di Antonio Tricomi
Quella scattata da Guido Mazzoni con I destini generali (Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 115, € 14,00) è una fotografia della nostra epoca, e in special modo della società occidentale, autenticamente spietata perché intellettualmente onesta. Il merito principale del saggista lo potremmo infatti riassumere così: ricavare tale impietosa diagnosi in primo luogo dalla propria esperienza di scacco non già conoscitivo, ma etico-politico o, in altri termini, dalla consapevolezza di non essere legittimato a considerarsi in una qualche misura estraneo alla bancarotta della civiltà che caratterizza il presente solo perché almeno in parte formatosi sui principi – da tempo decaduti – della tradizione umanistica. Mazzoni muove cioè da un’addolorata ammissione di fisiologica correità emotiva – e, per paradosso non proprio estremo, anche culturale – con le mitologie perlopiù regressive che dominano l’età contemporanea. A parer suo, quel letterato, quel filosofo, quello storico che, in nome dell’ormai solo presunta eterodossia della propria educazione, immagini di potersi porre al di sopra o semplicemente al di fuori dell’oggi, e di riuscire a decifrarlo e magari a contrastarne le peggiori retoriche impiegando saperi o richiamandosi a valori che si ostina a credere strutturalmente irriducibili a quelli egemoni, finisce infatti col prodursi in uno sterile, tutt’al più moralistico esercizio di falsa coscienza, che gli vieta di misurarsi con un reale il cui ordito non si lascia più né cogliere criticamente, né lacerare in chiave utopistica da interpretazioni di tal genere.
Cresciuto in un tempo che ha infine sancito il trionfo di quel libertario ma standardizzato edonismo piccolo-borghese capace di imporsi a ciascun cittadino quale parametro obbligatorio per la costruzione di un sé all’apparenza tridimensionale e autonomo, e invece pienamente conforme allo stesso principio di radicale de-soggettivazione entropica su cui sembrano fondarsi atomistiche società occidentali pronte a delegittimare qualsiasi orizzonte comunitario per eleggere a fondamento esclusivo della civiltà la tutela puramente immaginaria delle privatistiche ossessioni proprietarie o consumistiche di siffatte monadi tra loro tutte eguali, all’intellettuale di pur slabbrata formazione umanistica non resta allora che confessare il suo immedicabile «disagio». Da un lato, lascia infatti intendere Mazzoni, costui può sentirsi realmente fedele all’identità culturale riconosciutagli in origine dalla modernità, e ambire ad assolvere la funzione etico-pubblica da questa assegnatagli, solo proponendosi come libera individualità miticamente rifinita a una società i cui membri aspirino a diventare individui altrettanto compiuti, e consapevoli soggetti politici, anche grazie alle valutazioni che egli in autonomia ricava dal più ampio, impersonale e spesso irriducibilmente utopistico progetto civile entro il quale la sua riflessione, pur non conformisticamente, si iscrive. Dall’altro lato, nessun intellettuale può oggi fingere di non sapere che una simile collocazione nello spazio pubblico, e – ancora prima – un tal modo di pensare se stesso, gli sono preclusi forse irrimediabilmente. Per tre ragioni almeno.
Anzitutto perché, in quanto figlio del proprio tempo – dunque di un’epoca nella quale il processo di indeterminazione soggettiva scolpisce inevitabilmente anche la sua strutturazione psichica profonda, vietandogli così di supporre che la posticcia educazione umanistica introiettata valga a renderlo qualcosa di fisiologicamente diverso da un disforico e nichilistico feticista piccolo-borghese tutt’al più meramente dedito alla solipsistica, frustrante fagocitazione bulimica di costruzioni culturali ridotte a un ammasso di beni di consumo –, l’intellettuale non può più concepirsi quale individuo pur solo fantasmaticamente libero e intero, né spingere quindi chicchessia ad assimilare i saperi di cui egli è testimone affinché ogni interlocutore ricavi una chance di autonoma definizione del sé. Poi perché ciò che gli occidentali non sembrano più volere è, per l’appunto, diventare se stessi, cioè assumersi la responsabilità di affrancarsi dalla propria condizione di infantilizzati o brutali, e sovente di isterici o addirittura angosciati, “perversi polimorfi” privi di identità, ovviamente fittizie, che non siano quelle di semplici maschere, tutte tra loro permutabili, nel materno grembo dell’autistico e spettacolarizzato consumismo di massa: come minimo sciocco illudersi dunque che costoro possano percepire la necessità anche solo di vagliare le parole di “grilli parlanti” che ambiscano, pur magari ipocritamente, a spronarli all’autocoscienza. Infine perché a nessun intellettuale sembra oggi darsi l’opportunità di orientare il suo lavoro teorico alla legittimazione culturale di un qualche «progetto politico» da contrapporre al dominio capitalistico, di una qualche «alternativa vera e desiderabile alla Western way of life», le «critiche radicali» alla società occidentale continuando «a poggiare, consciamente ma più spesso inconsapevolmente, sul comunismo come idea regolativa, come angolo cieco che rende possibile la visione disforica del mondo contemporaneo». In altri termini, «sul comunismo ritornato alla condizione di spettro» e ridotto a un «Altro innominabile posto fuori dal discorso»; su un comunismo rivelatosi «irrealizzabile» e del quale perciò «sopravvive la versione edulcorata, socialdemocratica, non-utopica, compatibile col sistema».
