Ottant’anni fa, a Porzûs, partigiani di una brigata Osoppo cadono per mano di partigiani comunisti. Fra i caduti c’è il giovane Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo che verrà assassinato trent’anni dopo. Lo scrittore, l’intellettuale impegnato, il poeta Pasolini vivrà la fine del fratello in modo bruciante, probabilmente per il resto della vita. Tutto questo ci riguarda. C’è giustizia nella storia? È possibile una storia rivolta alla giustizia? Ma è pensabile una storia senza la giustizia? E ancora. Si può storicizzare l’ingiustizia? e giustificare la storia?
Su Guido, nel 1945 il fratello pubblica tre poesie in friulano[1]. Tengo da parte la prima, che mi sembra meno significativa. Nella seconda il profilo del caduto è netto, al punto che la sostanza morale e civile prevale sugli affetti familiari, perché l’ha chiamato a un dovere ineludibile:
La libertat, l’Italia
e qissà diu cual distin disperat
a ti volevin
dopu tant vivut e patit
ta qistu silensiu.
Cuant qe i traditours ta li Baitis
a bagnavin di sanc zenerous la neif,
«Sçampa – a ti an dita – no sta tornà lassù»
I ti podevis salvati,
ma tu
i no ti às lassat bessoi
i to cumpains a murì.
«Sçampa, torna indavour»
I ti podevis salvati
ma tu
i ti sos tornat lassù,
çaminant.
To mari, to pari, to fradi,
lontans
cun dut il to passat e la to vita infinida,
in qel dì a non savevin
qe alc di pì grant di lour
al ti clamava,
cu’l to cour inossent[2].
La terza, desolata, sottolinea l’assenza in modo così determinato che ne fa una vivida presenza, una sagoma solida, oltre la dicibilità delle cose e dei sentimenti:
Eco, qistu mond
par te a no ’l è,
e par nu al è.
E tu par te i no ti sos,
e par nu sì.
A è massa granda qista diferensa
par podei mai pensala:
e nu i restan coma l’erba tal prat
e li nulis tal seil.
O fradi,
tu i ti restis, par nu:
s’i no podin toçà pi il to cuarp,
se i no savinu di te?
Il to martiriu, il to amour, il to sanc,
oh Crist[3].
Nelle due, il vuoto lasciato dalla morte è lancinante, ma gagliardo è il coraggio di Guido, che non ha esitato a esporsi al pericolo (mentre tornava alla sua formazione fu avvisato della trappola mortale ma proseguì). Non c’è ancora la richiesta di giustizia per l’assassinio.
Fra i versi in italiano esiste una poesia scritta non più tardi del febbraio 1946. Anche qui compare la determinazione di Guido nel dirigersi di nuovo a Porzûs:
Porzûs, lacrima dai crinali,
scuoti i rari rami,
offusca il bagliore della neve.
Un anno fa eri uguale,
ora noi ti calpestiamo
e tu non senti che il cielo?
Nell’anniversario non sei
che neve e silenzio?
Don Candido mormora pregando,
duemila uomini tacciono
nel mortale candore dei monti.
(Ecco sulla porta Enea,
Bolla, i mitra appoggiati…
Ecco la china
per dove quel giorno
egli saliva…)
No, Guido, non salire!…
Non ricordi più il tuo nome?
Ermes, ritorna indietro,
davanti c’è Porzûs contro il cielo,
ma voltati, e alle tue spalle
vedrai la pianura tiepida di luci,
tua madre lieta, i tuoi libri…
Ah, Ermes, non salire,
spezza i passi che ti portano in alto,
a Musi è la via del ritorno,
a Porzûs non c’è che azzurro[4].
In versi è, nel 1954, l’apparizione di Guido durante un comizio del Msi, a Roma; la poesia confluisce in Le ceneri di Gramsci:
Per la prima volta, dall’inverno
in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,
nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere
con vera dignità, con furia indenne
d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne…
Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,
il troppo puro, che deve andare a capo chino?[5].
