sarà punito, e abbiamo visto che non lo era stato neanche durante, per come l’aveva condotta. Messosi prontamente al riparo con gli Alleati, evitando di cadere nelle mani dei partigiani, gode di mano libera per riorganizzare le fila del neofascismo. Così non paga né per quello che ha fatto agli etiopi né per quello che ha fatto agli italiani, a riprova che la violenza coloniale può essere tranquillamente importata, quando occorre: prima comincia lontano e poi ti entra in casa. Praticata sui deboli o sugli ex forti, più spesso su entrambi a seconda dei rivolgimenti delle circostanze, tende a restare impunita.

Gli etiopi avevano fatto il possibile per sbarazzarsi di Graziani, e ci provò anche la Resistenza romana. Quando il generale fece un comizio coi tedeschi al teatro Adriano, nella Roma occupata, una bomba fu messa sotto il palco, ahimé difettosa. A portarla sul posto fu una divisa da pompiere con dentro il partigiano Rosario Bentivegna, che come nulla fosse entrò con l’imbarazzante involucro. Il custode – probabilmente uno di quei portieri della Roma sonnacchiosa, roca e ministeriale, eterni come maschere di una commedia plautina – chiese cosa si stesse portando in teatro, prima che il famoso Graziani levasse alto un discorso per la storia. Bentivegna: «Quello che manca».