Elias Canettidi Leonard Mazzone

Dopo il fallimento epocale di quei regimi politici che nel corso del Novecento avevano tentato di raccogliere l’invito marxiano a superare la filosofia attraverso la prassi rivoluzionaria, il XXI secolo si è aperto all’insegna di un nuovo proclama ideologico, che annunciava la fine della storia e, con essa, delle grandi narrazioni che avevano movimentato la modernità politica. Precocemente confutati dalla più ideologica delle tesi neoliberali – la fine delle ideologie – e dall’urgenza di tornare ad «apprendere il proprio tempo col pensiero», questi prematuri annunci funebri celebrano il ritorno spettrale di una metafora filosofica speculare al mito platonico della caverna: se nel libro VII della Repubblica Platone inaugura la storia della filosofia politica all’insegna di una metafora visiva che contrappone l’idea solare del bene all’oscurità di un’opprimente ignoranza, l’immagine hegeliana della nottola di Minerva e della talpa configura i rapporti tra filosofia e storia all’insegna di una messa a fuoco senza fine, più che di un finale da contemplare.

Dall’incontro fra la lungimiranza crepuscolare e lassista della filosofia e l’operosità cieca e sotterranea della storia sorge la nozione di «spirito del tempo», impossibile da cogliere quando un’epoca è ormai giunta al suo tramonto per l’insolubilità dei conflitti che la dilaniano. D’altra parte, la necessità di cogliere lo spirito del proprio tempo si fa tanto più impellente quanto meno una certa epoca si lascia immediatamente decifrare dai suoi contemporanei: lungi dal rappresentare la fine della Storia, infatti, il tramonto di un’epoca coincide anzitutto con l’alba di quella successiva.

È precisamente quanto sta accadendo oggi, nel bel mezzo di una trasformazione epocale dei rapporti fra democrazia e capitalismo, le cui tracce possono essere facilmente riscontrate sul terreno economico, politico, sociale e ideologico: ne sono un esempio il passaggio dal fordismo al toyotismo e alla finanziarizzazione dell’economia, la transizione da uno spirito capitalistico incentrato su valori meritocratici e tarato su imprese a vasta scala a una nuova configurazione spirituale, fondata sulla flessibilità, sulla polivalenza e sulla mobilità dei lavoratori, la predominanza del discorso del capitalista su quello del padrone e, infine, la prevalenza sistematica dei principi neoliberali di governance e di governabilità su quelli democratici della rappresentanza e della rappresentatività.

Questa complessa serie di processi trova oggi una combinazione paradossale nell’elezione di un miliardario a capo degli Stati Uniti d’America, di fronte a cui hanno dovuto arrendersi le profezie di inguaribili ottimisti e con cui, oggi, è chiamata a fare i conti una diagnosi del presente all’altezza di questo nome. È in occasione di fasi di transizione epocale come l’attuale che può tornare utile aggrapparsi alle spalle di un gigante del pensiero come Elias Canetti, riuscito nell’impresa di catturare alcune delle linee di fuga prospettiche del proprio tempo, prima ancora che la sua epoca giungesse al tramonto.

Un risveglio traumatico

Per molti osservatori la mattina del 9 novembre 2016 ha rappresentato un brusco risveglio. A dormire non era stata la ragionevole speranza – o, per i più radicali, la semplice attesa – di una vittoria della candidata democratica, ma il senso della realtà: a parte le isolate previsioni di qualche profeta di sventura come Michael Moore, pochi intellettuali avevano presagito il successo elettorale di Donald Trump. Da quella mattina, uno degli esercizi intellettuali più in voga è consistito nella ricostruzione dei moventi che hanno indotto la popolazione americana – malgrado i tre milioni complessivi di voti di scarto ottenuti da Hilary Clinton – ad affidare gli Usa a un miliardario indebitato, uno dei principali (ex) finanziatori delle campagne elettorali di Bill Clinton.

Leggere la vittoria di Trump solo alla luce della debolezza relativa della candidatura di Clinton rischia però di restringere eccessivamente l’analisi di quanto successo. Una delle sfide della psicologia di massa consiste nel rimediare a questa lacuna: all’analisi della struttura economica – decisiva a spiegare le scelte individuali, a sondare gli interessi – subentra quella dei moventi psicologici che contribuiscono a trasformare individui diversi per classe, status culturale, tendenze sessuali, origini etniche, ecc. in una massa più o meno omogenea. All’analisi su un asse orizzontale che contrappone un candidato “di destra” a uno “di sinistra” si affianca quella verticale, per sondare il rapporto fra la massa di elettori e il candidato vincente.

