Repubblica italianadi Piero Calamandrei

Ripubblichiamo questo scritto di Calamandrei – il suo ultimo articolo apparso sul «Ponte» (n. 10, ottobre 1956) – che presenta motivi di grande interesse per leggere la realtà attuale. In primis le caratteristiche della nostra repubblica parlamentare che si differenzia – e in meglio – da una repubblica presidenziale in quanto si fonda su una Costituzione rigida e programmatica. Programmatica perché contiene «un vero e proprio programma di trasformazione sociale della società, i cui capisaldi sono quelli del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, del diritto al salario».
A garanzia di questo programma c’è il presidente della Repubblica che non è un re, che può fare e disfare i governi a suo piacimento, ma «ha il potere di garantire la continuità costituzionale» ricordando ai governi «l’indirizzo programmatico».
Questo per dire che, secondo me, il presidente non può fare un «governo del presidente», né, come si è detto da più parti con una punta di compiacimento, un «governo neutrale», né un «governo di garanzia». Il governo deve essere espressione della volontà popolare che i risultati elettorali hanno messo in evidenza. Rispettando questo principio, il presidente della Repubblica è il rappresentante del potere del popolo e attua «l’impegno preso dal popolo nella Costituzione».


Se la mia interpretazione ha un senso, allora devo derivarne che il «governo del presidente» sarebbe stato un vulnus alla Costituzione. D’altronde cosa sarebbe accaduto se questo governo fosse stato sfiduciato dal parlamento? La sfiducia sarebbe immediatamente ricaduta sul presidente stesso. Ma un presidente della Repubblica può essere sfiduciato? Può, secondo l’articolo 90 della Costituzione, essere messo in stato di accusa dal parlamento per «attentato alla Costituzione», ma sfiduciato per la formazione di un governo no. Da qui derivo che il presidente della Repubblica non può dare corso a un «governo del presidente».
Perché allora Mattarella, che di Costituzione è senz’altro molto esperto, si è avventurato in un’ipotesi del genere che, per sua fortuna, è poi caduta nel nulla? Azzardo una risposta: l’Unione europea e gli Stati Uniti gli hanno fatto presente che non gradivano un governo composto da forze politiche che da una parte erano contrarie all’attuale Europa della finanza e dall’altra avevano espresso giudizi positivi su Putin e Marine Le Pen. A questo “richiamo” internazionale il presidente ha provato a rispondere con questo tentativo di un «governo del presidente», nuovo rispetto a tutta quanta la tradizione repubblicana di formazione dei governi, ma fondamentalmente maldestro.
Non è andato in porto per sua e nostra fortuna perché avremmo rischiato una crisi di sistema difficilmente superabile. E questo tuttavia non ci garantisce – date le forze in campo – che il governo politico che sta per nascere realizzerà, almeno per grandi linee, quella trasformazione sociale che la Costituzione rigida e programmatica impone. Mala tempora currunt.

Marcello Rossi

In Francia ogni tanto si sente riaffiorare, di fronte alla instabilità dei governi, l’idea della Repubblica presidenziale come una salvezza: e v’è, non soltanto da destra, chi auspica una riforma costituzionale in tal senso1. Da noi viceversa ogni tanto lo spettro della Repubblica presidenziale viene agitato come un pericolo da chi rimane attaccato alla tradizionale onnipotenza del Parlamento, canone della repubblica parlamentare. In realtà, in materia costituzionale piú che in ogni altra materia omnis definitio periculosa: quando si è detto che in Italia abbiamo una repubblica parlamentare, non si è detto nulla di preciso: ogni Costituzione è un unicum, e nella cornice delle formule generali, ciò che conta sono le norme specifiche, intese nel proprio clima storico da cui non possono essere avulse.

