di Giancarlo Scarpari
Il 31/12/2019 la Commissione sanitaria di Wuhan segnalava all’OMS l’esistenza, in quella località della Cina, di casi “di polmonite ad eziologia sconosciuta”; il 9/1/2020 l’origine del morbo veniva identificato in un nuovo “coronavirus correlato a quello della Sars” ed analoghi episodi venivano segnalati anche in Thailandia, Giappone e Corea del Sud; il Centro Europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie (ECDC), confermando quelle notizie,riteneva peraltro “moderato” il rischio che quel morbo potesse diffondersi in Europa.
Il 22 gennaio, tuttavia,in Italia, con una circolare inviata, tra gli altri, alle Regioni ed a taluni ordini dei medici, il ministro della Salute Speranza forniva una serie di indicazioni sul nuovo coronavirus, prescrivendo all’occorrenza, da parte dei sanitari, l’uso di “mascherine a protezione facciale” (quelle chirurgiche) e, in certi casi, di quelle “a protezione rinforzata” ( quelle denominate FFP2).
Il 30 gennaio L’OMS comunicava che era in atto un’ “epidemia prodotta dal nuovo coronavirus” e dichiarava lo stato di emergenza globale; lo stesso giorno, due turisti cinesi in viaggio in Italia venivano riconosciuti “positivi” al virus e ricoverati in gravi condizioni in un ospedale romano.
Da allora, dunque, la notizia del morbo e della sua capacità infettiva diviene ufficiale e fa il giro del mondo, suscitando reazioni differenti. Non nasconde la sua soddisfazione il Segretario al Commercio americano Wilbur Ross, che il 31 gennaio annuncia che l’epidemia produrrà “un’accelerazione dei ritorni dei posti di lavoro negli USA”; i media dei paesi europei, preoccupati soprattutto della Brexit e delle sue conseguenze, si limitano a sottolineare che gli stranieri fuggono dalla Cina; il governo italiano, già dal 30 gennaio, con una delibera del Consiglio dei ministri, dichiara a sua volta lo stato di emergenza per 6 mesi, mentre il ministro della Salute blocca completamente il traffico aereo con quel lontano paese.
Il 1° febbraio la stampa informa che vi sono ormai 30 morti a Wuhan e 13 nello Hubei in quarantena, che i contagiati sono quasi 10.000 e che oltre 100.000 persone sono in osservazione (ma pure che in pochi giorni sono stati attrezzati due ospedali per circa 2.600 posti letto e che in 15 minuti il kit è in grado di fornire la diagnosi). La Repubblica e il Corriere , il 10 febbraio, annunciano che il coronavirus ha fatto già più vittime della Sars, il 15 segnalano che in Cina il contagio ha fatto vittime anche tra i medici, ma i sondaggi di Pagnoncelli indicano che gli italiani non si preoccupano più di tanto per il morbo e che invece, dopo la sconfitta di Salvini in Emilia, seguono con ansia le tensioni nel governo, le “rotture” di Renzi, tanto che il 41% degli intervistati ritiene ormai che Conte sia giunto al capolinea.
Tutte queste chiacchiere finiscono a Vo’, un paese del padovano, fino ad ora noto agli storici per essere stato, dal dicembre 1943 al maggio del 44, centro di raccolta di ebrei, inviati poi alla Risiera di San Sabba e infine ad Auschwitz; e lì abitava Adriano Trevisan, che muore il 21 febbraio 2020, prima vittima del coronavirus accertata in Italia. In paese si cerca l’untore, si punta subito su alcuni lavoratori cinesi (nei giorni precedenti , in varie parti d’Italia si erano registrati nei confronti di quegli extracomunitari episodi di razzismo), ma dopo un po’ si accerta che in realtà la fonte del contagio è indigena e la malattia è stata diffusa da uno degli amici del bar dello sfortunato Trevisan. Contemporaneamente emergono altri casi a Codogno, ad Alzano e nel Lodigiano; di lì a poco il virus dalla Lombardia si spargerà nella parte occidentale dell’Emilia, a Piacenza, a Parma e a Reggio..
