Sienadi Roberto Barzanti

Anche Siena, la roccaforte rossa per eccellenza, è caduta. Molti giornali si sono sadicamente divertiti a descrivere in chiave simbolica la disfatta del Pd e alleati al ballottaggio del 24 giugno in una città tradizionalmente governata dalle sinistre. Perfino Siena!

Chi conosce da dentro le vicende della città sa che l’egemonia esercitata – non usurpata – da comunisti, socialisti e indipendenti di estrazione liberal-democratica, non è stata poi così solida e lineare come si vuol far credere. Nel dopoguerra si sono avute ben tre cesure commissariali al Comune: è stata la provincia, la campagna, a salvare la città. Il processo di inurbamento a fine anni cinquanta produsse una condizione durata a lungo grazie all’equilibrio e alla misura con la quale il ceto dirigente seppe costruire un sistema di sottili equilibri e ragionevoli convergenze. La sinistra seppe fare i conti con un moderatismo non arcigno e vinse battaglie restate storiche, quelle sì.

Siena è stata una città all’avanguardia nella tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico. Non ha solo tramandato le forme di un insediamento urbano unico per continuità di tessuto e persistenza di soluzioni. Ha cercato – non sempre riuscendoci – di dare servizi diffusi e discreta qualità. Ma in primo piano, per valutare i risultati del 24 giugno, occorre mettere la tempesta tutta politica che si è abbattuta sull’Italia: un centrosinistra incerto e debole non è riuscito ad arginare un centrodestra intollerante e becero. In sintonia, del resto, con tendenze laceranti che stanno sconvolgendo tutta l’Europa.

Non è il caso qui di abbozzare un’analisi che implicherebbe un discorso esteso. Tuttavia qualcosa di più si poteva ottenere, solo che si fosse tratto indicazioni da alcuni semplici insegnamenti del passato. Il governo di Siena è stato strappato alla coalizione guidata dal sindaco uscente Bruno Valentini per un soffio. Il nuovo sindaco, presentatosi come “civico”, ma in realtà sostenuto da tutta la destra, perfino da «Casa Pound», ha incassato 12.065 voti (50,80%) contro Valentini, che si è attestato sul 49,20% (11.687 voti). Numeri da faida paesana, altro che tracollo epocale come la stampa si è affannata a scrivere. Bastava che gli elettori delle due liste della cosiddetta sinistra estrema votassero per il primo cittadino uscente, che il gioco al massacro non sarebbe riuscito. De Mossi si è affermato con un pugno di voti: neppure 400. Certo: i numeri non dicono tutto. Per spiegare come sono andate le cose bisogna anzitutto dire senza tentennamenti che il gruppo dirigente (?) locale del Pd le ha sbagliate tutte. Ha iniziato la campagna elettorale contro Valentini facendo balenare l’ipotesi di un listone civico privo di una minima concretezza. Ha evitato di organizzare le primarie – per quel che valgono – se non altro utili a mobilitare l’opinione pubblica e a coinvolgere nelle scelte anche cittadini non inquadrati nelle traballanti ma influenti formazioni lobbistiche più che partitiche. Ha poi ripiegato su Valentini che con suo personale impegno aveva messo su una lista, «In Campo», composta più che altro da dissenzienti del Pd. Al ballottaggio ha contratto un “matrimonio di convenienza” apparentandosi formalmente con una lista capeggiata dall’ex sindaco degli anni novanta, Pierluigi Piccini, che non aveva risparmiato critiche aspre contro l’amministrazione in scadenza.

L’apparentamento – l’unica strada da percorrere per tentar di evitare la débâcle – con «Per Siena» (il drappello, appunto, di Piccini) è apparso poco credibile. Chi ha studiato i flussi elettorali sostiene che almeno un terzo dei sostenitori del primo turno non hanno rinnovato alla lista il loro consenso. E anche diversi simpatizzanti per il Pd si sono tirati indietro. Un pezzo del Pd, anzi, quello guidato dall’ex democristiano Alberto Monaci, già presidente del Consiglio regionale toscano, ha esplicitamente appoggiato De Mossi. E la catena delle altre 11 liste non è stata da meno. La parola d’ordine martellante che ha ispirato la campagna del centrodestra a trazione leghista è stata quella del cambiamento. E le accuse al Pd sono state pesanti: non solo contestando l’attività amministrativa, ma evocando il pasticciaccio brutto del Monte dei Paschi. La responsabilità delle crisi della banca, che ha compromesso vistosamente l’economia senese, e non solo, è stata tutta addossata al Pd e il Pd non ha saputo mai rispondere con coraggio. Ha balbettato senza proporre un’analisi attendibile e comprensiva.

Le responsabilità sono riconducibili a molti soggetti e per capirle davvero occorre addentrarsi in manovre che chiamano in causa Bankitalia non meno di membri della finanza vaticana, in un quadrante internazionale vasto e intricato. La bibliografia al riguardo è cospicua e ha messo in risalto la tortuosità di una vicenda cruciale, che forse non sarà mai scandagliata in tutti i suoi risvolti. Il Pd non riuscì a cambiare passo dopo la trasformazione (1995) della banca da istituto di credito di diritto pubblico in Spa, esposta pertanto alle manovre di spregiudicati azionisti e occulti speculatori. Il ceto dirigente che il Pd ha designato, o indirettamente influenzato, non ha avuto la capacità di assicurare – per l’esiguo spicchio di potere in testa alla Fondazione Mps, per esempio – la nuova autorevolezza e le competenze che servivano. In questo corresponsabile alla pari con la componente ex democristiana e con gli esponenti di un anacronistico localismo che hanno osteggiato fin da subito, per questioni di nomine, l’avventura della giunta Valentini. La sciagurata acquisizione per un costo esorbitante di Antonveneta non fu avallata solo dal Pd. Tutti o quasi (nel 2007) salutarono lo sfondamento a Est come un saggio piano industriale. Faccio punto.

Ora, tornando al Comune e a quello che potrà oggi combinare, sarà dura. Il cambiamento sbandierato dalla destra non si concretizzerà affatto. Meglio: si cambierà in peggio, a quanto sembra ripescando un personale politico stagionato e tutt’altro che sconosciuto. Il Pd dovrà rinnovarsi integralmente, ma non si vede promuovendo quali forze. Le risse interne hanno ammorbato l’aria e quel che resta del partito non attira nessuno. Il factotum Lotti ha messo molta farina del suo sacco a ingarbugliare le cose.

Siena anno zero dunque? No di certo, se si saprà guardare oltre le aree di gruppi e gruppetti in perenne lotta tra loro e dare spazio a energie che non mancano e a risorse che attendono di essere più valorizzate. Siena dovrà mutare non il suo modello di società e di economia. I modelli in tempo così agitati non hanno stabilità e non sono un’ancora di salvezza. Gli elementi sui quali puntare non sono, però, misteriosi: la ricerca e l’industria in ambito biomedico, il grande patrimonio artistico, una produttiva alleanza città-campagna, e via dicendo. I programmi erano stesi anche con acume. Gli elettori hanno votato non discettando sui programmi futuri, ma inquieti o disperati per i disastri presenti. E non hanno avuto punti di riferimento saldi e convincenti. La città è spaccata, divisa a metà. Almeno quella fetta che s’è recata alla urne.

Per risalire la china ci vorrà tempo e costanza. La questione non riguarda certo questo o quel Comune. È in gioco il ruolo dell’Italia in un’Europa tanto distante dal disegno ambizioso spesso esaltato con acritico entusiasmo.