di Luca Michelini

Su «Il Ponte» Rino Genovese scrive: «Da noi in Europa ci sono adesso i sovranisti di destra (senza virgolette) e quelli “di sinistra” (le virgolette sono d’obbligo) che intendono rifarsi alle vecchie esperienze novecentesche. Senza comprendere che, ammesso che un nuovo modello di Stato sociale e di politiche keynesiane sia possibile ipotizzare, esso andrebbe sul conto di un’Europa completamente riformata in senso sovranazionale (con un’imposizione fiscale progressiva identica o molto simile sull’intero continente, con regole unificate del mercato del lavoro che impediscano delocalizzazione delle imprese e dumping sociale, ecc.), così da fare apparire i vari Stati nazionali europei come quei relitti del passato che sono, non meno di quanto lo fosse il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla nell’Italia risorgimentale».

Alla luce di questa prospettiva, che opportunamente rigetta i “sovranismi di destra”, sembra di capire che anche i “sovranismi di sinistra” abbiano poche ragioni da rivendicare, anche se, al tempo stesso, l’A. non vuole appoggiare la versione “liberal-lberista” che dell’europeismo hanno dato le sinistre al governo.

Nel ragionamento di Genovese opportunamente si ricorre all’esempio storico. E allora il compito che oggi si avrebbe di fronte è quello di capire, prima di tutto, che cosa sta accadendo in Europa e dell’Europa unita. Il compito non è facile, ma certo l’indicazione è ineludibile e dovrebbe spingere le forze dell’analisi appunto ad assumere una prospettiva quanto meno europea delle forze in gioco. Obiettivo tutt’altro che raggiunto dalla cultura politica italiana. Solo gli specialisti della storia della costruzione europea hanno forse questa capacità di analisi, che però, insisto, mi sembra rimanere appannaggio di cerchia ristretta che stenta a farsi discorso politico comune. L’internazionalismo, cioè una delle matrici imprescindibile dei partiti socialisti e progressisti, oggi di fatto è del tutto scomparso. Tanto è vero che l’intera politica italiana, come la cultura del nostro paese, è rimasta letteralmente spiazzata quando la Francia e l’Inghilterra hanno deciso l’intervento in Libia, cioè hanno deciso un intervento dall’ineludibile connotato anti-italiano.

Qualche riflessione in merito al ragionamento proposto da Genovese è tuttavia possibile abbozzarlo.

Come si è manifestata l’Europa Unita di fronte ad alcune delle crisi economiche e sociali più rilevanti, come quella della Grecia? La letteratura in proposito è ormai di un certo rilievo: in estrema sintesi, non si va lontano dal vero affermando che si è trattato di una vera e propria politica di potenza volta a soggiogare la Grecia ai voleri della Germania in primo luogo e poi di un certo tipo di Europa. Cioè un’Europa lontanissima dal modello auspicato da Genovese.

La Germania, per contro, ha stabilito una gerarchia precisa per quanto concerne il diritto che deve governarne l’economia e la politica: è la Costituzione della Germania che deve avere la precedenza sulle direttive europee. Della Francia ho già accennato per il caso della Libia. La Gran Bretagna ha scelto, di nuovo, l’isolazionismo, per altro senza aver mai rinunciato alla cosiddetta sovranità monetaria. Discorso a parte meriterebbe, poi, la Catalogna e dunque la Spagna. Segue poi la politica europea nei confronti della Russia, con il fronte militare costituito dall’Ucraina. Ungheria e Polonia si sono già arroccate su posizioni nazionaliste di destra, anche estrema. L’Austria è sempre in bilico sull’orlo del nazionalismo.

In una parola: è del tutto evidente che è un certo tipo di Europa che ha suscitato il risorgere dei nazionalismi di destra. È la globalizzazione neoliberista che, scardinando la società, ha suscitato varie forme di nazionalismo: che sono, prima di tutto, un tentativo di difendere la società dai meccanismi del mercato capitalistico inteso in senso liberista. Il colore politico di questa difesa è una problematica che viene dopo, per quanto essa sia fondamentale.

L’Italia è l’ulteriore conferma di questa concatenazione storica: sarebbe infatti imprudente pensare che il nazionalismo abbia una base puramente ideologico-identitaria; al contrario, è il tentativo della società di resistere ai disastri del liberismo-di-sinistra che ha imperato per un ventennio. Un dominio che, per altro, non ha mai intaccato veramente la volontà di potenza dei paesi più strutturati e non ha mai messo in discussione, ma ha semmai rafforzato, i gangli di potere monopolistico, privatistico e statuale a un tempo, del capitalismo italiano: e mi riferisco in primo luogo all’impero pubblico-privato di Berlusconi.

Ora, di fronte a questo scenario non mi sembra che la proposta di Genovese sia molto chiara. Di fronte a questo scenario non vedo altra soluzione che ripartire appunto dalla Nazione, dalla sovranità repubblicana, cercando di ricostruire, ma su basi differenti, e solo in un secondo tempo, un’Europa diversa. Quale altra leva si ha nelle mani se non quella dello Stato per creare un’Europa differente? Non è del resto un caso che il liberismo di sinistra abbia strenuamente cercato di disfarsi proprio di un certo tipo di sovranità dello Stato nazionale. Ha tentato di creare uno Stato forte, retto, grazie alle alchimie istituzionali ed elettorali, da una minoranza. Il pareggio di bilancio in Costituzione è stato appunto il portato di questo tipo di meccanismo. Ora, l’architrave della nostra Costituzione repubblicana, e il ritorno di una logica proporzionale che spinge a trovare il consenso della maggioranza (e dunque spinge al compromesso, al dialogo, alla pace sociale, ecc.), non può che essere lo strumento per ricostruire in primo luogo la società italiana e poi, in un secondo tempo, o forse nello stesso tempo (vista la costante ingerenza dell’Europa nei nostri conti pubblici), una nuova Europa. È probabile che questo percorso venga egemonizzato dalla destra, come sta accadendo un po’ in tutta Europa. Ma la partita del progresso si gioca, anzitutto, su questo terreno e dunque dentro i confini della nazione; meglio: rafforzando questi confini.

Se poi volessimo passare sul piano dottrinario, mi fa piacere constatare come anche per Genovese il liberismo ultrà di Marx ed Engels non possa che essere funzionale a un progetto rivoluzionario: cioè a un progetto che nessuno ritiene attuabile o sensato oggi in Italia e in Europa. Va però anche ricordato che i fondatori del materialismo storico erano tutt’altro che insensibili alla strenua lotta di protezione, verrebbe da definirla, opposta dal proletariato inglese a quello che nel primo libro del Capitale è definito l’olocausto della classe operaia inglese, cioè agli effetti socialmente devastanti della rivoluzione industriale. Il riconoscimento dei sindacati, la legislazione sul lavoro, in una parola: tutto ciò che di progressista l’Inghilterra riuscì a produrre sul piano nazionale, era parte integrante di quello che Antonio Labriola definì «il processo che abolisce lo stato di cose esistenti». E il giovane Gramsci, così imbevuto di cultura e di utopie liberiste, nei Quaderni abbozzerà una riflessione sulla transizione, sulla differenza tra Occidente e Oriente, sulla rivoluzione passiva, sul concetto e sulla pratica dell’egemonia, che dovrebbe indurre, ancora una volta, a fare della nazione il perno di ogni ragionamento sulla trasformazione sociale e sull’azione politica.

Un’altra idea di Europa, insomma, deve avere gambe sulle quali camminare.