populismdi Mario Pezzella

Le ultime elezioni sembrano confermare le tesi di Ernesto Laclau, per il quale l’unico orizzonte della politica è il populismo, in diverse varianti e in contesa egemonica tra di loro. In effetti Laclau pensava che fossero quattro le caratteristiche fondamentali di un movimento populista: la crisi dell’ordine simbolico democratico, l’identificazione di massa con l’Io ideale incarnato dal Capo, la costituzione di un “altro”, come nemico esterno del popolo, la capacità di comporre almeno provvisoriamente in unità domande e critiche apparentemente incompatibili.

I principali contendenti delle elezioni italiane rientrano tutti in questo contesto. Sui migranti, per esempio, e dunque sulla frontiera da stabilire tra noi e loro, tra Minniti, Berlusconi, Di Maio e Salvini c’è solo una differenza di grado e di modalità, ma non di principio. Tutti personalizzano e incarnano il proprio movimento nella figura di un capo e accettano una logica sociale gerarchica e piramidale. Tutti si muovono in un’ottica di critica della finanza e non del capitale. Tutti per altro presentano un lato vagamente grottesco, perché lo sproloquio decisionista mal cela una reale impotenza di fronte ai poteri economici transnazionali. Stanno lì per rappresentare la democrazia, non per esercitarla, e del resto la novità emergente è un ibrido populismo governamentale, che assume forme protestatarie, ma agisce in effetti a favore dell’establishment capitalista. Il caso più eclatante è Macron in Francia, ma Salvini e Di Maio in genuflessione davanti agli industriali a Cernobbio e sdoganati di recente dal capo di Confindustria vanno nella stessa direzione.

Una prospettiva di democrazia insorgente, orientata verso il socialismo, è il loro vero nemico, perché sconvolge il quadro unanimista del Popolo-Uno, riproponendo il conflitto sociale e una critica di sistema. L’antipolitica si dispone al compromesso con i grandi decisori delle banche centrali: i quali a loro volta si rendono conto di non poter governare direttamente con i memento mori delle trojke e dei Mario Monti e concederanno qualche brioche volante al popolo sovranizzato (per esempio un reddito di cittadinanza minimo per gli indigeni nazionali e una certa salvaguardia di quel che rimane del Welfare; escludendo ben inteso i nuovi senza parte oltre muri invalicabili). Una moderata mescolanza di Welfare, autoritarismo e disprezzo per l’altro era del resto presente già nel fascismo storico e non stupisce che si manifesti nelle sue edulcorate forme attuali, come quella incarnata dalla Lega.

Da una prospettiva di democrazia insorgente è purtroppo assai lontano anche «Liberi e Uguali». Si sono timidamente proposti come il populismo di sinistra, auspicato da Laclau e Mouffe, ma ci sono tra loro troppi quadri di partito per andare decisi in questa direzione: è un populismo timido e gravato da sensi di colpa. Come la mano del dottor Stranamore, il loro cuore batterebbe per un buon vecchio partito, ma sanno che è ormai impresentabile. Tra le loro fila hanno D’Alema, il guerriero di Belgrado, mentore politico di Minniti, e molti ex quadri dirigenti del Pd, veri responsabili della svolta neoliberista della sinistra italiana e della vittoria di Renzi. Quadri di partito, che hanno cercato di darsi una verniciata di populismo, eleggendosi anche loro un capo (carismatico?) come Grasso, né di destra né di sinistra, come lui stesso dice, e un programma che sembra occhieggiare a un nostalgico sovranismo, come quello proposto da Fassina: senza rendersi conto che il tempo degli Stati-nazione, anche quelli socialdemocratici, è finito e occorre invece muoversi verso un diverso concetto di federalismo sovranazionale e di critica del capitale, a livello europeo.

È ancora troppo presto per dire se «Potere al popolo», nato tardi e senza alcuna visibilità mediatica, possa costituire un’alternativa per il futuro. Il termine “popolo” è ovviamente ambiguo; quadri di piccoli partiti sono presenti anche al loro interno. Ma c’è anche, soprattutto nei più giovani, la ricerca e la speranza di un processo decisionale che parta per federazione di realtà di base, che conferisca deleghe provvisorie e revocabili, che non si cristallizzi nella figura di un capo decisionista: che insomma si muova verso una forma di organizzazione politica alternativa alla macchina dei partiti, al populismo acclamatorio, e anche all’assemblearismo puro e destinato a dissolversi alla prima onda di riflusso.

In apparenza queste elezioni pongono di fronte a una scelta radicale e inevitabile: o con la tecnocrazia economico-finanziaria di Bruxelles o con i movimenti sovranisti, che rivalutano lo Stato-nazione. Questa è per esempio l’idea di Santomassimo, che, sulla prima pagina de «il manifesto» (11.03.2018), si schiera decisamente con la seconda ipotesi, invoca un populismo di sinistra simile a quello di Melenchon, e afferma che ormai il Manifesto di Ventotene è solo un «documento imbarazzante». Il populismo di sinistra intende proporre contenuti politici diversi da quelli considerati di destra: e tuttavia suppone anch’esso una struttura gerarchica del sociale, che non può fare a meno di identificarsi col corpo e col nome del capo, con la volontà autoritaria di ricondurre a unità i conflitti e gli interessi divergenti. Questa prospettiva è molto lontana da una democrazia insorgente – orientata verso un socialismo consiliare e partecipato – e più simile alla statolatria dei sistemi del socialismo reale, di cui conosciamo gli esiti infelici.

Criterio di giustificazione del populismo (anche di quello “di sinistra”) resta pur sempre la sua efficacia nello stabilire un ordine sociale, assumendo implicitamente che tale sia l’unità di misura di ogni agire politico, non diversamente da quanto già sosteneva C. Schmitt negli anni trenta. I conflitti sociali sono ridotti a eterogeneità in competizione. A questa struttura che rischia di slittare comunque verso un ordine autoritario e negatore delle differenze, i sostenitori del populismo di sinistra cercano di porre riparo distinguendo un populismo dispotico-narcisista da quello fraterno-egualitario (termini anche questi di Laclau-Mouffe). Ma l’intera storia dei regimi totalitari o semplicemente autoritari del Novecento dimostra che lo slittamento dal secondo al primo è un fenomeno inevitabile, se permangono a livello simbolico e psichico profondo le strutture di una società gerarchica e fusionale.

Continuo a credere, anche se mi rendo conto dell’inattualità di una simile convinzione, che, per opporsi al potere economico-globale del capitale attuale, occorra un movimento antagonistico di livello sovranazionale, una concezione alternativa dell’Europa, una ripresa positiva e non regressiva del federalismo che decentri il potere degli Stati-nazione: soprattutto occorre riproporre una critica complessiva e articolata delle forme di vita e di potere del capitale. L’internazionalismo della tradizione storica socialista si oppone ovviamente a qualsiasi forma di razzismo, di rapporto escludente noi-gli altri: almeno questo dovrebbe essere un punto discriminante di ogni pensiero critico dell’esistente, la distanza non valicabile dal neofascismo.