[Le nostre ragioni di un no. Altri interventi di Paolo Bagnoli, Luca Baiada, Francesco Biagi, Lanfranco Binni, Gian Paolo Calchi Novati, Rino Genovese, Ferdinando Imposimato, Massimo Jasonni, Mario Monforte, Tomaso Montanari, Mario PezzellaMarcello Rossi, Giancarlo Scarpari, Salvatore Settis, Angelo Tonnellato, Valeria Turra]

Non so se andrò a votare al referendum costituzionale, se lo farò voterò no, per alcuni motivi anche estranei ai contenuti sottoposti al vaglio dei cittadini elettori. Il primo motivo è di natura estetica, ma non per questo futile: trovo intollerabile che si ammassino in un referendum onnicompresivo elementi eterogenei, secondo lo stile invalso nelle cosiddette leggi di stabilità, in cui si può trovare di tutto e il suo contrario. Qui gli elettori debbono pronunciarsi sull’abolizione del Senato, che però non verrà abolito, sulle regioni, che, rovesciando la precedente riforma costituzionale, verranno severamente punite, ma non quelle a statuto speciale che conservano intatti i loro privilegi, sull’abolizione del Cnel, di cui da tempo si erano perse le tracce, e così via.

Il secondo motivo attiene all’insoddisfazione in quanto consumatore obbligato della comunicazione politica, a cui è impossibile sottrarsi se non abbandonando il consesso civile, scelta forse salutare ma non alla mia portata. Il cittadino consumatore è insoddisfatto perché l’attuale governo e leadership, dopo aver puntato tutto sul referendum come una sorta di giudizio di Dio che doveva consacrare definitivamente una leggittimità incerta, stanno cambiando continuamente posizione e atteggiamento, ne stanno procrastinando il più possibile l’effettuazione, negano di aver mai promesso di andarsene in caso di sconfitta del sì.

Suscita poi profonda irritazione lo schieramento totalitario per il sì dei grandi mezzi di comunicazione, della grande (?) industria, delle grandi banche, così come la recente presa di posizione dell’ambasciatore statunitense, voglioso di rinverdire la settantennale politica di ingerenza dei suoi predecessori.

È infine decisamente grottesco il terrorismo mediatico sulle conseguenze funeste per il bene del paese che avrebbe un eventuale successo del no, con conseguente fuga di capitali all’estero e perdita di succose occasioni di affari con la finanza mondiale. In tal modo lo stile di governo, incarnato dal suo capo, che così ampio consenso ha incontrato negli ambienti imprenditoriali, si sta rovesciando nel suo contrario, non più decisione, rapidità, chiarezza di enunciati, slogan incisivi, tirando dritto verso l’obiettivo, ma all’opposto un andamento ciclotimico dall’esaltazione della vittoria sicura alla lamentela per il moltiplicarsi degli avversari, e con unica coerenza: evitare di far capire agli elettori su cosa effettivamente saranno chiamati a votare, al momento non si sa ancora quando.

Un ulteriore motivo di opposizione alla riforma costituzionale voluta dal governo non riguarda direttamente il merito del megaquesito sottoposto agli elettori ma la cultura politica che ne ha guidato la formulazione e ancor più le motivazioni e i valori di fondo. Tutto questo è riassumibile in un unico obiettivo che, si dice, verrà sicuramente raggiunto se vinceranno i sì. Si tratta di mettere la politica e le istituzioni al passo con la velocità dei cambiamenti che con moto accelerato investono la società, sospinti dall’innovazione tecnologica. Si tratta di correre, scattare, accantonare vecchi riti e formalismi, proiettarsi nella rete, decidere in tempo reale a colpi di tweet. Su questo terreno, apparentemente, il governo non ha oppositori seri: o arrancano sulle stesse traiettorie denotando una evidente subalternità, o, come nel caso della maggiore forza di opposizione, un post-partito senza eguali al mondo, propongono di scavalcare la prefigurata democrazia del capo con una inedita democrazia virtuale istantanea, cioè con il massimo di aderenza alla tecnosfera digitale.

La proiezione sul futuro, in realtà un futuro presente che si consuma nell’immediatezza, non è certo nuova, anzi è la più vecchia delle retoriche della modernità novecentesca, che proprio in Italia ha avuto il suo epicentro con il futurismo, battistrada ideologico, grazie alla guerra, del fascismo. Eppure tutto questo correre non solo non porta da nessuna parte ma non riesce neppure a coinvolgere gli elettori che stanno defezionando in massa non solo dai partiti ma anche dalle elezioni. È possibile, o almeno augurabile, che essi abbiano bisogno di una politica molto diversa da quella in campo, che non a caso viene unanimemente considerata scadente (e le prove empiriche davvero non mancano). Una politica che abbia una visione prospettica del futuro; ma a questo fine non serve rincorrere la corrente o cercare di restare sulla cresta dell’onda; molto più importante è riconquistare il rapporto con il proprio passato, con la propria storia.

Gli italiani sono invece un popolo di smemorati, e le giovani generazioni, per responsabilità di quelle adulte e anziane, lo sono in sommo grado. Se così non fosse il governo, questo governo così convintamente e esteticamente giovanilista, non avrebbe commesso l’errore di camuffare il referendum da plebiscito, quasi provocatoriamente rievocando i sì totalitari del sempre verde ventennio nero. Ma su questo terreno può stare tranquillo la memoria in Italia viene concordemente mummificata sia dai cultori che dai detrattori. L’inertizzazione della memoria mina alla radice la forza vitale degli individui e dei popoli perché «nella memoria c’è una forza di resurrezione, la memoria vuol vincere la morte» (N. Berdjaev). Non chiediamo tanto, solo sperare che per una volta gli italiani ricordino alcune tappe cruciali della loro storia recente e non ripetano gli errori del passato, rimediando anche all’errore che di sicuro ha già commesso il governo dividendo il paese, usando le riforme costituzionali a fini impropri di autopotenziamento, forse senza nemmeno riuscirci.