di Paolo Bagnoli

Il 2018 passerà alla storia come l’anno gialloverde, quello di un’esperienza che segna, da una parte, il punto di arrivo dei fallimenti politici succedutisi dal 1994 in poi e, dall’altra, la discesa di qualità, se non l’avvio di una vera e propria dissoluzione, della nostra democrazia. Il tutto si esprime e si sintetizza nella maggioranza di governo composta da due populismi – peraltro non similari né convergenti – che si trovano d’accordo solo nella gestione e occupazione del potere con una stressante competizione, dal momento che ognuno bada solo a pascolare il proprio popolo. Non è un caso, infatti, che quanto viene realizzato non è intestato al governo, mai ai singoli partiti. È un qualcosa che non troviamo in nessun’altra parte d’Europa.

Così, se sotto il profilo dell’analisi si tratta di un fenomeno che è giusto indagare e studiare, sotto il profilo delle ripercussioni politiche immediate i contraccolpi negativi sul nostro paese hanno una valenza doppia e, progressivamente, se le sofferenze istituzionali e sociali si salderanno, il mix può rivelarsi esplosivo. La domanda che sorge spontanea è se il paese viva una drammatica fase congiunturale oppure uno stadio avanzato verso l’istituzionalizzazione delle gravi anomalie cui assistiamo giorno dopo giorno. La più grave di queste è certamente l’umiliazione del Parlamento. Tale situazione determina una sostanziale riduzione della capacità di governare: un profilo che emerge con sempre maggiore evidenza. Tutta la vicenda della manovra finanziaria lo attesta. La conseguenza certa è che invece di una crescita avremo solo un incremento della spesa corrente dal momento che dovremo pagare a caro prezzo il reperimento di risorse che non abbiamo.

La manovra di bilancio, varata dopo un lungo braccio di ferro con l’Europa, parla chiaro. Al momento è stata evitata la procedura di infrazione, portando il rapporto tra deficit e Pil dal 2,4% al 2% (lasciamo ai creduloni lo 0,4 indicato per meri fini comunicativi) intervenendo, cioè, sul deficit strutturale. Il governo aveva previsto di farlo aumentare dello 0,8% ogni anno, dovendolo invece abbassare dello 0,5%. In buona sostanza, ha deciso di non peggiorarlo. Si è trattato di un’operazione a garanzia delle spese conseguenti alle promesse fatte, ma questa operazione è un’ipoteca sul futuro poiché coincide con l’aumento delle clausole di salvaguardia per la manovra del 2019 che passerebbe dagli odierni 13,7 a circa 24 miliardi. È stato osservato che il governo, proprio per questo, pensa di non dover gestire la prossima manovra. Si coglie subito, quindi, il prezzo politico che il paese paga nell’immediato, nel turbinio di timori, paure, scetticismi che intrecciano i pareri degli osservatori internazionali, delle agenzie di rating e di tutti quei centri che fanno opinion, con lo stato d’animo del nostro mondo economico che subisce la mancanza di scelte da parte di un governo che opziona derive esclusivamente populistiche. In ciò si rileva la frattura più marcata tra la realtà che sta dietro la Lega e quella assistenzialistica del M5S.

Il M5S, inoltre, sta tra una prevalente istanza politicista del suo capo politico che non ha altro orizzonte se non quello del governo, e l’anima del suo popolo, che dal governo si sente tradito nelle sue aspettative urlate da Grillo e compagni, soffrendolo come un qualcosa di estraneo alla propria ragione. Che sia così lo dicono i sondaggi che vedono il movimento in forte caduta, ma rimettere in discussione la scelta del governo significherebbe azzerare i centri decisionali. La morsa nella quale si trova il movimento non può che creare ulteriori tensioni che scaricheranno effetti negativi sul paese tutto. Il risultato non può essere altro che la paralisi del sistema politico dal momento che la caduta del governo non aprirebbe la strada a nuove intese, mancando una possibile maggioranza di riserva. Ci troviamo dunque in una stabilità malata, prodotta da due forze tra loro avversarie. Non è esagerato, insomma, ritenere che siamo in un vicolo cieco. L’unica uscita possibile appare quella delle elezioni anticipate da cui sarebbe esagerato attendersi il superamento dell’incertezza dell’oggi, a meno che un’ampia vittoria della destra non consegni a Salvini la regia di una nuova fase confermando una vecchia storia: le crisi strutturali delle democrazie, bene bene che vada, finiscono sempre con lo spostamento a destra dell’asse politico. Un governo Salvini – date le premesse e il personaggio – desta al solo pensiero motivate preoccupazioni. Scervellarsi sui tempi di una possibile evoluzione ha poco senso poiché essa, qualunque possa essere, non pare realizzabile in tempi prossimi. L’inconcludenza dannosa del governo, le tensioni politiche istituzionali che genera, gli opportunismi che la Lega e il M5S praticano con sfacciata arroganza inducono a pensare alle elezioni europee quale appuntamento per aprire un nuovo scenario. Ci arriveremo in un clima non certo decantato rispetto all’attuale, ma ben più aspro ed esasperato.

