di Paolo Dusi
Nella consueta penuria estiva di eventi e nel languire del dibattito politico, i primi caldi hanno visto quest’anno affiancati in due occasioni i termini “politica” e “odio”.
Sotto un primo profilo, alcuni commentatori hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il confronto e lo scontro politici si sono sempre più personalizzati, passando da ciò che dovrebbe costituire analisi di temi culturali e di questioni politiche al braccio di ferro tra questo e quel personaggio della politica, con reciproco scambio di insulti, sarcasmi, insinuazioni.
Già da tempo si era dovuto rilevare come sempre più spesso l’avversario politico venga attaccato (e se possibile squalificato) denunciandone i difetti fisici, o la cosiddetta razza, o la appartenenza religiosa o l’età; addirittura con falsi spot e messa alla gogna basate su allusioni di carattere etico e sessuale. Si tratta di un piano inclinato destinato a essere sempre più ripido e incontrollabile, perché odio e rancore personale si alimentano di se stessi e, per esprimersi efficacemente, non possono che aumentare sempre di più il loro potenziale offensivo. Questa gravissima degenerazione della funzione di rappresentanza politica e parlamentare svela la miseria culturale e la bassezza morale dell’uomo politico e andrebbe severamente sanzionata, anche con la privazione della capacità di ripresentarsi alle elezioni politiche e di rappresentare chicchessia.
La questione è, come si vede, molto seria e meriterebbe approfondimento e analisi. Ma certo non ci si può ora limitare a una ingenua sorpresa: all’epoca della “caduta delle ideologie”, nell’improvvisato clima di generale entusiasmo, alcuni si chiesero con amara preoccupazione che cosa avrebbe riempito il vuoto che si era in tal modo creato. Ed era facile prevedere ciò che sarebbe avvenuto: in difetto di una nuova concezione della politica e della riscoperta di un’etica pubblica, tutto si sarebbe ridotto all’emergere delle personalità carismatiche, che avrebbero assoggettato (o tentato di assoggettare) i soggetti politici e le istituzioni esistenti e che avrebbero combattuto con ogni mezzo la personalità antagonista.
Il secondo profilo del rapporto tra politica e odio ha un rilievo più contingente e parziale. È stato introdotto da una domanda formulata da Massimo Recalcati su «la Repubblica» del 17 luglio 2017, seguita dagli interventi di altri commentatori politici: Qual è il peccato commesso da Matteo Renzi per avere attirato su di sé un odio così intenso?
Recalcati non si sofferma a specificare quali sarebbero le componenti di questo sentimento. Parla di qualcosa che costituirebbe reazione a «coloro che, dichiarandosi militanti di sinistra, osano introdurre dei cambiamenti che rischiano di minare alla base la sua identità ideologica»; di qualcosa che porterebbe a individuare in Renzi «l’incarnazione maligna di una eterogeneità che resiste a ogni assimilazione». È questo (l’autore lo rileva con stupore non privo di sospetto) che fa sì che «ogni atto, ogni pensiero, ogni gesto politico di Renzi sia sbagliato»; «che ogni sua opzione sia divenuta contraria al bene del paese e a quella del suo stesso partito».
L’autore parla soltanto dei sentimenti nutriti dalla sinistra ma in realtà ciò di cui si sta parlando riguarda una parte molto più ampia dell’opinione pubblica. Per quest’ultima bisogna fare ricorso ad altre motivazioni, perché quella attribuita da Recalcati all’identità politica ferita ovviamente non può risultare esauriente.
Resta comunque da capire come mai questa eterogeneità rispetto alla sinistra, esplicita e spesso compiaciuta, non abbia avuto come conseguenza un rilevante movimento in favore del politico che se ne faceva paladino da parte di coloro, e sono certo la maggioranza degli italiani, che certamente di sinistra non sono. Deludendo clamorosamente quella che era una fondamentale ed esplicita aspettativa dello stesso Renzi.
Nel porre la sua domanda Recalcati non fa alcun accenno e non muove alcuna critica al modo in cui Renzi ha gestito la sua vicenda di premier e di segretario del Pd e manifesta piuttosto una sorta di stupore per il fatto che egli venga «identificato non come la cura, ma come la malattia della sinistra».
Vale dunque la pena di esaminare più da vicino, facendo riferimento a comportamenti e a fatti concreti, quali siano le possibili componenti del sentimento che ha investito il segretario del Pd, fino a poco tempo fa capo del governo.