Quella sorta di paralizzante deficit identitario, che egli confessa di percepire a contatto col presente, a giudizio di Mazzoni può allora candidarsi a riflettere e a motivare il senso di smarrimento che ciascun intellettuale di formazione umanistica dovrebbe oggi persino coltivare in sé non già quale matrice di un irrealistico tentativo di smarcarsi dalla logica socioculturale dominante, bensì al fine di affidare ad esso le proprie residue capacità di decifrare il mondo per pura e dichiaratamente sterile passione speculativa, e quindi senza mai esimersi da una preliminare ammissione di impotenza, e addirittura di inadeguatezza, etico-civile. Perché, a essere precisi, il destino dell’intellettuale contemporaneo al saggista sembra quello di doversi riconoscere giocoforza ostaggio di una menzogna e un ammanco fisionomici che lo relegano in una sempre improduttiva terra di nessuno. Al netto di qualsivoglia autorappresentazione da integrato o, al contrario, da apocalittico, egli non riesce cioè a immedesimarsi totalmente o con l’immaginario prodotto dall’odierna società dello spettacolo o coi valori culturali elaborati dalla tradizione umanistica, senza che gli sia dato tra l’altro capire cosa farsene di siffatta sua eccedenza tanto di qua quanto di là al fondo vacua, un po’ perché fittizia, un po’ perché per lui stesso insostenibile sotto l’aspetto psicologico e dunque tale da renderlo semplicemente spaesato, mai in grado di sentirsi da una qualche parte a casa.
Tuttavia, il sospetto è che la nuova condizione intellettuale somigli molto, e però non risulti identica, a quella dipinta, o meglio ancora incarnata, da Mazzoni, almeno se proviamo a sondarla riferendoci ai diversi lavoratori della conoscenza che appartengono alle generazioni successive rispetto alla leva di cui è esponente il critico. Il quale, nato nel 1967, ha fatto per sua stessa ammissione in tempo a costruirsi «una memoria infantile e adolescenziale di strutture etiche, politiche e psicologiche che oggi vacillano o che non esistono più». È ancora in grado di frequentare «il ricordo della grande politica e dei conflitti di classe novecenteschi, fondati sullo scontro fra due modelli di società e di persona che si contendevano il dominio sul mondo». Può conservare «memoria» o tuttora beneficiare «delle tutele socialdemocratiche o cristiano-sociali che il movimento operaio e sindacale aveva conquistato attraverso una lotta lunga e sanguinosa». Non ha cancellato in sé «il ricordo di un modo di vivere, popolare o borghese, fondato sul sacrificio, sulla disciplina e sul dovere». Non ha dimenticato di essere cresciuto «in un’epoca nella quale la società dello spettacolo si trovava a uno stadio» che, «retrospettivamente», sembra quasi «elementare, innocuo e buono». Ha conosciuto un’età in cui si dimostrava ancora possibile la «critica della cultura» perché era giudicata esistente la «gerarchia» che il «gesto» di tale esercizio ermeneutico presupponeva: quella «fra l’élite dei colti che sanno e le schiere degli incolti che si lasciano abbacinare» e che, almeno in teoria, spetterebbe all’intellettuale educare al sapere, spingere all’autocoscienza emancipatrice.