Su un punto occorre, però, ancora soffermarsi. Le alterazioni generate dalla coalizione gialloverde derivano dall’equivoco di partenza poiché il “contratto di governo” non è un’intesa politico-programmatica, ma solo un incontrarsi per scopi non rispondenti ai fini particolaristici di ciascuno dei contraenti. Certo, è un’intesa, ma non basata, secondo la prassi dei regimi parlamentari, su un compromesso condiviso di prospettiva. È un incontro esclusivamente temporaneo tanto che le due forze, prima o poi, si presenteranno alternative all’elettorato. Inutile constatare che questo tanto richiamato “contratto di governo” annuncia titoli senza definirne i contenuti cosicché ciò che in termini di proposta programmatica questi dovrebbero rappresentare può essere speso secondo le convenienze del momento. Tutto risulta indefinito. Lo è il modo stesso di vivere del governo che non aspira nemmeno ad avere una propria autonoma funzione se pur di facciata, limitandosi a varare quanto deciso in altra sede cosicché questo governo finisce per essere una mera sede di ratifica. Se funzionasse, magari al minimo, potrebbe almeno sfiorare questioni politiche reali, dando alla collegialità quella parvenza prevista dalla Costituzione. Salvini, invece, spazia a tutto campo. Dagli esteri alla difesa, dalla sanità all’economia, invadendo ogni settore senza nessuna remora: meglio sarebbe dire senza pudore alcuno. Questo avviene poiché la linea del governo, in presenza di un presidente tragico nella propria impacciata banalità, è data dai due vicepresidenti che spesso decidono l’accaparramento delle cariche pubbliche rilevanti con colpi di mano e talora senza nemmeno rispetto alcuno delle procedure, come nel caso della presidenza della Rai. Che ne ricaviamo da un quadro così sconsolante? Dopo aver mosso guerra alle élites in nome del popolo oggi sono essi le élites proprietarie e autoritative, demagogiche e incapaci, che si ergono prepotenti sulle macerie dello Stato di diritto, digiune di quelle caratteristiche che alle élites necessitano per essere vera classe dirigente.

La luce uscita violenta dalle urne del 4 marzo 2018 si sta appannando giorno dopo giorno. Il movimento, risultando un corpo poco solido dal momento che il consenso ricevuto non riesce né a fare massa né a fare squadra, si sta perdendo e modificando. L’aspirazione a prefigurare, come sembrava essere nelle intenzioni di Grillo, una nuova spiaggia su cui impiantare un mondo ecologicamente nuovo si sfrangia e mina il disegno utopico del capo. Tra le due stagioni del movimento – quella della nascita e della crescita e quella delle responsabilità di governo – prende corpo un fattore lacerante: mentre nella prima bastavano i sogni a legittimare una militanza, nella seconda occorre cultura e capacita tecnica per affrontare la sfida del governo. Al di là delle dichiarazioni urlate, è questa la prova primaria e dirimente del movimento. Al governo, accanto a una forza più solida, agguerrita ed esperta qual è la Lega, il movimento si è smarrito, finendo per pagare un prezzo salato. Se guardiamo al Tav, alla Tap, all’Ilva, al decreto Genova che prevedono grandi costi ambientali, cxi troviamo di fronte a una forza inadeguata e in contraddizione addirittura con i propri fondamenti ideologici. Un paniere di problemi che allontanano sempre più il movimento da coloro che, magari per disperazione o per sola voglia di cambiamento, gli avevano dato il voto.

Il valzer della crisi della democrazia Salvini e Di Maio lo ballano da soli, pestandosi i piedi e andando fuori tempo: ma da soli. Il Pd è una forza assente, incistato com’è nel nulla di una condizione il cui primo fondamentale errore consiste nel ritenersi un partito e, per di più, di sinistra. Alcuni intellettuali annunciano che è arrivato il tempo della resistenza civile. Nobile intento in una stagione nella quale forte è lo scivolamento verso valori antidemocratici. Per rialzare la testa occorre sicuramente anche la resistenza civile, ma in primo luogo occorre consapevolezza politica e credere che, a fronte di quest’Italia, c’è un’altra Italia che crede nella democrazia, nella libertà, nella Costituzione. Se il filo di quest’Italia si connetterà, allora comincerà a riprendere corpo la tramatura politica della Repubblica. È una questione di idee, di forze sociali e di percorsi politici, del rinascere di una repubblicana moralità collettiva. Se così non dovesse essere, allora, forse, non resta che la resistenza civile. Ma questo è un abito che l’indole italiana non ama indossare.