Il risveglio è brusco: l’epidemia è nuova, non c’è un vaccino per farvi fronte e i cittadini si accorgono presto che non c’è neppure una scienza in grado di fornire risposte certe alle loro domande ed alle loro paure, ma solo una pluralità di scienziati – da Roberto Burioni, a Ilaria Capua, a Maria Rita Gismondo – che appaiono sui media e che formulano analisi e prognosi spesso divergenti (per non parlare dei molti “esperti”, più o meno improvvisati, che contribuiscono ad alimentare incertezza e confusione). Il governo procede con cautela: con il Decreto Legge 23/2/2020 n.6, individua il quadro dei possibili interventi (quarantene, sospensione degli eventi, dell’attività scolastica, sospensione o riduzione dei servizi di trasporto, delle attività commerciali, tranne quelle di prima necessità, e delle imprese, escluse quelle fornitrici di servizi essenziali o di pubblica utilità, ecc.) e delega per la realizzazione concreta del programma sia il Presidente del consiglio dei ministri, sia i Presidenti delle Regioni, per quanto di loro territoriale competenza; quindi Conte, con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) del 25/2, dispone le prime restrizioni, volte ad evitare le maggiori occasioni di contatto, negli stadi, nelle scuole, negli uffici giudiziari, sui luoghi di lavoro, ecc. restrizioni valide per tutte le Regioni del Nord interessate dal contagio.
L’emergenza crea istituti giuridici nuovi (il decreto legge che moltiplica strumenti attuativi ad opera di diverse autorità locali non è previsto dalla Costituzione), ma si fonda sulla”necessità” di inseguire ogni giorno gli sviluppi di una epidemia sconosciuta (che si espande a velocità imprevista, creando sempre nuovi focolai) e tiene conto dell’articolazione tra poteri dettata dalla “concorrenza” normativa Stato-Regioni, stabilita dal discusso art. 120 Cost. Senonchè questo provvedimento, lungi dal garantire il coordinamento tra il centro e la periferia, viene ben presto utilizzato dall’opposizione per sviluppare una guerriglia mediatica con Conte e il suo governo e trasformare l’emergenza sanitaria in emergenza politica.
Comincia l’ex Capitano che, volendo polemizzare ogni giorno con le decisioni dell’ex alleato, finisce in un inedito testa-coda: il 21 febbraio, quando muore Trevisan, sostiene che bisogna “chiudere, blindare, sigillare” tutto; quando, una settimana dopo, la Confcommercio invita i cittadini a consumare (prenotate viaggi, riempite i ristoranti) e la Confindustria di Bergamo spinge gli operai a continuare a lavorare (“Bergamo is running”), Salvini si associa prontamente al coro: “riaprire, rilanciare fabbriche, discoteche, centri commerciali”. Non sarà il solo, perché subito il sindaco Sala e Zingaretti lo seguono a ruota (“Milano non si ferma”). Presto, in quelle terre, si sarebbero viste le conseguenze di tanto entusiasmo.
Nel weekend successivo, infatti, malgrado le disposizioni dei DPCM promuovessero chiusure e isolamento, intere famiglie di sciatori, provenienti dalla Lombardia e dal Veneto, festeggiavano l’ultima nevicata sulle piste della Val di Scalve e del Trentino; allora Conte , col DPCM dell’8/3, visto che il contagio aveva già prodotto 5 mila malati, creava “zone rosse” in diciannove province della Lombardia, nonché in quelle di Venezia, Padova e Treviso, suscitando una levata di scudi da parte dei Presidenti di quelle Regioni.
Insorgeva subito Zaia, offeso per “l’insulto” arrecato all’eccellenza della sanità veneta, che chiedeva l’immediato stralcio delle “sue” tre province dalla zona rossa, dato che il locale Comitato scientifico aveva assicurato che il contagio era “circoscritto” e giudicato quella misura “ sproporzionata”; e sulla sua scia i Presidenti degli industriali di Padova e Treviso chiedevano le immediate dimissioni di Conte per incapacità, invocando il varo di un “governissimo” (di lì a poco, malgrado le previsioni, Treviso e Padova registreranno il massimo picco di contagi e di decessi di tutto il Veneto).
Fontana, dal canto suo, attaccava Conte per le ragioni opposte: avendo visto l’epidemia crescere in modo non resistito attorno a Milano, chiedeva che il governo “chiudesse tutto, tranne alimentari e farmacie”; ma avrebbe potuto farlo lui, perché sin dal 23 febbraio, come visto, quale Presidente, era stato “delegato” ad intervenire sull’intero comparto della “protezione sanitaria” regionale (evidentemente, rimanendo inerte, aveva aspettato che altri “mettessero la faccia” su scelte impopolari); e, quanto alle chiusure delle imprese, era stato proprio Fontana ad averle sottratte al richiesto rigore, avendo “delegato” la Confindustria a stabilire “la eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative”. Sorvolando su questi particolari ed addebitando a Conte il mancato contenimento dell’epidemia, sulla scia di Fontana l’intera destra e i media al seguito invocavano l’arrivo di un supercommissario, subito individuato nel factotum di Berlusconi, Guido Bertolaso; dalle reti Mediaset Nicola Porro veicolava la richiesta, prendendosela con “quei cialtroni di governo che non lo volevano”; e poiché l’estemporanea proposta non veniva accolta, per continuare ad alimentare opposizione e propaganda, Fontana lo nominava subito consulente della Regione da lui guidata.