Indubbiamente la nostra è una Repubblica parlamentare, in cui il capo del governo è distinto dal capo dello Stato, e non può governare senza la fiducia del Parlamento. Ma forse ancora i cittadini italiani, e i partiti, non hanno valutato a pieno che cosa voglia dire, e quali essenziali novità abbia introdotto nei vecchi schemi del sistema parlamentare l’avere una Costituzione, come dicono i costituzionalisti, rigida e programmatica. Rigidezza della Costituzione (cioè immutabilità di essa con leggi ordinarie) vuol dire che è venuta meno la onnipotenza del Parlamento nel legiferare: il Parlamento (a meno che si aduni in Costituente) non è più libero di fare le leggi che crede. Il vecchio detto che il Parlamento può tutto meno che cambiare l’uomo in donna non è piú vero: il Parlamento può tutto meno che fare leggi in contrasto colla Costituzione. Questo però significa non solo limitazione del potere legislativo nel fare leggi in contrasto colla Costituzione, ma limitazione anche dei poteri del governo, il quale non può proporre leggi in contrasto colla Costituzione: vi è dunque nell’indirizzo politico del governo una prima limitazione negativa, che gli deriva dai limiti posti dalla Costituzione: il governo non può proporre una legge che neghi la libertà di stampa, la uguaglianza di tutte le opinioni politiche: [stabilendo così] una discriminazione di partiti; se la propone, il Parlamento non può approvarla; se l’approva, la legge è inefficace.

Ma altre caratteristiche tipiche derivano dal fatto che la nostra Costituzione è programmatica, cioè contenente un vero e proprio programma di trasformazione sociale della società, i cui capisaldi sono quelli del diritto al lavoro, della effettiva partecipazione dei lavoratori al governo, del diritto al salario. Questo programma è un proposito di riforme: il governo deve seguire l’indirizzo politico che porta a queste riforme. Vi è dunque una doppia serie [di vincoli]: non può fare contro la Costituzione; deve fare secondo la Costituzione: deve legiferare e governare.

A garanzia di queste limitazioni ci sono due organi: la Corte costituzionale, che ha il potere di annullare le leggi contrarie; il presidente che ha il potere di garantire la continuità costituzionale: in tre modi: rifiutandosi di firmare i progetti di legge, rimandando le leggi contrarie, rifiutandosi di promulgarle. Ha inoltre il potere positivo di ricordare ai governi l’indirizzo programmatico: e di sciogliere le Camere se il governo si allontanasse da questo programma. Non è irresponsabile come il re: è responsabile per attentati alla Costituzione. Per questo deve vigilare a che l’indirizzo politico del governo non sia contrario [alla Costituzione.]

Questa è la nostra Costituzione: la quale non è la traduzione in lingua repubblicana dello Statuto albertino, dove il re regna ma non governa. Il re era un potere diverso: ma il presidente della repubblica emana dal popolo: e quindi è lui il rappresentante di questo potere del popolo di ricordare agli altri organi l’impegno preso dal popolo nella Costituzione.

In questo congegno vi è una garanzia giuridica di continuità di direttive politiche che non vi è in altre costituzioni: un governo che volesse sottrarsi al programma di riforme sociali andrebbe contro la Costituzione, che è garanzia non solo che non si tornerà indietro, ma si anderà avanti. Chi si vuol fermare è contrario alla Costituzione.

Questo può dispiacere a qualcuno che vorrebbe restar fermo. Ma questa è la Costituzione: hoc iure utimur. Questo è il programma su cui i partiti democratici possono trovarsi d’accordo: questo è lo [spirito?] secondo il quale la speranza che animò i caduti della Resistenza si è tradotta in dovere politico.

1 È questo l’ultimo articolo di Piero Calamandrei […]. Mancava soltanto degli ultimi ritocchi che l’Autore era solito dare alla prima stesura dei propri scritti. Per il messaggio che a esso è affidato e per la circostanza in cui fu composto, ci sembra che esso acquisti quasi un valore simbolico; e come tale lo affidiamo alla meditazione e all’affetto dei lettori. Nel testo son racchiuse tra parentesi quadre le aggiunte che abbiamo creduto opportuno inserire qua e là, per rendere ancor piú intelligibile un discorso che del resto è già di per sé chiarissimo (ndr).