In altre parole, Mazzoni è ancora figlio di due mondi: appartiene – come recita il passo del Gattopardo che non a caso egli ha posto in epigrafe ai Destini generali – «a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due». Ciò significa che, sia pur non riuscendo a riconoscersi integralmente nel modello antropologico suggeritogli dal passato o nell’idea di società oggi egemone, egli ha tuttavia potuto esperire quantomeno la dissolvenza di anche solo meramente illusorie possibilità altre rispetto a un presente che, divenuta adulta, già la mia generazione – sono nato a metà degli anni Settanta – ha iniziato a percepire assoluto, invalicabile, eterno e che ai figli dei lustri successivi tende ad apparire fin dal principio una dimensione che, oltre a non rendere pensabile alternativa alcuna ad essa, neppure dovrebbe risultarci a tal punto sgradevole da spingerci a ripudiarla.
Di riflesso, benché Mazzoni non sbagli ad accusare di congenita e persino compiaciuta sterilità tutte quelle critiche al sistema invano ancorate ad oramai trascorse “grandi narrazioni” o da cui scaturiscono astratte prese di posizione «moralistiche e lontane dalla “vita”», occorrerà scorgere anche nell’imbarazzo che egli ammette di provare a contatto col nostro tempo un parimenti inevitabile residuo moralistico, meglio gestito perché sinceramente disincantato e non predicatorio, e quindi al limite vittimisticamente narcisistico ma in nessun caso incline a giudicare aprioristicamente il presente con l’intento di svalutarlo e sino al punto di finire col misconoscerlo. La parola italiana “morale” deriva infatti dal latino “mos”, cioè a dire “costume”, e mostra di cadere nel “moralismo” chi aderisca, più o meno sinceramente, all’insieme delle “norme”, o meglio delle “convenzioni”, che regolano la vita degli uomini, delle società. Ebbene, la sostanza dello scarto moralistico rintracciabile in Mazzoni si palesa in questo duplice divieto: non è “decente” sprofondare nella triviale ossessione edonistica che caratterizza la mia epoca giacché io sono anche figlio di altri “costumi”, sono anche un intellettuale di formazione umanistica; neppure però è “conveniente” ritrarmi per intero nell’identità culturale che la mia educazione umanistica mi sprona ad assumere in via esclusiva giacché io sono anche figlio delle “norme” dettatemi dal presente, sono anche un rifinito o potenziale consumatore piccolo-borghese. Ed è in fondo questo stesso atto, costantemente reiterato, di duplice denegazione, appunto suggeritogli da un buon senso che lo esorta a una specie di inaggirabile gentlemen’s agreement con gli interlocutori, a spingere l’intellettuale contemporaneo descrittoci da Mazzoni – un intellettuale inibito a rivendicare per sé la puramente mitica eccezionalità anche etica sulla quale i suoi antenati fondavano la loro pretesa di legittimazione pubblica – a riconoscersi individuo del tutto ordinario, cioè affetto, al pari dei concittadini, da una sorta di «blanda schizofrenia», come loro ostaggio di una «vita» e una «psiche» assai «incoerenti», di un «io» inguaribilmente «allentato».
Rinunciataria o meno che essa appaia, l’autodefinizione intellettuale propostaci dal saggista è forse la sola che egli potesse realisticamente elaborare, considerate le premesse del suo ragionamento. Le stesse premesse che gli hanno consentito di offrirci, con I destini generali, qualcosa che molto somiglia alle sue dichiaratamente inermi Considerazioni di un impolitico. Ed è, questa del critico, una scelta di campo che ad ogni modo implica, se non un desiderio di confliggere col presente, almeno la volontà di segnalare la flebile traccia di una pur egotistica e improduttiva dissonanza col nostro tempo, la minimale e sofferta disponibilità ad alienarsi, anche senza immediato costrutto, da esso. Intenzioni che si fatica a scorgere nei tanti coetanei e negli ancor più numerosi padri di Mazzoni che, per vincere la sua stessa sensazione di scacco ermeneutico e di paralisi civile al cospetto dell’epoca nuova, negli ultimi quattro o cinque decenni si sono euforicamente convertiti ad essa o hanno preso posizioni che, analogamente a quelle «deleuziane» o ricalcando proprio queste ultime, si sono rivelate «del tutto irrealistiche» allorché hanno preteso «di cogliere, negli effetti della mutazione antropologica, una chance politica rivoluzionaria». Ma – soprattutto – intenzioni che, magari in linea di principio non estranee, pur dopo aver assunto una forma pressoché larvale, agli esponenti della generazione immediatamente successiva a quella cui appartiene l’autore dei Destini generali, è oltremisura arduo, si diceva, supporre rinvenibili, o perlomeno ispirate a basi teoriche affini, negli attuali trentenni e, a maggior ragione, in operatori culturali ancor più giovani. I quali, congenitamente orfani di qualsivoglia memoria privata (e ormai persino collettiva) tesa a celebrare contro-modelli alla cui luce articolare plausibili discorsi etico-civili inclini a produrre coerenti abiure critiche del presente, tutt’al più vivono in maniera disforica quest’ultimo, senza però rivelarsi comunque accomunati – almeno a un primo sguardo – dall’impetuoso desiderio di mutarlo o da una sia pur sterile volontà di estraniarsene.