Il governissimo, il supercommissario e più avanti la strumentale invocazione di Mario Draghi, tutto è stato proposto dalla destra,pur di uscire dall’ombra di una opposizione rivelatasi impotente, cui l’improvvida decisione estiva di Salvini l’aveva cacciata. Tuttavia la polemica serrata con Conte non la distoglieva dal coltivare, al tempo stesso, anche le proprie dinamiche interne. Sempre utilizzando l’occasione dell’epidemia, infatti, l’assessore al welfare lombardo di Forza Italia, Guido Gallera, “ogni giorno in trincea”, mentre illustrava in televisione il conto crescente di contagi e decessi,trovava anche il tempo di offrirsi quale candidato a futuro sindaco di Milano; e Zaia, che nel frattempo era stato nominato anche Commissario regionale all’emergenza e che poteva vantare, nel confronto della Lombardia, la maggiore resistenza al virus offerta dalla sanità veneta, si proponeva di fatto come valida alternativa ad un Salvini in calo di consensi; e, con una presenza e un attivismo continuo in tutte le tv locali, riusciva a far sì che le ombre del suo passato ( per anni silenzioso e distratto vice di Galan, poi oppositore dell’obbligo dei vaccini nelle scuole, da ultimo autore dell’improvvida uscita “i cinesi mangiano topi vivi” mentre erano in corso gli acquisti delle mascherine da quel paese) venissero in breve sommerse da un plauso generalizzato e in crescita continua.
Ma se questi erano i problemi che agitavano i partiti di opposizione, ben maggiori erano le questioni che dovevano affrontare quelli della maggioranza, che non dovevano avanzare critiche, bensì proporre ed attuare soluzioni concrete.
Certo, la situazione di partenza era stata pregiudicata dal taglio di 37 miliardi operato nell’ultimo decennio da tutti i governi succedutisi nel periodo; e se questa voragine non poteva essere addebitata esclusivamente al PD, è certo che questo partito vi aveva efficacemente contribuito, condividendo l’ideologia dominante, secondo cui anche gli ospedali pubblici dovevano essere gestiti con criteri aziendali, e cioè, nella sostanza, con accorpamenti e tagli nei servizi (mentre, contemporaneamente, ampie risorse venivano destinate dalle Regioni alla sanità privata, convenzionata e non).
In secondo luogo, ma sempre nella medesima logica, è mancata qualsiasi forma di programmazione sanitaria per fronteggiare non la pandemia del Covid 19, che non si poteva prevedere, ma anche solo una “emergenza sanitaria internazionale” (e questa già si era vista con la Sars, la Mers e da ultimo con l’Ebola). Così, dopo la sottovalutazione iniziale e constatata la mancanza di un valido vaccino, è cominciata l’affannosa ricerca di respiratori, tamponi e mascherine protettive (ricerca subito scontratasi con la concorrenza, cioè con l’accaparramento di quei prodotti scatenatosi in silenzio sui mercati internazionali); è poi partita la rincorsa volta a contenere la diffusione del morbo, coi successivi tentativi di isolare focolai e di chiudere i luoghi di “visibile” raccolta delle persone (stadi, discoteche, ristoranti, ecc.); in un secondo tempo ci si è accorti di averne dimenticati altri, quelli “invisibili” (le RSA e le case di riposo, soprattutto e poi le carceri, i conventi, ecc.); ma solo alla fine si è constatato che i focolai più attivi erano quelli sorti nelle case private, in famiglia, e soprattutto negli ospedali, che quel morbo dovevano curare (e medici ed operatori sanitari, per questo, avrebbero pagato un prezzo altissimo).
Tra ritardi, recuperi e successive limitazioni, i DCPM di Conte si sono moltiplicati fino ad imbattersi in un nodo rimasto a lungo,volutamente, sottotraccia, l“affollamento” dei lavoratori negli stabilimenti e nelle fabbriche. Il delicato e quasi impossibile equilibrio da osservare tra esigenze produttive e salute dei lavoratori veniva affrontato solo il 14 marzo, con un accordo di massima Governo-Parti sociali, che prevedeva, per tutto il territorio nazionale, distanze di sicurezza nei luoghi di lavoro, dispositivi di protezione individuali, ricorso allo smart working, ammortizzatori, ecc.; poi, con un nuovo DCPM (annunciato il 21, varato il 23 e rifinito con un nuovo decreto il 25/3, a causa delle contrapposte pressioni di datori di lavoro e sindacati), Conte disponeva la chiusura delle attività produttive e commerciali non essenziali, lasciandone attive un’ottantina di diverse tipologie, affidando ai prefetti la decisione su altre possibili eccezioni.