Sempre in versi è La resistenza e la sua luce, pubblicata in La religione del mio tempo, la raccolta edita nel 1961, nel capitolo La ricchezza (1955-1959)[6]. Questo è l’inizio:
Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Nel seguito grandeggia un quadro storico insieme familiare e nazionale, con lo sfollamento, la partenza di Guido per unirsi a partigiani, le vaste presenze della montagna e del piano. Poi:
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile…
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
Con l’insistenza sullo stile e sulla luce – uniche parole seguite da puntini, quasi campaniani, come ha qualcosa di Campana la sensibile iterazione – il poeta strappa l’assassinio alla cronaca, all’angustia degli eventi bellici, per slargare il campo in una visione immensa. Non ci sono né rassegnazione né perdono confessionale, e la giustizia campeggia così forte da assumere la maiuscola – conosciamo la forza delle maiuscole, in Pasolini. Dalla vigilia si passa alla luce, sempre più vasta, sempre più precisa, fatta di coscienza del territorio e di presenza del popolo: il popolo che lotta per una divisione umana della ricchezza. Un’alba della storia.
Il fatto che Guido sia stato ucciso non viene direttamente esplicitato; però il sangue è consegnato all’intuito della madre, «già conscia del destino», e forse a quella riga vuota, fra «luce» e «quella luce». Una riga accecante. L’esigenza irrinunciabile di giustizia per il fratello si invera, si fa adulta dentro un riscatto storico epocale: lotta di classe, redistribuzione della ricchezza, vita autentica. Il verso in cui storia, giustizia e coscienza compaiono insieme ha una forza grandiosa. Non c’è una rinuncia alla giustizia sul caso singolo, ma c’è la tensione verso una giustizia per tutti, fatta di cambiamento della storia nel senso di un grande riscatto della società. Con queste caratteristiche, la posizione di Pasolini in La resistenza e la sua luce è coerente con quegli anni – appunto, religione del mio tempo. Oggi c’è da chiedersi se, con l’eclissi della grande proposta strutturata di cambiamento sociale (ma non certo sparita quella necessità di cambiamento), ci si possa permettere di non insistere sulla giustizia più episodica e perimetrata. Nel 1961, quando esce La religione del mio tempo, il mondo vive una fase eccezionale di progresso ed emancipazione; si pensa in grande e quindi si trascura il singolo caso. Ma chiusa quella fase, è giusto dimenticare il singolo caso perché allora si riusciva a pensare in grande e oggi si stenta?
Nella stessa raccolta Pasolini scrive A un ragazzo, una composizione complessa in cui il tema di Guido viene ripreso[7]. La questione si sdoppia, si lacera: i versi si rivolgono a un ragazzo vivo, a Roma – è Bernardo Bertolucci – , che vuole sapere (un verbo tutto al maiuscolo); per il poeta l’unico che potrebbe rispondere è proprio il fratello, e qui compaiono Casarsa, la guerra, la Resistenza – vi è il cenno alla pistola di Guido nascosta in un libro di Montale – e, tremenda, la morte. In A un ragazzo si legge con chiarezza che Guido non è più, ma si tace che non è caduto con le armi e che è morto per mano di partigiani. A prendere tutto lo spazio è la questione presente-passato; eppure anche solo rammemorare è quasi una colpa («è vizio il ricordare, anche se è dovere») e la domanda iniziale rimane senza risposta: «Ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, / finirà non chiesto, si perderà non detto».
