Della situazione politica italiana dopo le elezioni del 25 settembre è facile avere una visione distorta se si scambiano per dati reali i trionfi e i gemiti e i sussurri di un sistema politico che ne è uscito a pezzi. L’astensione al 40% ridimensiona e relativizza i dati elettorali: il nuovo governo della coalizione di destra è espressione di un quarto degli elettori ed è stato premiato unicamente dalle regole perverse del sistema elettorale; nella coalizione di destra, alla vigilia dell’incarico a FdI sono già all’opera le contraddizioni interne e gli interessi concorrenziali dei gruppi di potere; il governo è maggioritario nella scena parlamentare, ma minoritario nel paese: non ha vinto la destra, ha perso il cosiddetto centro-sinistra, politicamente inesistente e frantumato nelle sue componenti interne neoliberiste e pseudo-riformiste. Ma il dato principale è la crisi definitiva del sistema politico, di una sedicente “democrazia rappresentativa” che, morta la “sinistra” storica, non rappresenta più le classi popolari che l’aveva espressa. Il ricambio dei gruppi dirigenti sarebbe oggi affidato, sotto la garanzia del gesuita Rasputin della finanza e dell’atlantismo statunitense, alla destra neofascista erede del fascismo storico e delle pratiche stragiste dagli anni sessanta in poi, con tutte le sue articolazioni “patriottiche” e internazionali. Il tutto in presenza di una crisi internazionale del capitalismo occidentale che reagisce con i tradizionali strumenti della guerra in difesa di un mondo unipolare a guida statunitense reso insostenibile dal rafforzamento di una tendenza multipolare che unisce sempre più una parte maggioritaria del pianeta, e sullo sfondo il panico di una catastrofe climatica in atto a cui si pensa di reagire con la corsa alle materie prime come se fossero le ultime di cui impadronirsi, con la corsa alla guerra in tutte le sue forme anche come investimento produttivo. Ma il quadro è molto più complesso delle semplificatorie narrazioni della “propaganda fide” occidentale.

Aggressori e aggrediti? La guerra in Ucraina degli Stati uniti contro la Russia è contro l’Europa; preparata dall’espansione della Nato sul fronte est dopo il crollo dell’Urss, combattuta sul campo dopo il colpo di stato del 2014 in Ucraina (otto anni di aggressioni sistematiche del governo di Kiev ai territori russofoni del Donbass e della Crimea, 14000 morti), dal 24 febbraio 2022 incrementata dall’invasione russa per fermare la Nato e “denazificare” l’Ucraina, sta assumendo tutte le caratteristiche di un confronto militare tra Occidente e Oriente, articolato in scenari diversi ma strettamente collegati; gli schieramenti in campo, unipolare e multipolare, vanno consolidando le reciproche alleanze a livello internazionale, e la deterrenza nucleare diventa un’opzione praticabile (chi attaccherà per primo è irrilevante, e sappiamo quali conseguenze potrà determinare). L’alternativa alla guerra è non fare la guerra. e subito avviare negoziati internazionali sulla base degli accordi di Minsk sabotati dal governo oltranzista di Kiev (più armi, più armi, più armi, operazioni terroristiche in territorio russo). La guerra del gas, che ha procurato vantaggi economici agli Stati uniti (ed era una delle ragioni della guerra), sta compromettendo le economie della Disunione europea, alla vigilia dell’entrata in campo del generale inverno.

Guerra e pace. La guerra è guerra, è esercizio statuale della forza, è in sé un crimine contro l’umanità, e i suoi percorsi drammatici comportano stravolgimenti in tutte le direzioni; nella guerra attuale che si combatte in Ucraina e sul “fronte russo”, i vari pretesti della propaganda occidentale (l’“autocrazia” di Putin, i “diritti umani” ecc.) sono menzognera propaganda dei veri interessi in gioco, geopolitici ed economici. In guerra tutti sono vittime e prigionieri di processi distruttivi e devastanti. La “campagna di Russia” sta inoltre producendo, per l’Occidente, esiti contrari agli obbiettivi perseguiti: la Federazione russa sta consolidando le sue relazioni con la Repubblica popolare cinese e con altre importanti realtà in Asia, Africa e America latina, sulla linea di quel multipolarismo praticato da molti anni dalla Cina. Da questo punto di vista l’Occidente a guida statunitense sta perdendo la guerra, e la “spallata” in Ucraina rischia di trasformare quel paese in un nuovo Afghanistan nel cuore dell’Europa, devastata terra di frontiera lungo un nuovo 38° parallelo, fonte cronica di crisi regionali quando servirà.