Se, come nota Mazzoni citando una rilettura di Hegel tentata a suo tempo da Kojève, la nostra epoca appare contraddistinta da «una forma di nuova animalità» – la quale «riattiva il fondo oscuro e arcaico della condizione umana», il medesimo «che si mostra, con una facies diversa, nell’eterno disincanto popolare» –, gli esponenti delle leve più giovani, persino quelli dediti al lavoro culturale, non sembrano cioè ritenere che tra un simile regresso a uno stadio di cieco abbrutimento e la possibilità stessa del sapere vi sia un conflitto addirittura insanabile. L’impressione è che per loro, cresciuti in un’era che ha in ultimo assimilato il traguardo della conoscenza allo sdoganamento della barbarie, non solo si offra ancora normalmente a ciascuno la chance di elaborare una piena formazione culturale orientata a far emergere la sua peculiare soggettività, ma tale approccio al sapere si riveli senza contraddizione alcuna compatibile con l’educazione impartita a chicchessia dal sistema: quella a una feroce spersonalizzazione identitaria per l’appunto tesa a ridurre la società a un branco di animali indistinguibili l’uno dagli altri perché tutti ugualmente inclini a saziare indotti assilli edonistici scambiati per originari istinti vitalistici. Da qui il fiorire – in verità, non solo nelle generazioni alle quali ci si sta riferendo – di autoritratti intellettuali e di micro-narrazioni culturali che non muovono da assunti come questo dichiarato da Kojève: «Un animale che è in accordo con la Natura o con l’Essere dato è un essere vivente che non ha niente di umano». E che anzi, scambiando quell’annichilimento estremo delle soggettività costituito dalla regressione degli individui a uno stato di pura ferinità per un salutare incremento dionisiaco delle loro capacità di autorealizzazione, tendono a concepire il ripensamento dei saperi umanistici non come un potenziale antidoto contro siffatta riduzione della civiltà a barbarie, bensì alla stregua di un’ulteriore giustificazione di siffatto processo, misconosciuto nel suo reale significato, percepito quale spinta della collettività intera al progresso sociale.
Solo che non esiste branco di animali, o di esseri umani ridottisi a belve, che non agogni una guida, o un padrone, e una legge tribale, o una disciplina, cui sottomettersi per ottenere, in cambio di siffatta ubbidienza, la piena legittimazione ad esistere in quanto mera sommatoria di autistici istinti ferini. I cui membri non aspirino insomma a sacrificare una quota pur minima di libertà individuale per condividere tutti assieme – e però con un fanatismo che permetta a ciascuno di percepire totalmente riscattata la sua dolorosa rinuncia alla libertà assoluta – il principio d’ordine in nome del quale essi possono riconoscersi clan. Crescente desiderio di conformistica autocastrazione individuale, di posticce retoriche identitarie mutuate dai discorsi religiosi, di esibizionistico autoritarismo politico-culturale, questo che sta tornando ad essere vieppiù percepibile anche in Occidente, ch’è forse normale Mazzoni non sia del tutto in grado di cogliere.