Com’è noto, uno dei principali bersagli polemici di Canetti fu Sigmund Freud: non solo per la lettura sovversiva che ha fatto di alcune patologie della psiche individuale (dall’isteria alla melanconia, passando attraverso la mania e la schizofrenia), interpretate come reazioni patologiche all’assenza di una prospettiva di liberazione individuale dalle frustranti relazioni di potere in cui il soggetto è coinvolto; né soltanto per la lettura della megalomania e della paranoia come patologie tipiche del potere e dei suoi rapporti – reali e immaginari – con le masse alleate e con quelle nemiche. L’avversione di Canetti nei confronti della psicologia delle masse stilata da Freud era dovuta anche e soprattutto alla lettura radicalmente diversa dei processi di formazione di questo fenomeno enigmatico. A differenza di Freud, secondo Canetti le masse – anche quelle più autoritarie e masochistiche – conservano una certa dose di autonomia dagli individui che si collocano a capo di esse. Questa diagnosi consente di analizzare l’altra faccia del consenso, che oltre a essere miticamente costruito dai protagonisti della scena pubblica viene anzitutto raccolto da chi aspira a ottenerlo: detto altrimenti, la massa aizzata contro gli immigrati che ha eletto Trump esisterebbe anche senza Trump.

La mediocrità paranoica di un megalomane pragmatico

Come ha recentemente suggerito Chiara Bottici, per stilare una diagnosi critica delle elezioni americane si può partire da dei sintomi discorsivi e comportamentali capaci di restituire un quadro clinico completo1. Rispetto ai primi, un buon punto di partenza è offerto dallo slogan mitopoietico adottato da Trump durante la sua campagna elettorale: «Make America Great Again».

Anzitutto, il riferimento all’“America” tradisce la volontà di Trump di richiamarsi a un’unità spirituale della nazione americana, identificata in una classe media notevolmente impoveritasi dopo la crisi economico-finanziaria del 2007. All’individuazione di questo soggetto politico si accompagna una deriva ideologica ben precisa, sintetizzabile nella formula coniata da Rahel Jaeggi – ma risalente alla critica marxiana dell’ideologia borghese – della «generalizzazione di interessi particolari»: tale strategia discorsiva consiste nel rappresentare gli interessi particolari di una classe come se fossero il vettore degli interessi generali della popolazione americana2.

L’individuazione del soggetto politico e le annesse derive ideologiche preludono all’individuazione di un nemico comune, identificato in coloro che, pur risiedendo in America, non discendono da comuni radici spirituali. Il dispositivo mitico di questo processo è l’avverbio Again, che presuppone un passato glorioso andato perduto e, al contempo, richiama l’ambizioso tentativo di ripristinarlo. È questo uno dei principali effetti secondari dell’attuale accelerazione dei ritmi di vita3: lungi dal condannare il futuro a diventare un ricordo del passato, questo processo schiaccia il presente su se stesso e circoscrive la ricerca di un’alternativa utopica in senso retrospettivo anziché prospettico. Il riferimento a una tradizione gloriosa andata perduta e da recuperare non è certo inedito; nuova, però, sembra essere la moltiplicazione dei nemici immaginari resa possibile da questo riferimento a un passato che si vorrebbe far tornare: questa perdita è il dispositivo implicito che consente di dare la caccia ai (presunti) colpevoli della situazione critica in cui ci si è venuti a trovare. Incapaci di elaborare il lutto, coloro che si riconoscono nelle parole d’ordine di Trump finiscono per imboccare una spirale paranoica: una volta disgiunto il male da sé, è possibile proiettarlo sull’Altro (non a caso, Lacan aveva definito la paranoia come un «rovesciamento del lutto»).

In questo modo si verifica un processo di soggettivazione distorta delle cause della crisi: anziché essere criticamente vagliate e ricondotte a processi pluridecennali di deregolamentazione dei mercati finanziari, al meccanismo delle “porte girevoli” tra finanza e politica o, ancora, agli elementi di instabilità strutturale propri del finanz-capitalismo4, la crisi in cui è piombata la classe media americana è imputata agli Altri, siano essi interni (i politici di professione, democratici o repubblicani), esterni (i cinesi) o coloro che minacciano di dissolvere questa stessa distinzione fra interno ed esterno (i migranti messicani) e, con essa, la coesione spirituale degli Stati Uniti (gli immigrati di fede musulmana).

