di Mario Pezzella
Perché lo Stato italiano, a quarant’anni di distanza dai crimini di cui è accusato, desidera con tanto accanimento l’estradizione di Cesare Battisti? (Il quale, va detto, non fa proprio nulla per suscitare qualche simpatia nei suoi confronti, tra fughe, comparsate in spiaggia, dichiarazioni provocatorie e insipienze narcisistiche più adatte a una spy story che a un ragionamento politico). Si tratta di dimostrare qualcosa, affermare un principio, emanare un monito, in nome delle vittime del terrorismo o della giustizia universale? No, le motivazioni sono più contingenti e concrete: hanno a che a che fare con la memoria e la storia che si vuole imporre degli anni settanta. La richiesta di estradizione intende ribadire che le violenze accadute allora in Italia non hanno nulla di politico, si tratterebbe di singoli episodi criminali efferati, giudicabili come tali. Non avrebbe dunque senso parlare di amnistie o pacificazioni a livello collettivo, perché significherebbe ammettere la natura sociale e politica dei conflitti che hanno devastato l’Italia, e questo è ancora intollerabile per gli eredi dei partiti di governo allora esistenti. Un’ammissione simile, infatti, comporterebbe il riconoscimento che anche da parte delle istituzioni ci fu un progetto politico violento – il terrorismo di Stato, le torture in carcere, gli attentati fascisti guidati dai servizi deviati – e non semplicemente impazzimenti di gruppi ristretti ed efferatezze individuali, come si è cercato invano di dimostrare per Piazza Fontana o la strage di Bologna.
Questo negazionismo vorrebbe occultare il dato di fatto che in Italia c’è stato un conflitto sociale reale e intenso, poi degenerato in violenza militarizzata, da una parte e dall’altra (anche se parlare di guerra civile come fa Battisti è da parte sua, come di altri, solo un wishful thinking). È per questo che è così difficile fare la storia di quegli anni, o rappresentarli in film e romanzi che ne restituiscano una verità (a parte ricostruzioni buoniste e deformanti come l’ormai vecchia serie televisiva su La meglio gioventù). Difficile la rappresentazione di quella violenza perché c’è un non dicibile, un buco nero al centro della memoria, che impedisce l’interpretazione e disloca e deforma tutti i singoli eventi. A rappresentare la verità e anche il male di quegli anni con uno stile indiretto e soggettivo ci ha provato – che io sappia – solo Elena Ferrante, in alcune parti degli ultimi due romanzi de L’amica geniale.
Certo, chi ancora ricorda l’emozione provata all’indomani della strage di Piazza Fontana, sa bene che essa fu percepita da molti come un atto di guerra, come il definitivo passaggio da una protesta sociale diffusa a una militarizzazione della vita e dell’esperienza, come l’inizio di un male oscuro che stava per contaminare e distruggere ogni speranza di mutamento sociale. Se non si può parlare di questo, non si può parlare di niente. Se non si può dire questo, l’intera esperienza di una generazione cade nell’insensatezza storica.
Che poi l’antagonismo sociale sia sfociato nella militarizzazione rozza e desueta dei gruppi armati, politicamente folle e umanamente mediocre, non dovrebbe essere un alibi per ridurre tutta quella stagione alla categoria del crimine impolitico. Per riprendere un termine di Arendt, le aspirazioni iniziali del 1968 sono divenute un tesoro perduto, soffocato dalla violenza di Stato e seppellito da quella dei gruppi armati. Negarne perfino l’esistenza permette di cancellarne la storia, non i traumi collettivi che da quella rimozione sono derivati.