Per ragioni anagrafiche, egli è in fondo tra coloro che «hanno vissuto e vivono le metamorfosi del secondo dopoguerra» non solo alla stregua di processi che hanno infine prodotto un’era, quella attuale, «soggett[a] a un tempo che passa senza tendere a uno scopo superiore, circondat[a] dalla morte e dai suoi avatar» (e cioè «il vuoto, la noia, la transitorietà, il bisogno di rinnovare il piacere per rimuovere il vuoto, la noia, la transitorietà»), ma anche al pari di «una conquista», se è vero che «generazioni abituate a un mondo povero e a una morale severa, disciplinata dallo sguardo oppressivo degli altri, hanno visto, nel cambiamento dei costumi e nella nuova disponibilità di merci, un miglioramento sostanziale, un “progresso”». Ecco perché il critico può affermare che nessuno saprebbe oggi «rimpiangere le entità etico-politiche che la mutazione ha spazzato via», come pure sostenere che «pochi di noi rivorrebbero indietro Dio, la religione, l’inferno, il prete o anche solo una società più povera, l’indissolubilità della coppia o l’Ogino-Knaus».
Tuttavia, quanti non vantano la condizione di pur ridottosi privilegio sociale di cui può ancora godere un docente universitario quale Mazzoni è; quanti pagano il prezzo più alto per la sofferenza economica patita dal Vecchio e, in parte, finanche dal Nuovo Continente; quanti stanno pascendo la propria adolescenza o la loro giovinezza a contatto giornaliero con ossessioni catastrofiste generate da tale crisi di sistema; quanti, adulti o meno che essi siano, risultano parimenti esposti, in un Occidente scristianizzato ma non pienamente secolarizzato, a risorgenti o camuffate retoriche religiose che, per rispondere alla minaccia del fondamentalismo islamico, tornano a giudicare nociva l’intrinseca portata emancipatrice dei vari processi di laicizzazione del tessuto civile; quanti, in un simile contesto e nella convinzione di poter recuperare o guadagnare perduti o mai acquisiti vantaggi dalla sospensione delle logiche democratiche e dal rifiorire di una chiusa società neo-corporativa, inclinano a rispecchiarsi in vieppiù diffusi discorsi pubblici di natura populistica o autoritaria, classista o razzistica: costoro, non stanno forse già dimostrando – per dirla con il titolo dell’ultimo romanzo di Houellebecq, che Mazzoni non manca di citare – un ambivalente desiderio di Sottomissione a una qualche perversa legge di radicale limitazione delle libertà individuali in grado, nei loro paradossali auspici, di ricavare, da siffatto sacrificio compiuto dai fedeli, l’ultima opportunità di salvaguardare e mantenere inalterato per l’appunto quello specifico stile di vita di cui si parla nei Destini generali? Non si stanno già rivelando oltre misura propensi – e lo nota ancora Houellebercq nel libro appena menzionato – a ritenere necessaria una sorta di ferale simbiosi tra ancor più spinta modernizzazione capitalistica e persino vandeana rinascenza medievale, tra ulteriore atomizzazione civile e dispotico clientelarismo sociale, tra palestre e sacrestie?
E che, in uno scenario simile, il discorso tradizionalmente più abile, quantomeno nel Primo Mondo, a garantire il compromesso tra culto di un individuo tuttavia spossessato di sé e rifiuto di una politica considerata intrinsecamente sterile giacché astratta, tra legittimazione ideologica di qualsivoglia delirio soggettivo di onnipotenza e cieca fedeltà a un’irrelata etica ufficiale, tra nichilismo e conformismo, cioè il discorso religioso, sia oggi tornato a esercitare l’antico fascino sui cittadini occidentali, lo confermano, a ben vedere, proprio il consenso tributato, non soltanto dalla comunità intellettuale, a una certa «critica lacaniana» che Mazzoni accusa, non senza ragioni, di moralismo e, ancor più, l’incredibile successo di pubblico riscosso da un esponente di siffatto indirizzo culturale: Massimo Recalcati. La cui proposta ermeneutica, almeno a saperla interpretare, configura una teodicea di matrice prettamente neo-cristiana, che seduce i lettori proprio in virtù di questa sua non troppo occulta natura.