Disertare la guerra, costruire il socialismo. La guerra in Ucraina deve comunque essere fermata, e gli strumenti principali sono due: una forte e diffusa mobilitazione dal basso, internazionalista e antimilitarista, di “diplomazia dei popoli”, e molte iniziative si stanno sviluppando in questo senso, anche in Italia; un deciso intervento dell’Onu che recuperi, in una situazione di emergenza che non ammette incertezze e dilazioni, il suo ruolo istituzionale di garante e promotore della pace mondiale. Quale pace? La pace non è soltanto l’assenza di guerra, è giustizia sociale, egualitarismo, liberazione dalla preistoria del capitalismo, liberazione delle potenzialità umane in una società di tutti in cui il potere sia di tutti e la “democrazia” sia reale. La democrazia come “potere di tutti” è un processo rivoluzionario di esperienze e situazioni di contropotere, dal basso, preparando le soggettività del cambiamento all’esercizio di un nuovo potere fondato sulla democrazia diretta e delegata con controlli dal basso. Non si tratta di sostituire una classe dirigente “democratica” a una classe dirigente oligarchica lasciando intatta l’organizzazione della società, i suoi attuali rapporti di produzione e di proprietà. Si tratta di rovesciare dal basso la piramide sociale, forti delle esperienze storiche dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, costruendo reti sociali di progettazione e di azione politica in una prospettiva di massimo socialismo e massima libertà, costruendo potere di resistenza e opposizione per poi esercitare la liberazione del “potere di tutti”. In molti casi si tratta di riprendere cammini interrotti e rimossi dalla sinistra di sistema, quella “sinistra” di cui Luigi Pintor aveva decretato la morte già negli anni novanta e che si è fatta destra, ruota di scorta di un sistema politico ed economico irriformabile. È questo il terreno fecondo di tante esperienze in corso: dalle reti sociali sulle tematiche dei “beni comuni”, ai comitati di cittadinanza attiva sulle tematiche ambientali, alle esperienze di cooperazione tra associazionismo ed enti locali, alle reti di insegnanti e studenti impegnati nella difesa della scuola pubblica, al sindacalismo attivo nei luoghi di lavoro, alle pratiche interculturali e di accoglienza degli immigrati, e il quadro, nelle sue positive diversità, è aperto e in divenire. La creazione di relazioni sociali di tipo nuovo, orizzontali e partendo dal basso, dalle periferie, fondate sulle persone attive come “centri” di un potere di tutti costruito nelle situazioni concrete, sulla conoscenza, la critica e l’informazione, sul controllo e la disarticolazione delle catene di comando oligarchiche, libera straordinarie potenzialità di uomini e di donne e prepara la libera autonomia di tutti, per una realtà che è comunque e sempre di tutti. Nel 1962, quando fortissimo fu il pericolo di una guerra nucleare tra Stati uniti e Unione sovietica, e il panico produceva una frenetica costruzione di rifugi antiatomici, nella sua seconda “marcia della pace” (Camucia-Cortona, sul confine tra Umbria e Toscana), Aldo Capitini si rivolse con queste parole ai partecipanti di quell’assemblea popolare in cammino: «Siete voi i nostri rifugi antiatomici!». Questa la risposta alle guerre: creare, organizzare società di persone consapevoli e attive, moltiplicando esperienze e situazioni di autonomia e di potere dal basso. In questo momento, in Italia, si vanno costruendo esperienze di radicale estraneità ai riti di un sistema politico sempre più concentrato, isolato e screditato; il fallimento del neo-liberismo di una sinistra perduta, alla vigilia di bombardamenti economici senza precedenti, ha prodotto guasti profondi, politici e culturali, in un’opinione pubblica sempre più disorientata e disinformata dai media, e il nuovo governo di destra commissariato da un’Unione europea (che non è l’Europa, di cui fa storicamente parte anche la Russia) al servizio delle strategie di guerra economica e militare degli Stati uniti e di una Nato che non dovrebbe neppure esistere dopo l’implosione dell’Unione sovietica, tenterà invano di “governare” processi ingovernabili se non con i soliti mezzi di distrazione di massa affidati a una vecchia politica tutta televisiva. La nuova composizione di classe di una società sempre più impoverita e in declino demografico, il nuovo proletariato precarizzato e implementato da settori estesi di ceto medio, favoriscono la ripresa di lotte sociali radicali e una necessaria ricerca di nuove soluzioni progettuali e di visione. L’esperienza della lotta in corso del collettivo della ex-Gkn di Campi Bisenzio, dalla fabbrica al territorio, alla costruzione di una rete nazionale di esperienze di autorecupero di fabbriche in crisi, alla cooperazione con i giovanissimi di Fridays for Future e ai movimenti contro la guerra, è un esempio significativo di questa fase della lotta di classe in Italia.