I riflettori si spostavano così dal controllo dell’epidemia (per fronteggiare la quale si invocava con canti e bandiere l’unità degli italiani) al controllo della produzione (e qui gli interessi contrapposti evidenziavano invece la divisione): se la Confindustria lombarda (“Milano/Bergamo non si ferma”), in febbraio, si era opposta alle richieste di chiusura proprio nelle terre di maggior contagio, quella veneta, di fronte al decreto Conte, aveva reagito addirittura con rabbia: “Un giorno nero per la Repubblica e il diritto. Oggi il sindacato, con il placet del governo, si appropria delle fabbriche” aveva twittato il suo presidente Enrico Carraro; e oltre diecimila imprenditori, spinti dal suo messaggio,avevano subito assediato le prefetture, “autocertificandosi” come essenziali, intasando i controlli e puntando sul silenzio-assenso ( uno strumento invocato sempre dai critici della burocrazia, privilegiato spesso da coloro che più semplicemente non tollerano le regole).
Ma non basta: l’emergenza evidenziava, infatti, che non tutti i lavori erano eguali, visto che alcuni erano “obbligati” e chi doveva praticarli continuava a rimanere quotidianamente esposto al rischio del contagio; e diventavano così visibili anche le diseguaglianze esistenti all’interno della medesima attività essenziale, come nella filiera agro alimentare, ad esempio, ove operavano, in una lunga catena di montaggio (dalla raccolta del prodotto, alla sua lavorazione, al trasporto ed al commercio, all’ingrosso e al minuto), una pluralità di soggetti, tra loro diversi e variamente frammentati (il lavoratore in nero, quello precario, quello a tempo determinato, ecc.), tutti “obbligati” a fornire la merce al cittadino consumatore.
Questi lavoratori ponevano, perciò, come prioritario, il problema della loro salute; quelli impegnati nelle attività “bloccate”, ponevano invece quello, immediato, del loro sostentamento.
Il governo, questa volta con un decreto legge, il “Cura Italia” del 17/3, comprensivo di una manovra di spesa di circa 25 miliardi, provvedeva, tra l’altro, a vietare i licenziamenti, a finanziare una serie di ammortizzatori sociali per i casi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, a stanziare 600 euro mensili a testa per lavoratori autonomi e stagionali, stabilendo inoltre una serie di garanzie pubbliche per le imprese private, che il Sole definiva “corpose”.
Per coloro che invece quel lavoro non avevano, o che l’avevano “in nero”, il governo provvedeva ad attivare i sindaci con il DPCM 28/3, con cui anticipava ed ampliava il Fondo di solidarietà comunale (4,3 miliardi, più 400 milioni vincolati all’acquisto di bene alimentari e medicine per le prime necessità), quindi, dopo che Draghi aveva autorevolmente avvertito che “in futuro i livelli di debito pubblico molto più elevati diverranno una caratteristica permanente delle nostra economie” e sostenuto, nell’immediato, la necessità di “fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro e incanalare le liquidità verso le imprese in difficoltà”, il governo, ponendosi sulla sua scia, annunciava a marzo il varo entro Pasqua di due nuovi decreti legge.
Il primo, il D.L. 8/4/2020 n. 23, prevedeva una garanzia di 400 miliardi per i prestiti delle banche alle imprese, ampliava il numero di quelle “strategiche”, rafforzando per loro il golden power, sospendeva i versamenti dei contributi fiscali dovuti dagli imprenditori; il secondo, che doveva “movimentare” 60 miliardi, metà in deficit e che, tra l’altro, prevedeva un Reddito di Emergenza (REM), cioè un bonus di circa 500 euro per coloro che non erano “coperti”da altre misure (compresi i “lavoratori in nero”?), a Pasqua rimaneva, però, ancora a livello di annuncio.
Complessivamente si trattava, sulla carta, di cifre enormi, visto che gli impegni previsti erano pari a quelli di numerose finanziarie; cifre che, peraltro, erano insufficienti per far fronte non più solo ad un’emergenza sanitaria, ma ad una vera e propria emergenza sociale, che, già evidente nella recessione in atto, si prospettava addirittura drammatica nel caso che una prolungata pandemia generasse una vera e propria depressione economica.