Se il fantasma della psicoanalisi di derivazione freudiana è il Dio dell’Antico Testamento, per cui essa ricava la propria logica interna dall’idea che, in ultimo, l’individuo sia ciò che egli diventa di autentico o inautentico in virtù del conflitto con la legge di castrazione, il perno dell’impalcatura teorica messa in piedi dallo studioso milanese è invece il Cristo del Nuovo Testamento, disceso sulla terra a impartire un diverso insegnamento (“amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”) e per superare i vecchi interdetti divini tradottisi in un rigido sistema di tabù e punizioni, sicché Recalcati – sfruttando peraltro le logiche dell’industria culturale così bene da riuscire ad ergersi a magnetico pastore d’anime – può costruire una narrazione incentrata sul convincimento che, infine, ognuno divenga quello che una sua maggiore o minore fedeltà alla spinta prodotta in lui dal desiderio (cioè dal comandamento dell’amore) lo conduce, oppure no, ad essere. Dottrina del tutto compatibile, al di là delle apparenze, sia con lo spirito dei tempi (“ama sopra ogni altra cosa il tuo desiderio, perché assecondarlo, per te, potrà significare risorgere a vita nuova”), sia con il riemerso afflato religioso che lo contraddistingue (“esterna la tua fede nel potere salvifico della passione che ti ha redento, così come il cristiano reca testimonianza di quella resurrezione del Messia che garantisce anche della sua rigenerazione”). Ma anche dottrina che ambisce a esorcizzare la crisi (o, per alcuni, il tramonto) di quella psicoanalisi classica figlia legittima della modernità, e dunque da essa scaturita quale ricognizione autenticamente emancipatrice (o, a giudizio di altri, come pratica di raffinato disciplinamento) dei medesimi processi di libera soggettivazione laica che costituiscono il perno identitario di siffatta era storico-culturale.
E come non può forse esserci discorso psicoanalitico, quantomeno canonico, in un’epoca in cui gli individui si pensino tali esclusivamente quando sanno ricavare le proprie fisionomie dalla loro passiva identificazione con le maschere sociali, invece che dal conflitto, sia pure sofferto e – soprattutto – ben regolamentato, con la legge non solo simbolica che governa la civiltà, neanche sembrano potersi offrire, in un simile contesto, che somiglia poi al nostro, i presupposti di una qualche effettiva chance che torni a risultare comprensibile ai più, o comunque sia culturalmente proficua, quell’ormai agli occhi di troppi bizzarra tradizione espressiva che è la letteratura, geneticamente incline, specie dalla modernità in poi, a concepire se stessa prevalentemente quale strumento di soggettivazione per chi le dà forma, per chi la fruisce. Quando, a scuola come pure all’università, si danno oggi da leggere ad adolescenti o a ventenni alcuni capolavori della narrativa occidentale moderna, per esempio i romanzi francesi o russi o inglesi o americani otto-novecenteschi, ci si rende conto che – persino più di prevedibili imbarazzi determinati dall’incontro con prose caratterizzate da un periodare complesso, da una ricchezza lessicale, da un rigore argomentativo cui il presente, contraddistinto dall’esortazione all’immediatezza comunicativa, dall’invito a superare le regole ortografiche e grammaticali, dall’imperativo dell’estrema semplificazione concettuale, non abitua più nessuno – gli esponenti delle nuove leve patiscono anzitutto una difficoltà di natura epistemologica. Tendono cioè a non capire l’ordine di problemi generalmente incarnato in quei testi da personaggi alle prese con dolorosi o contraddittori o deliranti o inibiti meccanismi di ardua soggettivazione, appunto perché – sedotti da quel miraggio dell’indistinzione identitaria che parrebbe generare in loro autentica sofferenza quando non riesce a concretizzarsi, non quando, come nel caso di chi li ha preceduti, si traduce in realtà – essi non sembrano ormai più conoscere, auspicare per sé, voler favorire, o quantomeno vivere secondo una dialettica classicamente moderna, tali processi.