Si stanno moltiplicando le occasioni di confronto politico e culturale sulle questioni fondamentali: quale società, quale pace, quale socialismo. È il momento di attivare collegamenti, confronti, progettazioni e iniziative. La questione fondamentale è un socialismo senza aggettivi, in tempi di guerra e di catastrofe climatica a minaccia di estinzione della specie umana.

«Il Ponte», dal 1945 cantiere di elaborazione teorica sulla linea dell’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta-quaranta, delle esperienze di democrazia diretta “omnicratica” e socialista libertaria sperimentate da Capitini nell’immediato dopoguerra, e negli anni sessanta sui temi della pace e della guerra, è oggi più che mai un cantiere aperto ai nuovi movimenti, e uno strumento di collegamenti e iniziative condivise. Così come, naturalmente, seguiremo con grande attenzione quanto accadrà nel nuovo parlamento, nelle relazioni tra parlamento e movimenti, tra governo e opposizione parlamentare e sociale.

Dal 16 al 22 ottobre si terrà a Pechino la fase conclusiva del XX Congresso del Partito comunista cinese. Il socialismo “con caratteristiche cinesi” presenterà la sua strategia geopolitica multipolare, la sua linea di politica economica per il prossimo quinquennio. Nei media occidentali si insisterà sui temi dell’“autocrazia” del capo assoluto del partito, dei “diritti umani” calpestati e del pericolo giallo. Ai lavori del congresso dedicheremo articoli di analisi nei prossimi numeri della rivista, ma ci piace riproporre in questo il capitolo conclusivo dello scritto di Mao Sulla nuova democrazia (1940), a proposito di cantieri di progettazione e di visione nel passato e nel presente, a scuola della storia.

UNA CULTURA NAZIONALE, SCIENTIFICA E DI MASSA

La cultura di nuova democrazia è nazionale. Essa si oppone all’oppressione imperialista e si batte per la dignità e l’indipendenza della nazione cinese. Essa appartiene alla nostra nazione e ha le nostre caratteristiche nazionali. Essa è unita alla cultura socialista e alla cultura di nuova democrazia di tutte le altre nazioni, stabilisce con esse relazioni che permettono un assorbimento e uno sviluppo reciproci e forma insieme con esse una nuova cultura mondiale; in nessun caso può invece unirsi con la cultura reazionaria imperialista di qualunque altra nazione, perché la nostra è una cultura nazionale rivoluzionaria. La Cina deve assorbire in larga misura la cultura progressista dei paesi stranieri per farne materia della sua propria cultura; in passato questo lavoro non è stato fatto in misura sufficiente.

Dobbiamo assorbire tutto ciò che oggi può esserci utile, non solo dalla odierna cultura socialista e dall’odierna cultura di nuova democrazia, ma anche dalla cultura straniera del passato, come quella dei paesi capitalisti nell’era dell’Illuminismo.

Dobbiamo però considerare questo materiale straniero come un alimento che va masticato nella bocca e digerito nello stomaco e nell’intestino, mescolandolo con la saliva, i succhi gastrici e le secrezioni intestinali, finché resta diviso in due parti, la sostanza nutritiva che viene assimilata e il materiale di rifiuto che viene evacuato: solo
così un alimento arreca beneficio al nostro organismo; in nessun caso dobbiamo accogliere acriticamente questi alimenti e divorarli in un solo boccone. Sostenere l’“occidentalizzazione in blocco” è un errore. La Cina ha grandemente sofferto in passato per l’assorbimento puramente formale di elementi stranieri. Allo stesso modo, nell’applicazione del marxismo alla Cina, i comunisti cinesi devono unire in modo pieno e appropriato l’universale verità del marxismo con la pratica concreta della rivoluzione cinese; ciò significa che il marxismo sarà utile solo se si integra con le caratteristiche nazionali e assume una definita forma nazionale; in nessun caso esso deve essere applicato in maniera soggettiva e schematica. I marxisti schematici non fanno altro che giocare con il marxismo e con la rivoluzione cinese e non c’è posto per loro nelle file della rivoluzione cinese. La cultura cinese deve avere una sua forma, cioè una forma nazionale. Nazionale nella forma, di nuova democrazia nel contenuto: questa è la nostra nuova cultura di oggi.