Durante la campagna elettorale Trump ha riprodotto fedelmente una delle principali derive paradossali assunte dalle rappresentazioni pubbliche delle élites dopo la crisi: auto-rappresentandosi come un membro della classe media (non va dimenticato il rifiuto di rivelare a quanto ammontino i suoi redditi), Trump ha imboccato una deriva vittimaria. Nel suo caso, la colpevolizzazione di innocenti – immigrati e musulmani in primis – è il dispositivo mitico che consente di assolvere i responsabili della crisi, che non a caso sono stati prontamente reclutati nella nuova amministrazione subito dopo la vittoria elettorale5. All’indomani delle elezioni, una nuova categoria di nemici pubblici è stata chiamata in causa dal presidente eletto, che alle critiche o alle domande della stampa ha reagito imputando ai giornalisti il disappunto e il dissenso di quei cittadini americani che non sono stati convinti dall’irresistibile forza attrattiva di queste ripetute caccie alle streghe. Come aveva notato Elias Canetti e come ha recentemente ricordato Luigi Zoja, questo processo di esternalizzazione o proiezione della colpa è tipico di ogni forma paranoica di potere6.

I rassicuranti processi di colpevolizzazione veicolati dalla paranoia politica, però, non sono sufficienti a spiegare quanto accaduto. A questa patologia distruttiva si accompagna una caratteristica molto più vistosa, edificante e, proprio per questo, incoraggiante: la megalomania. I sogni di grandezza di Trump trapelano non solo dai ripetuti riferimenti linguistici all’aggettivo “grande”, dalla mimica ingombrante delle sue mani, ma anche dalle dimensioni del simbolo principale della sua campagna, la Trump’s Tower, rappresentazione plastica della sua retorica fallocentrica e della potenza delle sue aziende7. A differenza dell’urbanistica totalitaria, quella neoliberale sviluppa verticalmente le macroscopiche ambizioni di potere che incarna a livello spaziale8. I vetri dei grattacieli inoltre riflettono la tipica tendenza paranoica di un potere che intende vedere senza essere visto: se l’altezza è la vocazione dei megalomani, la trasparenza è l’ossessione dei paranoici. Entrambe trovano una sintesi spaziale nel principale simbolo collegato alla campagna elettorale di Trump9.

Lungi dal veicolare un’idea di grandezza vera e propria, la megalomania di Trump è fortemente intrisa di mediocrità alla base e al vertice delle relazioni di potere che consente di instaurare. Per un verso, la grandezza viene anelata proprio da chi si sente piccolo: non a caso, in un paragrafo di Massa e potere appositamente dedicato alla megalomania, Canetti aveva indagato questa aspirazione tipicamente politica a partire dai sogni di grandezza dei paralitici10. Oltre ad andare di pari passo e a essere potenziato da disuguaglianze economiche e sociali che limitano notevolmente la mobilità sociale, questo senso di piccolezza è ulteriormente acuito dalla mancanza di filtri cognitivi e politici capaci di mediare la comprensione e l’azione di concerto in un mondo complesso, che sfugge agli addomesticamenti ideologici del passato come agli attuali tentativi xenofobi, razzisti, sessisti e classisti di semplificazione, ponendo nuove sfide a chi tenta di ricondurne la molteplicità dei frammenti a una qualche unità.

Dopo il trionfo delle ideologie, siamo ora passati al successo del pragmatismo senza idee, come dimostra il verbo adottato da Trump per il suo slogan: «Make». Questo pragmatismo frammenta la complessità del reale in una moltitudine di problemi; una volta isolati gli uni dagli altri, i problemi appaiono più facilmente risolvibili attraverso soluzioni ad hoc. L’immigrazione (anziché la crisi economico-finanziaria nata dai mutui subprime) è un problema che aggrava la disoccupazione degli americani? Basterà erigere dei muri per risolverlo. Anziché dividere la torta della ricchezza per redistribuirla anzitutto a partire da misure volte ad aumentare i salari, creare posti di lavoro e abbattere i tempi di lavoro, si punta sulla riduzione del numero degli invitati a tavola, ovvero dei disoccupati che aspirano a trovare un’occupazione per poter vivere. La semplificazione della realtà passa attraverso la sua frammentazione e l’isolamento reciproco delle componenti così ottenute.