Poeta in proprio, Mazzoni – autore, qualche anno fa, di un volume di versi, dalla chiara ascendenza fortiniana, intitolato I mondi – sa bene tutto ciò, e dunque che per uno scrittore in una qualche misura ancora fedele alla lezione della modernità, persino più che per un critico genericamente inteso, non pare di conseguenza darsi la possibilità di un autentico dialogo con un pubblico per il quale la letteratura non costituisce più uno strumento formativo. La radice ultima della sua rassegnazione è allora l’inaggirabile consapevolezza di non potersi candidare ad essere – in quanto autore letterario che (si vuole azzardare un pronostico) promette di offrirci in futuro anzitutto volumi di versi o magari uno o più romanzi – la coscienza critica della propria società, del proprio tempo. Ed è in prima battuta questa inibizione a suggerirgli di convertirsi in un mero spettatore del preannunciato sconquasso:
È possibile che lo stato di cose presente proceda verso una crisi di sistema; è sicuro che debba affrontare la guerriglia endemica dei fondamentalismi; è probabile che si conservi nel tempo ma che i rapporti di forza fra le aree geografiche mutino a svantaggio dell’Occidente; è probabile che il più importante fattore di instabilità provenga dalla demografia interna ai paesi occidentali, cioè dall’aumento delle minoranze di origine non-occidentale legate a culture che resistono alla secolarizzazione; è probabile che, nell’eventualità di un collasso totale o locale, l’unica alternativa sia il disordine, lo stesso disordine che oggi ricopre zone vaste del pianeta e che non porta a uno sbocco politico, ma alla pura entropia.
Scriveva però Fortini in un testo, Ultime volontà, apparso il 19 marzo del 1989 su «L’Espresso»:
Vale ancora, credo, la vecchia verità hegeliana che anche l’antropologo Ernesto de Martino ricordava nel suo straordinario libro postumo sulla Fine del mondo: la morte, bisogna starle accanto ogni giorno se si vuole uscire dalla condizione del servo che la fugge e se ne consola con miti di catastrofi che travolgerebbero insieme a lui i suoi signori. Se c’è un momento davvero “sacro”, non è quello che ha già trasformato il Servo in Signore. In quell’ora, rammenta la Weil, “la giustizia abbandona il campo del vincitore”. È invece il moto immediatamente antecedente, quando il Servo che abita in noi decide di “far fronte”. Il momento di Spartaco, che non perde mai del tutto, né dimentica, la propria condizione servile se vuole essere di aiuto ai propri compagni e riceverne.
Ciò che nei Destini generali avremmo voluto trovare non è un differente ritratto della nostra epoca, né una diversa prefigurazione del tempo che ci aspetta, e neppure l’ostinata estrinsecazione di una qualche residua dottrina utopica, magari coniata a titolo esclusivamente personale. Nel libro ci sembra mancare soltanto, perché è in Mazzoni che non pare lecito reperirlo, quello che potremmo per l’appunto definire l’atteggiamento di Spartaco. La disponibilità, cioè, a convivere ogni giorno con la propria mortificazione di individuo, di cittadino, di intellettuale non per lasciarsi anche solo sedurre dal desiderio perverso di identificarsi con la condizione di minorità, giocoforza patita, fino al punto di unirsi ai Signori, o persino di anticiparli, nel dichiarare la pur angosciante necessità – ammessa da tutti, inclusi quanti comandano – di percepirsi schiavi, ma – evitando di far coincidere il dolore percepito con l’improduttivo rimpianto di qualsivoglia perduto privilegio – per confessare, sottoporre ad analisi impietosa, ribadire assolutamente indegna la propria riduzione a Servo, nella speranza di riuscire così a interloquire alla pari e di poter fare squadra con altri soggetti – si contassero pure sulle dita di una mano e avessero finanche impresentabili sembianze – parimenti consci di essere vittime di un dominio sinceramente considerato inaccettabile. Perché, se dopo essersi riconosciuti degli impotenti “umiliati e offesi”, si continua però a scrivere libri, a insegnare all’università o a scuola, a prendere la parola in pubblico, benché dovendo in tutta onestà chiarire di non avere un qualche discorso utopico da proporre, ci si dovrà pur dimostrare quantomeno inclini a far ciò col preciso intento di solidarizzare, persino senza profitto alcuno, con le vittime del Sistema e per ottenerne al limite il sostegno o incoraggiarne ogni larvale tentazione alla dissidenza, non col fin troppo realistico, addirittura comodo obiettivo di svilirne culturalmente qualsiasi sforzo, magari solo ingenuo, di resistere, in maniera finanche velleitaria, al dominio.
E poi, quando non ha qualcosa di appurato da insegnare, l’intellettuale può anche scegliere di esporsi nel tentativo di reperire qualcosa di imprevisto da imparare. Lo ricordo a Guido, lo ricordo pure a me, che in un certo suo luciferino zelo demistificatorio, ma disfattista, un po’ mi riconosco.