La cultura di nuova democrazia è scientifica. Essa si oppone a tutte le idee feudali e superstiziose, vuole ricercare la verità nei fatti, vuole la verità oggettiva e l’unità tra teoria e pratica. Su questo punto il pensiero scientifico del proletariato cinese può costituire un fronte unito contro l’imperialismo, contro il feudalesimo e contro la superstizione insieme con i materialisti e gli scienziati della borghesia cinese ancora progressisti, mentre non può in nessun caso costituire un fronte unito con qualsivoglia idealismo reazionario. I comunisti possono formare un fronte unito antimperialista e antifeudale sul piano dell’azione politica con alcuni idealisti e perfino con seguaci di dottrine religiose, ma in nessun caso possono approvare il loro idealismo e le loro dottrine religiose. Una splendida cultura fu creata durante il lungo periodo della società feudale cinese. Studiare il processo di sviluppo di questa antica cultura, eliminarne le scorie feudali e assorbirne l’essenza democratica è una condizione necessaria perché si sviluppi la nostra nuova cultura nazionale e la nazione aumenti la sua fiducia in se stessa; ma in nessun caso dobbiamo assorbire qualunque cosa acriticamente. Dobbiamo separare tutte le cose decrepite della vecchia classe dominante feudale dall’eccellente cultura popolare antica, che aveva un carattere più o meno democratico e rivoluzionario. Come l’attuale nuova politica e l’attuale nuova economia in Cina si sono sviluppate dalla vecchia politica e dalla vecchia economia, così anche l’attuale nuova cultura cinese si è sviluppata dalla vecchia cultura e noi dobbiamo rispettare la nostra storia e non tagliarci fuori da essa. Ma rispettare la storia significa dare alla storia un posto definito tra le scienze, significa rispettare il suo sviluppo dialettico e non esaltare il passato per condannare il presente, né lodare i velenosi elementi feudali. Riguardo alle masse popolari e ai giovani studenti, è essenziale insegnare loro non a guardare al passato, ma all’avvenire. La cultura di nuova democrazia appartiene alle masse; per questo è democratica.

Essa deve essere al servizio delle masse lavoratrici operaie e contadine, che costituiscono più del 90 per cento della popolazione nazionale e deve gradualmente diventare la loro cultura. Occorre che ci sia una differenza di grado e nello stesso tempo uno stretto legame tra le conoscenze da impartire ai quadri rivoluzionari e quelle da impartire alle masse rivoluzionarie, come anche tra l’elevamento del livello culturale e la popolarizzazione. La cultura rivoluzionaria è per le masse popolari una poderosa arma rivoluzionaria. Prima della rivoluzione, essa prepara ideologicamente il terreno e, durante la rivoluzione, è un settore necessario e importante del generale fronte rivoluzionario. Gli intellettuali rivoluzionari sono i comandanti di vario grado su questo fronte culturale. “Senza teoria rivoluzionaria, non vi può essere movimento rivoluzionario”; da questa frase appare chiaramente quale importanza ha il movimento culturale rivoluzionario per il movimento pratico della rivoluzione. Sia l’uno sia l’altro appartengono alle masse. Tutti gli intellettuali progressisti devono perciò avere il loro esercito culturale nella Guerra di resistenza contro il Giappone, e questo esercito è costituito dalle masse popolari. Un intellettuale rivoluzionario staccato dalle masse popolari non è che “un generale senza esercito” e la potenza del suo fuoco non è certo in grado di abbattere il nemico. Per la realizzazione di questo obiettivo, bisogna riformare, in determinate condizioni, la nostra lingua scritta e rendere più vicina a quella delle masse popolari la nostra lingua parlata; tutti devono comprendere che le masse popolari sono la sorgente inesauribilmente ricca della nostra cultura rivoluzionaria.

La cultura nazionale, scientifica e di massa è la cultura antimperialista e antifeudale delle masse popolari, è la cultura di nuova democrazia, la nuova cultura della nazione cinese. Dalla fusione di politica, economia e cultura di nuova democrazia risulterà una repubblica di nuova democrazia, la Repubblica cinese di nome e di fatto, la nuova Cina che noi vogliamo creare.

La nuova Cina è in vista. Salutiamola con gioia! Il suo albero maestro è già spuntato all’orizzonte: applaudiamo e gridiamo il nostro benvenuto!

Leviamo in alto le braccia: la nuova Cina è nostra!

Riletto oggi, questo capitolo finale dello scritto di Mao Sulla nuova democrazia, (traduzione di Silvio Bernardini, da Mao Tse-Dun, Scritti scelti, vol. 3, Roma, Edizioni Rinascita 1955) può fare da specchio di riflessione per molti nostri ragionamenti sulla democrazia, sui suoi necessari fondamenti culturali (molto interessante il riferimento alla cultura illuministica europea), sul ruolo centrale degli intellettuali rivoluzionari, sull’indispensabile «fusione di politica, economia e cultura di nuova democrazia». Una nuova democrazia socialista “con caratteristiche cinesi”. E una nuova democrazia socialista con caratteristiche italiane, profondamente inserita nelle culture dell’Europa dall’Atlantico agli Urali e del mondo? Come suol dirsi, apriamo il dibattito.