Pasolini ricorda suo fratello – brevemente, considerando le dimensioni dello scritto – anche all’interno di Vittoria, la composizione che chiude Poesia in forma di rosa, raccolta pubblicata nel 1964[8]. Siamo nel periodo della svolta di centrosinistra e Vittoria, un testo alto, duro, furiosamente abbarbicato alla storia, un testo controcorrente che comincia «Dove sono le armi?», chiede violenza e si rammarica che la stagione resistenziale sia chiusa («ogni aprile / rosso, di gioventù, è passato»); poi deride amaramente la socialdemocrazia e accusa gli intellettuali, «drudi» del potere economico. Compaiono i partigiani, vestiti e armati come allora; a vent’anni dalla fine della guerra sono quasi degli estranei:
Toccheranno, rozzi come barbari poveri,
le nuove cose che in questi due decenni l’uomo
crudele si è dato, cose inette a commuovere
chi cerca giustizia…
Sulla scena ci sono Togliatti e Nenni, presentati senza riguardi ma senza acredini; Pasolini bada più alla mutazione della produzione e del consumo, che alle alleanze partitiche e ai posizionamenti. Questo non gli impedisce di richiamarsi alla giustizia partigiana, quando ricorda i grandi capitalisti e mette proprio sulle labbra di Nenni queste parole:
Coloro poi che hanno sottratto al bene comune
capitale prezioso, e che nessuna legge può
punire, ebbene, andate, legateli con la fune
dei massacri. In fondo a Piazzale Loreto
ci sono ancora, riverniciate, alcune
pompe di benzina, rosse nel quieto
solicello della primavera che riviene
col suo destino: è ora di rifarne un sepolcreto.
Infine i partigiani, e con loro Guido, si allontanano:
Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro
umile della famiglia, grossa testa di secondogenito,
mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo
tra le foglie secche, i caldi fieni
di un bosco delle prealpi – nel dolore
e la pace d’una interminabile Domenica…
Eppure, questo è un giorno di vittoria!
Considerando i testi in prosa, c’è una lettera a Luciano Serra scritta da Versuta il 21 agosto 1945[9]. Per Guido, che si è gettato nella Resistenza sin da settembre 1943 e che ha dato prova di valore in combattimento, l’ammirazione è enorme: «Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi». Nel riassunto dei fatti si legge:
Ha scelto la libertà, che vuol dire lealtà, generosità, sacrificio. Da alcuni mesi un gruppo di traditori si dava d’attorno per tradire la causa di quella libertà, e vendersi a Tito; gli osovani di quella zona, a capo dei quali era De Gregoris (Bolla) col suo stato maggiore a cui apparteneva Guido, non volevano piegarsi alle richieste slavo-comuniste di passare nelle file del nostro nemico Tito.
Si legge anche che Guido era iscritto al Partito d’azione, ed è citata una sua lettera: «Ti mando una copia del programma del partito d’azione al quale ho aderito con entusiasmo. Quanti ho conosciuto del P.A. sono persone onestissime miti e leali: veri italiani». Lo scrittore, ricordando un altro partigiano morto mormorando la stessa appartenenza politica, conclude: «Spinto da queste circostanze anch’io mi sono iscritto a questo Partito».
Pasolini scrive anche una lettera, nel 1948, al direttore del «Mattino del Popolo»[10]. Il documento – c’è un’informazione preziosa: il fratello, prima di iscriversi al Partito d’azione, aveva iniziato la Resistenza come comunista – è eccezionalmente risoluto, consapevole. Non si fanno favori né ai democristiani né ai comunisti:
Due partiti, sullo sfondo di uno sconvolto cielo di confine, si contendono la competenza richiesta per estrarre dalle tremende cronache del ’44-’45 quei fatti e assumerli su un accomodante piano di storia o di leggenda. […] Come fratello di uno di quei morti io mi rifiuto di prestare il mio dolore in qualità di argomento atto a sostenere la tesi di un partito che si è costituito protettore e difensore dei martiri di Porzùs contro un partito nelle cui file militavano gli assassini. So infatti, senza timore di ingannarmi – per l’amore pudico e confidente che mi legava a Guido – che mio fratello e i suoi compagni osovani si trovano con i loro assassini in un rapporto che è semplicemente l’antinomia Bene-Male; così essi – per chi ricerchi senza bende sugli occhi la verità – non sono morti in nome della «Patria», ma in nome di quello che il simbolo «Patria» rappresentava nel 1945 per chi combatteva contro i Tedeschi: sono morti, cioè, in nome di quella Spiritualità che essendo una categoria dell’uomo esisteva potenzialmente anche nei loro carnefici. Se dunque vogliamo che essi, in nome di quella Spiritualità, continuino a vivere, è a Loro che dobbiamo pensare e non ai caduchi simboli umani per cui hanno dato la vita.
