di Massimo Jasonni

Visionari e apocalittici di ordinaria follia è l’intitolazione di una mostra che il Comune di Cervia ospita alla Torre dei Magazzini del Sale dal 19 luglio al 18 agosto 2019. La manifestazione, supportata dalla Cna di Ravenna e introdotta da un catalogo del curatore Claudio Spadoni, si segnala per una serie di ragioni, non ultima tra le quali la raccolta delle esperienze più significative dell’avventura pittorica della Romagna del tardo Novecento e a cavallo tra i due secoli. L’aspirazione consiste nell’esplorare una tradizione artistica, quale quella che viene dalla “perdurante follia” della gente di qua e porta all’esposizione di molte belle tele, che in tempi di dilagante abbrutimento dei costumi confortano.

In effetti, la raccolta è coraggiosamente tematica, perché affronta il motivo di quella oraziana, amabilis insania che spinge l’uomo, rivendicando una sua ragione interiore o una sua insopprimibile, arcana necessità a pittare il mondo che lo circonda e, di riflesso, il proprio animo.

Qui nasce il problema, che Spadoni si guarda bene dall’eludere, ma anzi affronta a viso aperto: esso sta – oggi, ovvero in un’età tecnocratica che desertifica la cultura e tende alla generale mercificazione – nel verificare a quali tracce del recente passato vada riconosciuta una ribellione al Postmoderno capace di imporsi poeticamente.

Il primo nome che compare, e vorrebbe dirsi naturalmente, è quello di Mattia Moreni: un “matto romagnolo” protagonista di indiscussa vicenda pittorica, alta e tutta tesa alla premonizione di un’apocalisse genetica che anestetizza l’essenza dell’Essere dell’uomo. Tanto da potersi assistere, nell’ultimo Moreni, a «un’epopea del tragico che vira nel grottesco», ma senza che questo mai ostacoli la profezia, a forti tinte heideggeriane, di un collasso di civiltà.

A fianco, quasi per ostentata sottolineatura dell’alterità, Spadoni pone i nomi di Ronchi e di Sartelli: il secondo, una perla – per dirla con Arcangeli – del connubio tra genio naturale e capacità di sperimentazione, piegato al recupero della più umile materia alla volta del riscatto estetico dal male di vivere; il primo, un anarcoide in sfida con ogni convenzione e, soprattutto, con le convenzioni di ordine borghese.

Sin qui la rassegna si tinge di una limpida, nostalgica memoria di figure scomparse, ma ben viva negli spiriti amanti delle arti figurative. Emergono poi i nomi di pittori nel pieno di attività: Giovanni Fabbri, Eron, Chiara Lecca, Gian Ruggero Manzoni, Luca Piovaccari. Fabbri viene da una doppia, in un caso e nell’altro potente, scuola: quella di Umberto Folli, di cui all’Accademia di Ravenna fu allievo tra i prediletti, e quella insita in una tradizione contadina, gelosamente custodita. Il tempo di Giovanni Fabbri raccoglie in sé la disperata difesa della terra, costretta da un universo industriale e finanziario prima alla sovrapproduzione, poi a una sorta di rendita pensionistica, umiliante gli agricoltori, e in qualche modo parallela all’obnubilamento dei dialetti. Ma è anche il tempo memore: conscio, per un verso, del dramma delle deportazioni di massa e dei bombardamenti ciechi sulle città che hanno ammorbato il Secolo Breve; per altro verso, mai dimentico della nobiltà dei destini che hanno illustrato la storia delle arti in Occidente.

Anche Eron si esprime in un’oraziana insania, spaziante tra le più diverse pratiche, per rievocare memorie di opere del passato come presenze reali, capaci di condurci a un riesame della cause dell’attuale confusione tra cronaca e storia, tra esistenza reale e mistificazione comunicativa. Anche Chiara Lecca sta in quest’ordine di radicale, per evocare la filosofia tedesca, spaesamento: essa compone nature morte “doppie”, forti e concrete e tuttavia esito dell’uso di materiali inquietanti, quali elementi organici o parti di animali. In questo caso l’originaria insania sembra tradursi in un urlo.

Ultimi, ma non meno importanti nell’obiettivo della ricomposizione di un’affine sensibilità apocalittica, Gian Ruggero Manzoni e Luca Piovaccari. L’impianto normativo di Manzoni è immaginifico: torna al gesto infantile, ma vi riconnette una cura adulta e un’esperienza descrittiva, arricchite dalla polivalente natura di pittore e di scrittore. Così si esce – ci suggerisce Spadoni – dall’ordinaria routine dei giorni nostri e si conquista una dimensione finalmente epistemica. Diversa la “penna” di Luca Piovaccari, e pur analogamente protesa alla denuncia angosciata di un’assenza che si configura non solo come astratta crisi delle metafisiche, ma anche come concreto degrado di una politica incapace di gestire i processi sociali e di porre un freno alla devastazione della natura.