A questo processo di semplificazione cognitiva sono direttamente connesse le istanze politiche di coloro – fra cui lo stesso Trump – che si auto-rappresentano come i profeti dell’ormai avvenuto superamento della contrapposizione fra destra e sinistra. Non a caso, Trump è riuscito a presentarsi come un candidato alternativo tanto a Hilary Clinton quanto all’establishment del partito repubblicano. Per risolvere i problemi di cui è pieno il mondo, sarà sufficiente la volontà politica. Da questo punto di vista, Trump importa nel lessico politico una formula neoliberale improntata al «volontarismo magico», quanto mai diffusa nelle aziende in cui ha ormai attecchito il cosiddetto nuovo spirito del capitalismo11. Se “volere è potere”, non sono richiesti profeti né – tanto meno – minoranze o maggioranze organizzate di particolare caratura morale o intellettuale per affrontare le sfide del presente. Possono bastare anche uomini medi, per l’appunto12.

Qui la megalomania e il senso di onnipotenza che ne consegue si innestano sulla mediocrità13: oltre a rivolgersi alla classe media, Trump si rivolge all’uomo medio. Già Canetti, del resto, aveva scorto nel diffuso senso di impotenza il principale capitale emotivo investito nelle filiali politiche del risentimento del suo tempo: «Sembra che una vera e propria volontà di essere schiavi spinga, giacché di per se stessi non si è nulla, a finire entro un ventre possente. Non si sa ciò che veramente accada, né quando accada; altri possono avere la precedenza nel mostro. Si attende devoti, si trema, e si spera d’essere la vittima prescelta. In questo comportamento è lecito riconoscere un’apoteosi del segreto. Tutto è subordinato alla glorificazione. Non importa ciò che accade, se accade con la rovente fulmineità di un’eruzione, inattesa e inarrestabile»14.

Verso una nuova forma di neoliberalismo autoritario?

Rispetto ai comportamenti seguiti alla vittoria di Trump, è possibile registrare alcuni cambiamenti avvenuti nel lessico politico, trasversali ai suoi sostenitori e oppositori: l’atmosfera funebre degli oppositori, l’identificazione nel leader da parte dei suoi sostenitori e un lessico sentimentale incentrato sulla coppia “amore e odio” tradisce un’inedita personalizzazione del conflitto politico.

C’è però una novità rispetto al passato, che consiste nel connubio perverso fra nazionalismo aggressivo e un’istanza neoliberale come lo spirito competitivo, richiamato dall’abbigliamento sportivo e dalla costante auto-rappresentazione di Trump nei termini di un coach. Non va dimenticato, infatti, che Trump fu il protagonista principale del programma «The Apprentice», dove il boss ricopriva il ruolo di una vera e propria levatrice dei talenti nascosti dei candidati manager delle sue aziende. Dal progressivo declino dell’uomo pubblico e dai processi neoliberali di aziendalizzazione della vita privata siamo così passati all’aziendalizzazione della vita pubblica.

A ben vedere, non si tratta di fenomeni del tutto inediti (il berlusconismo italiano è una sorta di anticipazione su scala ridotta del trumpismo americano). L’elemento innovatore risiede non solo nell’aver combinato due tendenze apparentemente inconciliabili come nazionalismo aggressivo e spirito neoliberale. Da questo punto di vista, Trump obbliga a differenziare ulteriormente la diagnosi del neoliberalismo nei termini di un connubio tra istanze emancipative e mercato subentrato a quello fra protezione sociale e mercato tipico dell’era dei Welfare State democratici, secondo la definizione fornita da Nancy Fraser e mutuata dal doppio movimento descritto da Karl Polanyi15. Da questa svolta discendono le promesse – reciprocamente incompatibili – di affossare l’Obama Care, di abbassare le tasse ai ricchi, di costruire un muro al confine col Messico, di introdurre dei dazi e di dar vita a un nuovo New Deal. Protezionista in rapporto al mercato globale, liberista nei confronti del sistema di protezione sociale interno: mi sembra che questo sia lo specifico di Trump. Le eventuali sorprese, semmai, arriveranno sul fronte dei temi etici, che vedono un edonista narcisista alle prese coi Teocon. Di certo in luogo dei probabili tradimenti delle promesse democratiche formulate da Clinton, la critica democratica dovrà ora fare i conti con il rischio che Trump mantenga le sue promesse autoritarie.