Inquadrata così bene la questione in termini generali – Spiritualità, ancora una maiuscola – , qui la giustizia compare eccome, e non solo in termini sociali, anche sotto forma di resa dei conti per i colpevoli:
Contro la tesi retorico-patriottica dei democristiani si trova una tesi dialettica dei comunisti (che preferiscono però passare sotto silenzio la questione) ugualmente inaccettabile. Essi, così almeno suppongo, sono convinti che il nazionalista osovano Bolla fosse da eliminarsi e con lui i suoi «innocenti» compagni, e credono con maggiore o minore sincerità, che il fatto rientri nella necessità implacabile della storia del partito. Ma esiste un’altra necessità implacabile, un’altra storia, la quale pretende che gli «errori siano pagati», e non c’è dialettica che si opponga al corso naturale della giustizia. I miei compagni comunisti farebbero bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera…
Del resto anche nelle parole del padre, Carlo Alberto Pasolini, c’è una richiesta di giustizia, ferma e forse meno severa. Siamo all’epoca del processo sull’eccidio:
Sono il padre di Pasolini Guido (Ermes) e desidererei che venisse fatta luce sul fosco dramma di Porzûs non per spirito di vendetta, ma perché è giusto che la mano assassina che ha colpito mio figlio sia condannata a non più nuocere […] È stato per me un grande dolore, non il sapere della sua morte, ma il sapere che è stato ucciso dai suoi stessi compagni e con tanta brutalità[11].
È più complessa, la perdita del fratello, nel dramma I Turcs tal Friùl, ambientato nel Quattrocento e pubblicato postumo. La datazione è controversa: 1944 o 1945, cioè prima o dopo la morte di Guido. C’è chi ritiene che sia del 1945 ma venga retrodatato dall’autore al 1944 e lasciato inedito perché i turchi invasori, in realtà, non rappresentano i tedeschi ma gli slavi comunisti[12].
Sempre in prosa sono significativi due testi ritrovati fra le carte e fatti conoscere da Enzo Siciliano. Uno sarebbe del giugno 1945, per la traslazione della salma; conclude:
Solo noi possiamo piangerli, che sappiamo come parlavano, come ridevano, come ci amavano. Solo noi possiamo piangerli, che sappiamo come erano ben vivi, e come accoratamente desideravano tornare tra noi, nelle loro case, alla loro cara esistenza. Gli estranei, no, non possono piangerli se non brevemente: per gli estranei questo non può essere che un tragico episodio, un necessario martirio. È giusto, è umano che sia così. Ma noi alla società non chiediamo lacrime, chiediamo giustizia[13].
L’altro, secondo Siciliano, è di due anni dopo, per una commemorazione. Pasolini si rammarica di come si è svolta la cerimonia («è mancata di sincerità; di sincerità, dico, non di buona fede»). Poi, come nei versi del 1945, ricorda che Guido e un altro partigiano, benché avvertiti del pericolo, avevano deciso di proseguire; infine conclude: «Come possiamo ora noi, loro famigliari, considerare inutile quel martirio, perché l’Italia deve firmare una pace ingiusta e perdere parte del territorio? È in quel martirio che si è attuata una incorruttibile utilità»[14]. Il commento di Siciliano ci serve solo a capire meglio la sostanza:
L’ottica è chiara; polemica contro chi, pur di accettare un compromesso di pace con la Jugoslavia, anteponesse la cessione dell’entroterra carsico a qualsiasi valutazione di «moralità» dell’eccidio. Nel salvare la «moralità» come espressione di un sentimento civile, Pasolini sottraeva il trauma sofferto per la morte del fratello alla sfera del privato. Ma quella morte diventava un emblema, la fonte di luce nell’alba nascente, «fuori dall’eternità dello stile»[15].