Con questo sentimento ha certamente a che fare l’avversione a un modo di intendere l’impegno politico come aggressione a chi non la pensa come lui, ricorrendo anche a toni spregiativi (i professori, i gufi, i vecchi) o genericamente e violentemente populistici (la rottamazione). Vi ha anche a che fare l’irritazione per una strategia complessiva palesemente rivolta a eliminare e vanificare tutte le sedi di possibile disaccordo: la minoranza del suo stesso partito, i sindacati, i corpi intermedi.
Con questo sentimento ha inoltre molto a che fare l’indignazione per il modo in cui è stato da lui concepito e gestito il referendum costituzionale: temi fondamentali che attengono alla struttura stessa dello Stato sono stati subordinati e adattati a un azzardo che avrebbe dovuto portarlo a essere davvero (legittimato anche istituzionalmente) l’uomo solo al comando, consacrato e osannato. Un azzardo che per molti mesi ha assorbito quasi completamente gli intenti dell’uomo politico, come se egli mettesse coscientemente in secondo piano le attese e le necessità del suo stesso partito, delle istituzioni, dei cittadini. Il tutto in un clima permanente di rancorosa resa dei conti. E, del resto, come può lamentarsi di avere tutti contro chi ha scelto la lotta radicale contro tutti coloro che ne intralciano l’obiettivo?
E vi ha ancora a che fare lo sdegno dovuto al fatto che le sue iniziative sono apparse rivolte soprattutto a soddisfare il suo impellente e incontrollabile “bisogno di potere” (mi scappa di fare il capo del governo!): dall’iniziale, ormai famoso colpo mancino a Letta (stai sereno!) all’attesa dell’occasione buona per mettere in crisi il premier Gentiloni, gestendo o progettando, in quest’ottica, quale factotum solitario alleanze estemporanee, programmando possibili scadenze elettorali, modificando propositi e programmi. L’impressione è proprio quella che nulla possa controllare questa pulsione, che non vi siano cura del partito, ordine delle istituzioni e bene dei cittadini che tengano.
Né si possono trascurare la noia dovuta al susseguirsi ripetitivo di promesse non mantenute e di rivendicazioni di successi inesistenti (il disco rotto) o il risentimento dovuto alla sensazione di continuare a essere considerati sudditi minorati, sempre disposti a rimanere irretiti dai consueti calambour e dai seriali siparietti televisivi.
Ci sarà probabilmente dell’altro, ma penso siano in buona sostanza queste le componenti delle reazioni emotive che buona parte degli italiani riservano a Matteo Renzi. Sui fatti che le hanno determinate, e che si sono testé sintetizzati, sono quasi tutti d’accordo. Anche i sostenitori di Renzi si limitano a controbattere che comunque egli costituisce il meglio che offre il panorama politico e che non c’è alternativa.
A questo punto, piuttosto che parlare di volta in volta di avversione, indignazione, irritazione, sdegno, rancore, noia, risentimento, è ben possibile assumere sotto un solo termine l’insieme di queste reazioni emotive e dare a questo temine il nome di “odio”. Per ritornare, dopo queste premesse, alla domanda posta da Recalcati: perché tanto odio nei confronti di Renzi?
In primo luogo, bisogna partire da una circostanza fondamentale: qui non si parla di una nuvola di odio priva di destinatario, che vagava nel cielo sopra l’Italia e che a un certo momento ha deciso di scatenarsi sul segretario del Pd. Né di sentimenti apparentemente privi di giustificazione, per spiegare i quali occorre ricorrere all’ipotesi dello svelamento di qualche peccato sino a ora ignorato.
Ognuno dei sentimenti qui evocati ha una caratteristica comune, cioè quella di costituire reazione a qualcosa che lo stesso Renzi ha messo in moto. Probabilmente egli stesso aveva previsto, almeno in parte, le conseguenze del suo agire, ma quel che c’è in lui del giocatore d’azzardo e di chi si sente predestinato al comando (meglio se da solo contro tutti) ha fatto sì che ne trascurasse l’importanza, nella convinzione che la mossa successiva (magari alzando sempre più l’asticella) sarebbe comunque valsa a dargli il potere.
