di Massimo Jasonni

Ci sono categorie storiche che possono ben essere fatte oggetto di una semplificazione che mira a ricondurle ai loro minimi termini: questo vale, per esempio, per il Settecento o, in parallelo, per il pensiero illuministico, cui si è soliti ricorrere dimenticando che non esiste un Settecento, o un singolo flusso del pensiero illuministico, ma la storia testimonia, come acutamente ricordava Gómez[1], la molteplicità dei Settecento e il variegato disporsi delle filosofie dei lumi[2]. Niente di male in tutto ciò, perché l’aspirazione alla sintesi può trovare giustificazione nel fine didattico o in un disegno espositivo di estrema concisione.

Vi sono casi, viceversa, in cui le epoche storiche sono talmente protratte nel tempo e si rivelano così complesse nel corpo del loro intrinseco sviluppo da non consentire di farne un “liofilizzato”. Così è stato, nei giorni scorsi, per il termine Medioevo, improvvidamente affibbiato da taluni esponenti del nostro misero mondo politico – e da qualche giornalista eccitato da un possibile incremento dell’audience – al Congresso mondiale della famiglia, esauritosi domenica scorsa a Verona. La Lega ne ha fatto, qua e là, una bandiera a suo dire eretta contro l’oscurantismo; il M5S si è addirittura spaccato al suo interno, dividendosi tra chi a quel festival nemmeno consentiva si portasse un saluto e chi ha ritenuto corretto parteciparvi adesivamente, nel nome degli imperituri valori della famiglia. Anche al Pd non è parso vero per dimostrare il proprio vagabondaggio etico e culturale, prendendo per bocca di taluno le parti del felice universo del femminismo radicale e delle affettività omosessuali e, per bocca di altri, la veste di una conservazione quanto meno apparentemente sposa di un cattolicismo di segno controriformistico.

Il fatto è che la nozione Medioevo raggruma un’era dell’avventura occidentale estesa a macchia d’olio nel corso di svariati secoli e nelle più disparate bande d’Europa. Essa ha finito così per indicare un generico, plurisecolare percorso religioso e politico che si diparte dal tramonto dell’età classica per giungere sino agli albori della Modernità[3]. Vi è un «alto» medioevo e vi è un «basso» medioevo, vi è un medioevo «barbarico» e vi è un medioevo talmente prossimo al Rinascimento, da poter essere stigmatizzato dalla nouvelle histoire nello schema del «medioevo borghese»[4]. Ciò spiega perché i germogli, ma già i semi della fioritura medievale vadano retrospettivamente colti nel periodo classico e, più in particolare, nel mondo latino; spiega perché le fronde e i frutti – talora delizianti il palato, talora tossici – irrompano nell’umanesimo, sino a travolgere il pensiero dei lumi. Qualcuno addirittura avanzò l’idea, per il Settecento, che non si trattasse di un naturalismo felice, come più diffusamente si pretendeva, ma di «nozze nere» con la natura.

Per intenderci: Tommaso e la Scolastica rappresentano certo la quintessenza del medioevo, ma è anche vero che per comprenderli occorre affondare lo sguardo in Aristotele; ed è anche vero che essi perderebbero di senso se si dimenticasse che innervano di sé tanta parte del razionalismo e financo del positivismo moderno. Leggere Heidegger, per esempio, senza saperne nulla comporta un rischio di cecità.

I giuristi ne trovano riscontro: il diritto moderno non è comprensibile, nelle sue profondità, se non si risale, attraverso il diritto canonico, al diritto comune e, ancor più su, alle istituzioni romane.

Nelle arti e nella cultura, poi: che approccio sarebbe al medioevo quello che, reclamizzando streghe e torture, oscurasse Giotto e Dante e obnubilasse il metodo dialettico di insegnamento nelle Universitates?

Un consiglio, allora, a quei politici e a quei cavalcatori dell’attuale universo mediatico, che hanno fatto leva sul festival della famiglia per gridare allo scandalo o, non fa poi tanta differenza, per aderirvi acriticamente: si soffermino a Verona, ma per sedersi, all’ora del tramonto, sui gradoni di San Zeno. Potranno comprendere cosa intenda quel sommo studioso dell’età medievale, che è Étienne Gilson[5], quando dice che a sera le cattedrali si tingono di rosa.

[1] N. Gómez Dávila, Tra poche parole, Milano, Adelphi, 2007, p. 112.

[2] Cfr. I. Calvino, «Candide o la velocità», in Id., Perché rileggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 125.

[3] Cfr. E. Bréhier, La filosofia del Medioevo, Torino, Einaudi, 1980.

[4] Cfr. J. Le Goff, L’uomo medievale, Roma-Bari, Laterza, 2000.

[5] É. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, Firenze, La Nuova Italia, 1978, in particolare, p. 903 ss.