Il biografo ci propone testi altrimenti quasi irrecuperabili, ma la chiosa è limitata. Pasolini in queste prose vede Porzûs in grande, come nei versi, e non c’è una sottrazione né al privato né al pubblico: convinzione e grandezza li abbracciano e innalzano entrambi. La morte di Guido non diventa un emblema e il rapporto fra l’integrità territoriale italiana e l’eccidio non è sentito in quel modo. Un’altra nota del biografo, indirettamente, ci stimola: «Guido era morto “sui confini”. Quei “confini” svelarono a Pasolini una realtà tragica, fino ad allora simulata dietro il velo dei problemi linguistici. Il mondo dei “confini” poteva richiedere persino sacrificio di vite umane, e con questo cancellare ogni consolatrice idea letteraria»[16].
È vero che Guido muore sui confini – in senso politico, oltre che geografico: giovanissimo si è riscattato dal fascismo, ha scelto il comunismo, poi è passato all’azionismo. Ma il rapporto tra realtà e funzione della letteratura è più profondo, nello scrittore. Il malinteso del biografo, d’altra parte, è un perno per tentare un riassunto sul tema della giustizia.
Pasolini è di fronte sia a un crimine in cui stridono questione nazionale e rivoluzione, quindi anche passato e futuro – in Vittoria questo emerge con più forza – , sia a un conflitto epocale connesso all’economia, alla tecnologia, all’autorappresentazione e alla progettazione del mondo. La sua attenzione è proiettata in avanti e allo stesso tempo ancorata al passato, perché vuole il cambiamento profondo del futuro. Anche la comparsa dei partigiani che poi si allontanano, in Vittoria, anche il tentativo di trattenere il fratello, anche quell’appello disperato in friulano nel 1945, «sçampa, torna indavour», anche il sorriso di Guido in Comizio, possono essere letti come percezione del flusso della storia, che mentre presuppone coscienza del passato esige progetti.
Dentro la richiesta di giustizia per Guido – si manifesta un po’ alla volta e in modi diversi fra poesia e prosa – la concretezza significa in fondo scontare; insieme c’è la richiesta di umanità, di condivisione, di socialismo nel modo più completo e di patria nel senso più scevro di nazionalismo, di dominio, di superiorità. Guido era morto sui confini, ma sui confini Pier Paolo voleva vivere, perché sotto ogni aspetto il suo lavoro culturale, le sue frequentazioni, le sue curiosità non mancavano di schierarsi con franchezza e non rinunciavano a urticanti distinguo, facendo di lui un eterno, tenace straniero – su questo, c’è un’ombra di Camus.
La posizione di Pasolini, allora, deve esserci di insegnamento e può solo in parte esserci di modello. Mi riferisco alla parte in cui l’esigenza di giustizia sul caso concreto resta fra parentesi. Oggi le conquiste della Resistenza sono consegnate a testi – soprattutto alla Costituzione – affidati sia a forze politiche compromesse, quando non votate al tradimento della Repubblica, sia alla fragile virtù dei giuristi; al contempo manca un progetto rivoluzionario internazionale. Mettere da parte la giustizia sui singoli casi, di ciò che oggi chiamiamo genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nel nome di un ridisegno della società, se allora aveva un senso – eppure, già Pasolini: «non c’è dialettica che si opponga al corso naturale della giustizia» – , oggi è una rinuncia senza neanche una contropartita promessa. Oppure, quando l’ingiustizia si tinge di umorismo nero, è una stanca ripetizione dello scongiuro, del mai più che fiorisce immancabile nei giardini delle commemorazioni.