Secondo Corrado Augias, argomenti di questo tipo non coglierebbero nel segno perché il prof. Recalcati si muove in una prospettiva diversa: «La sua opinione […] è di natura psicoanalitica, non investe elementi politici»[1].
A parte la difficoltà di separare nettamente, all’interno di un unico contesto, analisi politica e analisi psicanalitica, non si vede proprio a quale appiglio possa aggrapparsi questa excusatio, forse un po’ sommaria. Non occorre un’analisi particolare per riscontrare come contenuto, argomenti e finalità che attengono alla domanda di Recalcati abbiano significato specificamente politico, addirittura con l’esplicitazione di una sorta di suo schieramento, che si desume soprattutto nella parte finale: una sintetica valutazione in malam partem della storia e dell’ideologia della sinistra in Italia, che assembla tutte le accuse che provengono dall’ideologia a essa contraria.
Una concezione del mondo che ha nutrito l’interpretazione della storia per tutto il Novecento: la lotta di classe, una concezione etica dello Stato, l’identificazione del liberalismo e dei suoi principi come Male, la gerarchia immobile del partito, la prevalenza della Causa universale sulle relazioni di cura particolari, una differenziazione paranoide del mondo in forze del Bene e in forze del Male, l’inclinazione populista e incestuosa della cosiddetta democrazia diretta, la riduzione delle politiche sociali a un maternage assistenzialista, il sospetto verso la manifestazione della singolarità in tutte le sue forme, un paternalismo insopportabile che cancella le nuove generazioni[2].
Secondo Recalcati tutto ciò è irrimediabilmente defunto. Ma la sinistra, invece che elaborare il lutto al riguardo, dà di tutto la colpa a Matteo Renzi.
Il tema dell’elaborazione del lutto riguarda ovviamente quanto all’inizio qui introdotto sotto il primo dei profili esaminati, quello relativo alla morte delle ideologie. Solo che in quella sede si faceva riferimento alla complessiva vicenda politica italiana e non solo alle traversie della sinistra.
Comunque, in entrambe le ipotesi, quello che si richiede rappresenta un approccio e un’esperienza senz’altro salutari. «Vasto programma», avrebbe detto De Gaulle, che coinvolge in entrambi i casi almeno una cinquantina d’anni, protagonisti e movimenti diversi, esperienze variegate, esiti alterni.
Vasto programma: ben diverso da quello che ci si aspettava affrontasse un unico soggetto politico, in ordine a una vicenda di cui è stato protagonista per pochi anni e di fronte a un suo indiscutibile insuccesso.
Recalcati non parla dell’elaborazione del lutto che ci si sarebbe aspettati da Renzi dopo il referendum del 4 dicembre 2016, ma è impossibile non pensare a lui e alla reazione dell’opinione pubblica, resa ulteriormente ostile da questo comportamento.
Ne parla, insieme a tanti altri, lo stesso Augias, nell’articolo sopra citato: «La sindrome da sconfitta è durata poco come si vede ogni giorno, segnale molto negativo, dice di una natura indomabile come dimostra anche il fatto che Renzi continui a illudersi ricordando il 40% delle ultime europee senza rendersi conto che quel livello ormai è scomparso».
Si è dunque aggiunto odio nei confronti di uno statista che, dopo avere puntato tutto su un obiettivo congegnato per conferirgli tutte le più importanti leve del comando, una volta che ne esce clamorosamente sconfitto continua a maramaldeggiare in prima e unica persona senza che sia mai apparso un ripensamento sulle conseguenze che questa incessante e impellente rincorsa a una rivincita personale sta avendo e avrà per il paese e per i cittadini. I quali altre volte hanno assistito a exploit finiti nel nulla, a successi annunciati e tosto falliti, a bluff andati a male. Altre volte hanno disegnato la parabola dei leader carismatici facendo loro pagare, quando il vento diventa contrario, le stesse “maramaldate” che all’inizio ne avevano decreto il successo.
L’unica “elaborazione” di cui questo statista è stato capace è consistita nell’affermare di avere un cattivo carattere. Ma la gente sa benissimo che in questi casi anche chi ammette ciò come difetto, in realtà del proprio carattere è soddisfatto e compiaciuto. E si guarderà bene dal fare qualcosa per cambiarlo.
[1] C. Augias, I tabù della sinistra, «la Repubblica», 19.07.2017.
[2] M. Recalcati, Qual è il peccato…, «la Repubblica», 17.07.2017.