1 D’ora in avanti, seguirò alcune delle riflessioni riportate da Chiara Bottici, in The Mass Psychology of Trumpism. Old and New Myths, consultabile al sito http://www.publicseminar.org/2016/11/the-mass-psychology-of-trumpism/#.WLREL5Tas8o

2 R. Jaeggi, «Che cos’è la critica dell’ideologia», in Id., Forme di vita e capitalismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, pp. 61-89.

3 Cfr. H. Rosa, Beschleunigung und Entfremdung: Entwurf einer kritischen Theorie spätmoderner Zeitlichkeit, Frankfurt, Suhrkamp, 2013; tr. it. di E. Leonzio, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Torino, Einaudi, 2015.

4 Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011.

5 Si tratta di due tendenze tipiche dell’ipocrisia politica di stampo neoliberale, che consta di strategie di immunizzazione critica dei responsabili dell’ingiustizia.

6 Cfr. L. Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011.

7 A differenza dei simboli di massa naturali chiamati in causa da Elias Canetti per designare particolari unità collettive avvertite come massa, la Trump’s Tower rappresenta un simbolo artificiale di massa che veicola un’identificazione di individui medi massificati. Diversamente dai cristalli di massa, che designano un gruppo ristretto di uomini chiaramente riconoscibile per la sua coesione e unità, i cosiddetti simboli di massa designano delle unità collettive non composte da uomini e, ciononostante, sentite come massa, cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg, Claassen, 1960; tr. it. di F. Jesi, Massa e potere, Milano, Adelphi, 2006, p. 90: «Tali unità sono il grano, la foresta, la pioggia, il vento, la sabbia, il mare e il fuoco. Ciascuno di questi fenomeni contiene caratteristiche essenziali della massa» e «sta simbolicamente al suo posto nel mito e nel sogno, nel discorso e nel canto. […] Un loro esame approfondito può sembrare, a prima vista, non appropriato al tema. Vedremo però che così sarà possibile avvicinare la massa stessa in modo nuovo e fruttuoso. L’osservazione dei suoi simboli fa cadere su di essa una luce naturale; sarebbe sciocco chiudersi dinanzi a tale luce».

8 Marco D’Eramo ha intravisto nella tendenza delle metropoli contemporanee a espandersi verso l’alto una testimonianza spaziale emblematica della megalomania biopolitica del capitalismo: se i grandi spazi aperti delle città ideate da Hitler dovevano fungere da culla e, al contempo, da contenitori delle masse asservite al regime, i grattacieli che oggi «raschiano il cielo» delle città globali rappresentano plasticamente l’atomizzazione delle relazioni fra i loro abitanti e la verticalizzazione della megalomania dei loro titolari: cfr. M. D’Eramo, Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 63-89.

9 E. Canetti, Die Provinz des Menschen. Aufzeichnungen 1942-1972, München, Hanser, 1973; tr. it. di F. Jesi, La provincia dell’uomo, Milano, Adelphi, 2006, pp. 60-85.

10 Un tema, questo, anticipato in forma letteraria dalla descrizione grottesca del nano Fischerle, uno dei personaggi del romanzo Die Blendung che nel 1981 valse il premio Nobel per la letteratura a Elias Canetti.

11 Cfr. L. Boltanski, É. Chiapello, Le nouvel ésprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999; tr. it. di M. Schianchi, revisione di M. Guareschi, Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014.

12 L’Italia non è certo immune da processi analoghi: anziché puntare (solo) sulla retorica dell’uomo medio, che finisce per trasformare l’ignoranza in una virtù da rivendicare contro l’arroganza di certi “professoroni” o tecnocrati, alcune forze politiche hanno sostituito al gergo dell’autenticità quello (apparentemente) post-ideologico dell’onestà, come se il rispetto delle leggi vigenti fosse una virtù necessaria e sufficiente per imprimere una svolta democratica alla vita pubblica del paese.

13 Cfr. A. Denault, La médiocratie, Lux, 2016; tr. it. di R. Boi, La mediocrazia, Milano, Neri Pozza, 2017.

14 Canetti, Massa e potere, tr. it. cit., p. 357.

15 Cfr. N. Fraser, A Triple Movement? Parsing the Politics of Crisis after Polanyi, in «New Left Review», 81, 2013, pp. 119-132.