Di ben altro spessore, rispetto alle retoriche diversive, Pasolini. E a questo punto viene da interrogarsi partendo dal titolo del suo romanzo liminare, Il sogno di una cosa, scritto prima di Ragazzi di vita e Una vita violenta. È ambientato nel mondo contadino del Friuli, nella seconda metà degli anni Quaranta, ed è fermo alla fase che lo scrittore si lascerà dietro, dopo, col dérèglement alla Rimbaud e con l’esilio (ancora un confine) nella capitale luccicante, maleodorante, seducente, fatta di vita intellettuale, di religiosità sontuosa e pagana, di borgate febbrili. Il titolo viene da Marx, da una lettera ad Arnold Ruge del settembre 1843, poi negli «Annali franco-tedeschi»: «Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato»[17].
È quel sogno di una cosa, a possedere una particolare fascinazione. Aiuta appena a tratteggiarla Maurice Halbwachs, morto a Buchenwald nel 1945 – si spegne sulla soglia della salvezza, ancora una storia liminare – , quando scrive:
Noi abbiamo mostrato che, a rigore, non ci si ricorda dei sogni, o piuttosto che si possono ricordare solo fatti in prossimità del risveglio. L’operazione della memoria presuppone una capacità costruttiva e razionale della mente, di cui questa sarebbe incapace durante il sogno, in assenza cioè di un ambiente sociale e naturale ordinato, coerente, di cui riconosciamo in ogni istante l’insieme[18].
I sogni, sembra dirci l’autore della teoria dei quadri sociali della memoria, servono a progettare. Già, ma cosa? Il film La Classe operaia va in paradiso, di Elio Petri, chiude col racconto di un sogno, gridato alla catena di montaggio, nel passaparola degli oppressi: di là dal muro c’è la nebbia, nella nebbia chi sogna rivede i compagni, i morti, se stesso.
[1] «Il Stroligut», agosto 1945, n. 1, pp. 3-4. Le composizioni sono presentate come Còrus in muart de Guido, numerate XXIV, XXV e XXVI; qui sono trascritte la XXV e la XXVI.
[2] «La libertà, l’Italia e sa Dio qual destino disperato ti volevano, dopo tanto vivere e patire, in questo silenzio. Quando i traditori alle baite bagnavano di sangue generoso la neve, “scappa – ti hanno detto – non stare a tornar lassù”. Potevi salvarti, ma tu non hai lasciato i tuoi compagni a morire soli. “Scappa, torna indietro”. Potevi salvarti, ma tu sei tornato lassù, a piedi. Tua madre, tuo padre, tuo fratello, lontani con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, quel giorno non sapevano che qualcosa di più grande di loro ti chiamava, col tuo cuore innocente».
[3] «Ecco, questo mondo non è per te, è per noi. E tu non sei per te, sei per noi. È troppo grande questa differenza per poterla mai pensare: e noi restiamo come l’erba nel prato e le nuvole nel cielo. Oh fratello, tu resti, per noi: se non possiamo più toccare il tuo corpo, cosa sappiamo di te? Il tuo martirio, il tuo amore, il tuo sangue, oh Cristo».
[4] Giovanni Falaschi (a cura di), La letteratura partigiana in Italia 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 263-264, che cita il quotidiano «Libertà», 10 febbraio 1946; in questa citazione e nelle successive i puntini sono nell’originale.
[5] Pier Paolo Pasolini, Comizio, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, pp. 30-31.
[6] Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo primo, pp. 472-473.
[7] Ivi, pp. 479-486.
[8] Ivi, pp. 813-825.
[9] Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici (1941-1945). Con un’appendice di scritti giovanili, a cura di Luciano Serra, Ugo Guanda Editore, 1976, pp. 43-49.
[10] Pier Paolo Pasolini, Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Ugo Guanda Editore, Parma 1993, pp. 182-185.
[11] Marco Cesselli, Porzûs: due volti della Resistenza, La Pietra, Milano 1975, p. 126.
[12] Andrea Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio, Venezia 2022, pp. 141-148.
[13] Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005, p. 106.
[14] Ivi, pp. 106-107.
[15] Ivi, p. 107.
[16] Ivi, p. 104.
[17] Arnold Ruge e Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo, Massari editore, Bolsena 2001, p. 75.
[18] Maurice Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, trad. I quadri sociali della memoria, Meltemi, Milano 2024, p. 52.