di Tomaso Montanari
«Quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nemico»: la profezia dell’esilio che l’ombra di Brunetto Latini fa calare su Dante nel XV dell’Inferno torna oggi vera, parola per parola. L’idea di riportare a Firenze, per un “evento” del 2021 (settecentesimo anniversario della morte del massimo poeta italiano), le spoglie dantesche che riposano a Ravenna qualifica i fiorentini di oggi per quello che sono: duri di cuore e di comprendonio come i sassi fiesolani da cui scesero a valle i nostri padri etruschi. Ed è davvero insopportabile questa continua prostituzione della storia della mia città, ormai ridotta alla mediocrità di una pellicola di Zeffirelli, con i suoi falsi storici e la sua «fatuità da classe vip» (Morandini).
L’idea di «far finire l’esilio di Dante» (questa la pornografica formula giornalistica) è stata lanciata da Cristina Mazzavillani, che dirige il Festival di Ravenna grazie al suo principale merito: essere la moglie del venerato maestro Riccardo Muti. L’alto profilo dell’iniziativa è stato subito ben colto dalla stampa: «un business turistico» (così «la Repubblica»). E naturalmente Palazzo Vecchio ha subito abboccato, e il sindaco Dario Nardella, trionfante sulle ceneri del Maggio Musicale Fiorentino, ha dichiarato: «Sulle ceneri di Dante non dico niente, qualsiasi cosa si faccia sarà possibile solo in totale accordo con la città di Ravenna».
Ci sono almeno due ragioni per giudicare indegna questa baracconata.
La prima è legata al rispetto per Dante e per la storia, la seconda al rispetto per (ciò che resta di) Firenze.
L’esilio fu per il poeta l’esperienza centrale della vita: un’esperienza durissima e terribile, sul piano morale e su quello materiale. Nel Convivio piange se stesso per aver dovuto soffrire «pena ingiustamente: pena, dico, d’esilio e di povertate. Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori dal suo dolce seno […], per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato». Riscrivere in farsa da telenovela il finale di quella vicenda, riaccogliendo in seno alla Firenze di oggi un Dante incapace di difendersi, sarebbe un atto di arbitrio e violenza morali insopportabili.
Cosimo I fece qualcosa di simile con Michelangelo. Questi non era mai voluto rientrare a Firenze da vivo, per non vederla sotto la tirannia di quella famiglia Medici alla quale egli stesso doveva così tanto: ma, dopo la morte, un nipote senza schiena diritta ne riportò le spoglie ai piedi del duca, e i solenni funerali di Stato e una tomba in Santa Croce siglarono il trionfo del cinismo del potere sulla libertà di un artista sommo. Ma almeno i registi di quel fastoso sopruso furono Cosimo, Vasari, Varchi, Cellini: Dante avrebbe oggi in sorte officianti come Nardella e la signora Muti.
E poi c’è Firenze, che ormai vive come la Roma paragonata da James Joyce a un tale che campava mostrando ai turisti il cadavere della nonna mummificata. Nell’era Renzi i feticci erano la Battaglia d’Anghiari di Leonardo da trovare sotto la pelle vasariana di Palazzo Vecchio, o le ossa della Gioconda che un ciarlatano voleva scoprire sotto un enorme palazzo del centro abbandonato, e che nessun sindaco riesce a redimere. Oggi tocca alle povere ceneri di Dante.
Una classe dirigente incolta e sciacalla, che non capisce che l’unico modo per onorare davvero il Poeta è leggerlo e studiarlo. Senza trasformarlo in una festa nazionale (l’imbarazzante Dantedì lanciato dal «Corriere della sera», e subito raccolto dal nostro coltissimo Parlamento), o nell’ennesimo carrozzone effimero al servizio di nani che cercano di inerpicarsi sulle spalle di giganti troppo morti per poterli buttare di sotto.