Il governo si rivolgeva perciò all’Unione Europea, l’unica istituzione in grado di fornire per una tale evenienza un aiuto determinante, ma la risposta inizialmente ottenuta è stata francamente deludente.
Già alla notizia del coronavirus, l’abbiamo visto, l’ECDC aveva minimizzato il rischio e la UE, dal punto di vista operativo, era stata del tutto assente, malgrado che il Parlamento e il Consiglio europeo avessero, tra i compiti previsti dal Trattato, anche quello di “adottare misure per proteggere la salute, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera” (art. 168); inoltre alcuni Stati membri, la Francia e la Germania in particolare, avevano addirittura bloccato, in una prima fase, l’ingresso in Italia di presidi sanitari regolarmente acquistati; e, sino a quando il contagio aveva interessato soprattutto i paesi del Sud Europa, i governanti degli altri erano rimasti distanti se non ostili e Cristine Lagarde aveva chiaramente detto, alludendo all’Italia, che non era compito della BCE difendere lo spread in ascesa.
Poi, però, qualcosa aveva cominciato a muoversi: accortasi che il virus non conosceva frontiere e che anche il sistema produttivo degli stati “virtuosi” inevitabilmente rallentava e correva il rischio di fermarsi, la stessa BCE, a distanza di una settimana, lanciava un piano di acquisto di titoli di stato per circa 750 miliardi (e grazie a questo intervento, in un solo giorno, lo spread era sceso di un centinaio di punti), il tabù del pareggio di bilancio veniva temporaneamente sospeso (la Germania ne approfittava subito, mettendo in campo per la sua economia la somma di 550 miliardi di euro) e l’Italia riusciva a formare un’alleanza con altri otto paesi, poi diventati dodici (tra cui Francia, Spagna e Belgio e, questa volta, anche la Grecia) per promuovere uno strumento di “debito comune europeo”, idoneo a rastrellare risorse sul mercato per il finanziamento di politiche economiche di contrasto alla crisi incipiente (i Coronabond o Eurobond, secondo la versione italiana).
La laboriosa trattativa necessaria per vincere l’avversione di Germania ed Olanda a simili strumenti finanziari, veniva immediatamente intralciata, in Italia, da Salvini che definiva“l’Europa una schifezza” e un “covo di serpi e di sciacalli” e ostacolata,in Europa, dai suoi “alleati” (l’AFD in Germania e il Forum per la democrazia in Olanda), che, contrari all’iniziativa italiana, hanno premuto per irrigidire le posizioni dei rispettivi governi (preoccupati delle possibili ricadute elettorali in caso di cedimenti). In sede di Eurogruppo, dopo una serie di rinvii, veniva così raggiunto solo un faticoso compromesso (“un alto tradimento” per la moderata Meloni), che prevedeva una serie di prestiti, quantificabili, per l’Italia, in 32 miliardi per le imprese (dalla BEI), in 20 miliardi per i dipendenti che perdevano il lavoro (progetto Sure) e in 36 miliardi per quello proveniente dal MES, peraltro privo dei tradizionali vincoli, purché finalizzato a sostenere i costi “diretti e indiretti” causati dalla pandemia; gli Eurobond, invece, risultavano esclusi, ma veniva messo in cantiere un piano per la ripresa di altri 500 miliardi, voluto dalla Francia e condiviso dall’Italia, finanziato con debito comune, grazie all’emissione di Recovery bonds. Quest’ultimo, in particolare, da definire in future riunioni tra i capi di governo, quindi con cifre incerte e tempi dilatati.
Ebbene: gli strumenti tradizionali individuati, quello innovativo semplicemente annunciato e la tempistica in concreto adottata hanno reso evidente come, al di là delle chiacchiere sulla solidarietà europea, i governi di Germania e Olanda e degli altri stati del Nord, vincolati dalle loro ideologie e tutti protesi a salvaguardare i propri interessi immediati, abbiano perso di vista quelli da proiettare nel lungo periodo (quale vantaggio deriverebbe loro da un crollo economico dei paesi del Sud Europa?); preoccupati del proprio presente, hanno sinora riproposto strumenti del passato, stentando a capire le dimensioni di questa crisi che è sanitaria, sociale e politica al tempo stesso e che ha carattere epocale (16 milioni di disoccupati in tre settimane nell’America first, col massimo numero di contagi e di morti in continua crescita, non dicono nulla su quello che sta succedendo nel mondo e su quello che presto potrà accadere?).
L’Italia è in difficoltà; ma la campana è suonata per tutti, per l’Unione Europea in particolare: e tuttavia troppi governanti ciechi si fingono anche sordi pur di non sentirla.